Forse già il titolo del libro di Guido Liguori (Berlinguer
rivoluzionario, Carocci) è in esplicita polemica contro le correnti
celebrazioni ageografiche di Berlinguer. Ridotto a icona pop, su cui può
pontificare Jovanotti, a critico della casta, su cui possono convergere
Grillo e Casaleggio, a ispiratore di un governo dei tecnici, su cui può
ricamare Scalfari, a una brava persona, su cui tutti possono convenire
senza lesinare negli apprezzamenti, il leader comunista perde ogni
peculiare tratto distintivo.
Le immagini edificanti di oggi, nascondono il volto vero di
Berlinguer, che Liguori dipinge come un comunista democratico,
protagonista, con il suo realismo politico rivoluzionario, della storia
della repubblica. E su questo profilo è giusto insistere, anche perché è
innegabile, nei toni santificanti di oggi, la rimozione totale del
legame tra Berlinguer e la vicenda storica del comunismo nell’Italia
repubblicana e nella scena mondiale. Come si fa a tagliare da Berlinguer
la sua mai rinnegata fedeltà ai principi, il suo richiamo a Lenin e
persino al centralismo democratico, il suo attaccamento alla classe
operaia animata da una vitale spinta anticapitalista, il suo impegno per
un superamento graduale del sistema dello sfruttamento?
E’ un Berlinguer biondo quello che viene venduto dagli apologeti di
oggi, che spacciano un santino innocuo che tutti possono amare. Il
ragazzo scuro che, poco più che ventenne, entrò nel mitico comitato
centrale, e mise piede nella aristocratica direzione di quella
enigmatica chiesa rossa che era il Pci, era altra cosa, un politico che
concedeva in modo totale la propria vita per una causa di
trasformazione. Ad una politica concepita in questo modo, ossia come una
scelta integrale per cambiare il mondo e la vita, era connessa la
dimensione teorica (ma anche quella dell’estremo sacrificio personale in
un palco di Padova) come un aspetto essenziale.
Per questo Liguori sceglie di interpretare “il pensiero politico” di
Berlinguer. Non per iscriverlo alla storia delle dottrine, ma perché un
prestigioso leader comunista era inconcepibile senza un solido pensiero
politico. La strategia politica implicava il supporto di una analisi
complessa, l’uso di riferimenti testuali ai classici, con citazioni ben
calibrate a seconda delle esigenze del momento, una attenta elaborazione
storico-sociale, una dimestichezza con le relazioni internazionali. Un
capo politico era anche un raffinato intellettuale.
La leadership di Berlinguer ha avuto due distinte fasi (la consueta
dizione “due Berlinguer” è però eccessiva non essendoci una cesura, ma
una diversa mescolanza di elementi eterogenei, il politico e il sociale,
che sussistono, anche se in proporzioni alterate, in entrambi i
momenti). La prima si misura con il consolidamento democratico, con la
crisi economica e i governi di solidarietà nazionale, con la maturazione
di un processo di legittimazione come forza di governo. Su questa fase
storico-politica, Liguori coltiva qualche dubbio. Ne rimarca i ritardi
di elaborazione, ne evidenzia i segni di moderatismo (concetto però un
po’ troppo severo per dirigenti come Amendola, Macaluso o Lama che
spingevano sì verso un’ottica di governo ma che erano, al pari di Ingrao
o di Tortorella, pur sempre dentro la tradizione della comune sintesi
togliattiana), ne evidenzia la rottura sentimentale con parti rilevanti
delle nuove generazioni.
L’opinione di Liguori è che i limiti della cultura del compromesso
storico rinviino alla ostilità verso il nuovo biennio rosso scoppiato
con il ’68, e alla persistenza di uno schematismo d’ascendenza
togliattiana troppo incentrato sui partiti, le istituzioni e gli attori
politici. A questa stagione di politicismo chiuso ai movimenti, l’autore
preferisce i primi anni ’80, che videro un Berlinguer con ”l’artiglio
dell’opposizione” ritrovare quella connessione simpatetica con le masse
che gli anni della solidarietà nazionale avevano alquanto incrinato.
L’elemento di verità di questa considerazione di Liguori è che in
effetti il Berlinguer di lotta e di movimento percepì il ritorno del
calore sempre rassicurante di una sintonia con la base. Però un elemento
di riflessione va sollevato. Liguori è molto critico con la gestione
della solidarietà nazionale e ricorda che nel 1979, scendendo il Pci dal
34,4 al 30,4, “gli elettori la bocciarono clamorosamente”. Un Pci che
cedeva terreno all’astensione e in parte ai radicali, e restava comunque
ampiamente sopra il 30 per cento (e che stoppava il già competitivo Psi
craxiano, bloccato al 9,8), per certi versi incassava un risultato
miracoloso.
Quando un partito ritenuto antisistema si incammina con una grande
coalizione verso la necessaria legittimazione in una democrazia
sbloccata, con un contingente e preventivato sacrificio di forze vissuto
come fase preliminare alla conquista del suo ruolo egemonico che lo
candida quale polo di una alternativa di governo, non può permettersi di
fermarsi in un limbo indefinito. Non può rompere un’esperienza ardua
(una volta deliberata e in nome della stabilità di governo come valore
in sé: proprio in questo Berlinguer innovò rispetto alla tradizione
comunista occidentale) senza aver prima ottenuto la posta in gioco di
una politica costosa e anche molto impopolare: l’ingresso a pieno titolo
nel governo.
La rottura della solidarietà nazionale, senza la piena legittimazione
del Pci, segnò la fine della prima repubblica, perché favorì la genesi
del regime stagnante e regressivo del pentapartito. Rimane vero quello
che dice Liguori, e cioè che l’iniziativa di massa e le grandi
mobilitazioni operaie restituirono credito al Pci e regalarono una
simpatia enorme al suo leader che, spesso in minoranza negli organismi
dirigenti, aveva imboccato “una strada solitaria”. Però, con le
oscillazioni tra il governo “degli uomini capaci”, le nuove sensibilità
rosso-verdi e le simpatie per i guerriglieri e sacerdoti del Guatemala,
il Pci si aggrappava ad una zolla di accanita resistenza e viveva un
appannamento strategico. Il ripartire dal sociale per “la riconquista
della classe”, scelta quasi inevitabile dopo la rottura brusca del 1979,
era anche un segno di difficoltà teorica (good bye Lenin?).
Quella “politica sempre più per issues”, che Liguori presenta come un
momento di innovazione positiva, in realtà era anche il segnale
ineludibile di una mentalità “post-materialista” diffusa ormai in tutto
l’Occidente che enfatizzava con il lessico dei diritti una usura della
identità comunista o anche socialdemocratica. Politiche per i diritti
civili (per le coppie di fatto, per la nuova sessualità, per l’ambiente)
sono cruciali ma non sono di per sé peculiari aspetti o esclusivi
ingredienti di una prospettiva comunista: mentre la liberazione della
classe operaia sì che lo è. Non è comunque vero quello che oggi si
afferma, e cioè che il Pci morì con i funerali di Berlinguer.
Non si trattava di un partito leaderistico, rammenta Liguori. E
quindi neanche la scomparsa di un capo carismatico ne spiega il decesso.
Il Pci morì quando il suo splendido edificio barocco, con gerarchie di
papi, cardinali, vescovi, preti, credenti non seppe trovare il
successore adeguato. Affidando il comando a Occhetto, sedotto proprio
dalla sua politica per issues (carovane, club, legge elettorale,
referendum sulle preferenze e sul finanziamento pubblico, rimozione di
Togliatti etc.), il gruppo dirigente del Pci non aveva saputo scegliere
l’erede con la cultura giusta, e quindi con i secondi funerali di
Togliatti aveva chiuso davvero la bottega oscura.
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