domenica 29 giugno 2014

La decrescita non è un'alternativa di Pierluigi Fagan

Tis the time’s plague when madmen lead the blind”.
W. Shakespeare King Lear (Atto IV°, scena prima)

dollLe opinioni ed il dibattito su quel composito mondo di stimoli ed idee che cade sotto il termine -decrescita-, partono da un assunto. Questo assunto risale al momento nel quale questo termine, ed il successivo movimento di idee che lo seguì, nacque.
Eravamo ai primi degli anni ’70 e a cominciare dall’economista franco-rumeno N. Georgescu Roegen, ma in contemporanea nel movimento dell’ecologismo scientifico e nelle analisi del Club of Rome, nonché in certa cultura sistemica, si prese coscienza del semplice fatto che una crescita infinita (modello economico dominante) in un ambito finito (pianeta), era impossibile. Prima che impossibile era assai dannoso per le retroazioni che si sarebbero innescate sia in termini ecologici, sia negli stessi termini economici termini che avrebbero portato con loro, pesanti conseguenze sociali, alimentari, sanitarie, culturali, geopolitiche, paventando la formazione di chiari presupposti catastrofici. L’intuizione della decrescita, una sorta di cassandrismo destinato come tutti i cassandrismi a risultare antipatico e sospetto di eccesso paranoide, nasceva quindi da uno sguardo in prospettiva e nasceva proprio nel momento in cui la società della crescita era al culmine dei suoi gloriosi trenta anni di galoppata.
Messa così, la questione si presentava come una opzione, la fatidica alternativa volontaria di una uscita ordinata da un sistema economico che non poteva esser inteso come un “pasto gratis”. Era un pasto, ma non era gratis poiché aveva appunto dei costi. Non solo quelli sociali ben noti all’analisi marxista, ma anche quelli bio-ambientali che rispetto ai primi, hanno l’urgenza primaria che gli deriva da essere della categoria a cui siamo tutti iscritti, al di là del genere, dell’anagrafe, dell’etnia e della classe: il biologico.
Bene o male, la questione è ancora così intesa. Dai detrattori che rimangono addirittura divertiti dall’impresentabilità concettuale di quella pattuglia eretica che annovera assieme a vegani-animalisti-abbracciatori di alberi anche anti-moderni con ex-marxisti, eco-olisti con natural-sofisti, sistemici non conformisti e qualche professore universitario eterodosso. Ma anche dalla stessa variegata pattuglia dei supporter che si riunisce politicamente a fatica solo intorno ad una specie di teologia negativa, lì dove è incerto di dire sì a cosa perché è chiaro solo l’accordo sul no.
Quella che vorremmo proporre è una riflessione che faccia il punto a più di quaranta anni dall’emersione dell’idea, sul suo statuto: la decrescita è davvero una alternativa? Secondo noi, no. Non crediamo sia una alternativa ma un fatto. Un fatto che non ci pone la domanda se ci piace o meno ma che ci pone la domanda su come viverci assieme, poiché siamo già in decrescita, da decenni.
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Nei primissimi anni ’70, accaddero quattro fatti:  
1) Uscì The Entropy Law and the Economic Process di Georgescu Roegen (1971);  
2) Uscì il Rapporto del Club of Rome curato degli studiosi del M.I.T. (1972); 
3) L’allora presidente degli Stati Uniti d’America R. Nixon comunicò la sera di un 15 Agosto (1971), ad un mondo distratto ed in vacanza, che non valeva più la precedente architettura di patti e trattati economico-monetari stipulati nel 1944 (Bretton Woods) e che dall’indomani, gli USA avrebbero stampato dollari decidendo liberamente il quando ed il quanto. Si trattava del fiat money, una specie di creazionismo sul modello vetero-testamentario. Lì Dio diceva “Luce!” e la luce fu, qui il presidente diceva “Dollaro!” e dollari furono. Tanti. Prima esisteva un restrittivo ilomorfismo per il quale va bene la forma, ma c’era anche bisogno della materia per cui per stampare 100 dollari erano necessari 100 dollari di oro nei forzieri di Fort Knox. Dopo l’invenzione ferragostana invece si passava alla metafisica del valore, si diceva denaro e compariva denaro, si diceva ricchezza e -oplà-, ecco la ricchezza. Per pura coincidenza, nel 1971 apre anche la slot machine di ogni futura speranza di crescita dell’economia post-industriale: 
4) il NASDAQ. 
Sembra dunque che le presa di coscienza dell’impossibilità della crescita infinita non sia stata solo in coloro che paventavano il collasso ecologico-sistemico, ma anche in coloro che il collasso economico-sistemico già lo vedevano in atto e non per motivi ecologici ma per impossibilità strutturale di continuare a produrre crescita economica tradizionale, a partire dagli USA.
Sappiamo poi come sono andate le cose. B. Bernanke regna per ben 19 anni a capo di una Fed che stampa tonnellate di denaro che presta a tassi prossimi allo zero creando un lungo intervallo verde (verde è il colore dei dollari, intervallo verde è la traduzione letterale di green-span). Dopo sessantasei anni (nel 1999) viene abrogato il Glass-Steagall act e tutta una pioggia di invenzioni banco-finanziarie creano l’effetto di moltiplicare a dismisura il volume dei foglietti verdi che Fed distribuiva ormai come la pubblicità degli acquapark cade dagli aeroplanini che sorvolano le spiagge. De-regulation, de-localizzazioni, privatizzazione, globalizzazione, debito a pioggia, per un lungo presente felice di ricchezza per tutti! Questa è stata la crescita occidentale degli ultimi 40 anni accompagnata dai  chierici della scolastica economica, alacremente intenti a produrre summae theologiae che inneggiavano alla new-economy, all’innovazione perpetua, alla schumpeterismo permanente, alla mistica della “creazione del valore”. Ancora oggi vi sono anche sette ispirate i cui medium invocano la parola di Smith per un mercato libero-libero, perché solo così può manifestarsi il fantasma della mano invisibile.
Quando questo precario sistema-tampone ebbe un primo collasso, prima si accusarono gli avidi, poi si invocarono le regole che per altro erano state scientemente abrogate dagli stessi invocanti. Poi si teorizzò che esistesse una teoria economica-monetaria responsabile ideologico del misfatto: il neoliberismo. Ancora oggi l’Fmi si affanna a dare consigli sulle modifiche strutturali necessarie a riprodurre le condizioni necessarie per nuovi miracoli, le economie post moderne riscoprono il valore industriale ormai perduto in favore degli emergenti, rialzano la testa i keynesiani ed un francese (T.Piketty) diventa best seller del ranking librario del NYT con le sue 696 pagine di argomentazioni contro l’ineguaglianza che destabilizza l’intero sistema. Ma tutti sembrano eludere il fatto.
Il fatto è che le economie occidentali non crescono più.
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Decresce l’occupazione poiché gli 1-2-3% di Pil in più che si mostravano non avevano nulla a che fare con l’economia di produzione e scambio (quella vigente dal XVIII° secolo). Decresce l’occupazione perché com’è noto dai tempi di Ricardo e poi a Keynes, cresce l’innovazione tecnologica, i servizi impiegano meno dell’industria, le produzioni si saturano progressivamente, la platea dei produttori si è allargata a dismisura molto di più di quella dei consumatori, le produzioni ad alto impiego di lavoro sono sempre più non occidentali.  
Decrescono i profitti d’impresa ed infatti la mortalità imprenditoriale è pari all’abnorme sviluppo degli impieghi finanziari, ormai totalmente slegati dal finanziamento della macchina produttivo-scambista.  I possessori di capitale impiegano il denaro nelle slot machine finanziarie perché molto più remunerative, più veloci, più agili nel permettere spostamenti di investimento continui in un mercato che continuamente cambia.   
Decresce l’innovazione (tranne quella banco-finanziaria) poiché la quantità-qualità della creazione anni ’50-’60 (per non dire di quella post macchina a vapore del XIX° secolo o seguente la rivoluzione elettrica) non ha nulla a che vedere con le anoressiche start up su qualche app per i devices della sempre più nevrotica distrazione di massa. Decrescono le utilità ed i rendimenti perché è nella natura di questo sistema avere grandi inizi e code sottili.
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Decresce il risparmio diffuso perché la ricchezza rinnovata è sempre minore e bisogna dar fondo all’accumulato, quindi crescono i debiti a seconda della culture nazionali, in alcuni casi privati, in altri, pubblici. Sopratutto decresce la classe media occidentale e cresce quella del resto del mondo. Tutto ciò che cresce, in Occidente, lo fa in virtù di denaro inventato dal nulla che non chiude più il suo ciclo di esistenza e quindi non richiedendosi il corrispettivo valore reale presente che ne estingue a materializza la promessa, rimane magicamente sospeso nella realtà, partecipando di questa e per emanazione, diventa “come se fosse reale”. Ma non lo è.  
Decresce la distribuzione di ricchezza concentrandosi nella mani di pochissimi sempre più esageratamente ricchi il che è non è solo sconveniente per noi comuni mortali, ma è esiziale per il sistema stesso perché come sapevano gli antichi (vedi H. Ford, ma è ben descritto del IV° capitolo della Ricchezza delle nazioni che forse qualcuno farebbe meglio a leggere invece che citare senza cognizione), se i produttori  non hanno soldi per comprare i prodotti, l’intero sistema circolatorio salta poiché essi sono anche i consumatori.
In Occidente, tra le altre cose, decresce anche la popolazione o meglio è cresciuta a ritmi davvero miseri e solo per merito dell’Europa dell’est. Il progressivo invecchiamento delle popolazioni occidentali con decremento delle nascite (transizione demografica), oltre a sbilanciare i conti delle assistenze (sanitarie e sociali), intasa il ricambio generazionale nell’occupazione e quindi fa crescere la disoccupazione giovanile.
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La decrescita delle economie occidentali, significa anche la perdita di leadership, peso e controllo generale dei processi su scala mondiale il che retroagirà in maniera ulteriormente negativa sulle stesse condizioni della crescita. Il ruolo degli USA e degli occidentali in genere, del dollaro, del WTO, dell’Fmi, della World Bank sono destinati a relativizzarsi e/o a veder ridimensionato decisa-mente il controllo totale ed esclusivo che storicamente gli occidentali vi hanno esercitato. Da ciò la perdita di possibilità di beneficiare di vaste posizioni di rendita e di favore nello sviluppo delle strategie, fatti che nulla hanno  che fare con la reale competitività delle economie nazionali che si mostrerà sempre più per quella che è.
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Questo grafico WB vale per la registrazione di ciò che è avvenuto.
Le previsioni a 15-30 anni sono del tutto infondate poiché infondabili
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Quanto più basse sarebbero state le medie decennali degli ’80-’90-’10, senza l’anfetamina banco-finanziaria?

In economia, le teorie sulla crescita (Solow-Swan, Romer-Lucas, Galor) hanno sempre sfarfallato intorno al punto ed il punto era che la popolazione occidentale, dalla metà del XIX° secolo, era costantemente cresciuta a ritmi geometrici, ceteris paribus (come piace ai dotti di quella presunta scienza che è l’economics. Una moderata ma ben lucida accusa all’economics di essere una pseudoscienza, la si trova qui sul Scientific American), aumentando il numero di produttori-consumatori, certo che cresceva il prodotto lordo. L’innovazione è un concetto assai generico per fondarci sopra una spiegazione efficiente della crescita, l’elettricità fu una innovazione senz’altro motore di crescita, la stampante laser con cui stamparsi una automobile 3D standosene seduti a casa non porta a comprare più automobili ed oltretutto crea diversi disoccupati nella precedente catena distributiva. Internet, che è stata l’innovazione recente più rilevante, è un sistematico distruttore di occupazione (postini, mobilità, giornali, stampa in generale, industria dell’intrattenimento, diritti d’autore, socialità “fisica” sostituita da quella a distanza, servizi prima resi di persona in luoghi fisici ed oggi automatizzati, etc.) ed a differenza della transizione agricoltura-industria, la gran parte della recente innovazione tecnologica non sembra generarne significativamente di nuova, anzi (si vedano le tesi dell’economista R. J. Gordon, questo contributo di J.Stiglitz). Sono inoltre discutibili molti dei suoi impatti culturali, sociali, politici (si veda E. Morozov, qui) Il capitale umano entro un certo limite è un fattore che aumenta la produttività, oltre un certo limite non lo è più e comunque competenze ed istruzione ad un certo punto divergono dall’impiego produttivo e comunque non sono incrementabili all’infinito. 
Di fatto, se non si stampa denaro senza ritegno alcuno come ha continuato a fare Fed, come hanno ripreso a fare i giapponesi e come ormai ritiene anche Fmi, il paziente deperisce velocemente e muore. Anche perché, a corto di crescita reale, le economie pubbliche e private sono tutte ampiamente indebitate e per evitare i fallimenti non c’è che incrementare la liquidità. Ma se lo si fa, si deve anche capire che si produce un nuovo sistema che nulla ha a che fare con il sistema conosciuto e le cui fondamenta funzionali sono del tutto infondate nel senso che è socialmente inconsistente. Un tale sistema non più economico ma fondamentalmente finanziario, non è più in grado di reggere ed ordinare società complesse come sono le nostre.
Parrebbe quindi non ardito ipotizzare che non si tratta del fatto che il capitalismo è entrato in chissà quale fase assoluta, non è che i cattivoni sono diventati più cattivoni, non è che i capitalisti si sono fatti traviare da una ideologia forgiata a Chicago, non è che la finanza chissà per quale strano motivo ha deciso di svincolarsi dall’economia perché affamata di “sempre più profitti” come disegnano novelli G. Grosz, come se la finanza fosse nata per scopi sociali. Si tratta dell’occultamento consapevole di un dato concreto, prevedibile ed assai preciso e pervicacemente rimosso da tutti: l’Occidente non si trova né  mai più si troverà nelle condizioni storiche che ne hanno determinato l’incredibile crescita economica, negli ultimi duecento anni.
Anche le feste più belle finiscono e quelle lunghe duecento anni, sono anche assai rare. Se togliamo il dollaro metafisico e l’Oktoberfest della finanza degli ultimi quaranta anni, se togliamo la crescita dei Trenta gloriosi determinata dalla ricostruzione dell’immane distruzione bellica, se togliamo la lunga depressione, la breve euforia della Belle Époque strettamente allacciata ad un Primo conflitto mondiale, ad un Impero che copriva il 25% del globo terracqueo ed ad una costellazione di colonie con le quali l’Occidente dominava l’intero pianeta, ci si può domandare: cosa sarebbe stato il nostro celebrato modo economico, cosa avrebbe prodotto in termini di ordine sociale e qualità di vita al netto di queste variabili? La domanda serve perché se facciamo l’esperimento mentale di immaginare il nostro sistema economico senza queste “fortunate” e decisive circostanze, capiremo che questo sistema osannato dai suoi aedi, deprecato dai suoi critici, in realtà è finito. Esso è stato la semplice risultante di circostanze storico-culturali, geopolitiche, di beneficio dell’innovazione del materialismo per tutti (beni, merci, lavoro, reddito, status, aspettative, sogni, progetti etc.) che ha ampiamente esaurito le sue possibilità in Occidente. Anche perché stante il previo controllo quasi totale di tutto il pianeta,  aveva un certo qual senso produrre e comprarsi una automobile, forse anche un televisore, ma francamente di un drone personale non sappiamo veramente cosa farcene oltreché essere oggi nella penosa situazione di non riuscire più a sbarcare il lunario dei beni necessari.
Per non parlare delle materie prime, delle energie, del collasso eco-sistemico, degli squilibri del commercio internazionale che chissà perché, viene analizzato al netto degli equilibri geopolitici come se il mondo fosse fatto da imprese e non da nazioni.
Eccoci allora al punto avanzato nella nostra tesi: il sistema non funziona più e non funziona più da tanto tempo. Lo si è artatamente tenuto in qualche modo in piedi per prorogare la sua vigenza ordinativa poiché non abbiamo la più pallida idea di cosa altro fare. Le élite che si determinano tali dall’esistenza del sistema stesso hanno armeggiato per farci avere altri decenni di vacanza col morto, ma il morto ora comincia a puzzare.
Credo sbaglino coloro che parlano degli ultimi quaranta anni  come di una deliberata scelta di un capitalismo cattivo contro quello buono, keynesiano, con le élite limitate da una semi-democrazia funzionante. Tutto quanto accade oggi dilazionato e dilatato, negato, rallentato, occultato, mistificato, rimosso, sarebbe successo di colpo negli anni ’70-’80 se gli USA, detentori della regia sistemica economica, finanziaria, politica, militare e culturale, non avessero messo un tampone fatto di nuove leggi ed abrogazione delle vecchie, dollari a pioggia, narrazioni epiche sull’infinita dilatabilità del moderno, controllo dei sistemi internazionali ed una dozzina di guerre per mettere a posto quello che ostinatamente andava fuori registro. Se non facciamo una altra guerra mondiale, non possiamo avere altri trenta gloriosi, ogni salita viene dopo una discesa, ogni creazione necessita di una precedente distruzione. L’alternativa alla  decrescita, oggi, è la guerra.
La decrescita dei nostri volumi economici non è una scelta, una opzione razionale e di buon senso, un moto di sensibilità verso Madre Natura che dobbiamo preservare dalla perversa condizione S/M alla F. Bacon (La natura è una prostituta; noi dobbiamo domarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri). I limiti ecologici e le loro paurose retroazioni sono un peggiorativo ma nel mentre annunciamo i disastri ambientali ad esempio, già da tempo si vanno compiendo quelli sociali perché è l’intero sistema, il nostro modo di stare al mondo, che non funziona e non può più funzionare. 
La de-crescita, la contrazione del lavoro, del consumo, della produzione, della ricchezza reale diffusa, della stabilità, della speranza in un futuro migliore di quello che hanno avuto i padri secondo i canoni del benessere materiale, è già in atto. La decrescita non è una alternativa perché non esiste più l’opzione crescita, non esistono più le condizioni per un continuato e diffuso sviluppo, né materiale, né immateriale. La decrescita nel senso della contrazione dei nostri volumi economici, non è una opzione alternativa è il nostro destino
L’alternativa, ovvero la scelta tra due opzioni, si pone solo tra il subirla mantenendo società ed economia nelle forme che richiedono una crescita ipotetica che non ci sarà e quindi subire la contrazione sistemica con tutto il doloroso portato di prolungato collasso sociale o trasformare radicalmente economia, società e loro reciproci rapporti, dandoci la possibilità di trovare un nuovo modo di stare al mondo. Questa è la nostra precisa condizione attuale e futura. Si tratta solo di riconoscerla ed adeguarsi in uno sforzo adattativo che dimentichi due secoli che sono ahinoi passati non solo cronologicamente,  ma anche concettualmente.
E’ ora di svegliarci dal lungo sonno dogmatico. E’ ora di rivolgerci con sano e deciso tono realistico ad economisti e politici, tanto mainstream, che critici e dir loro di piantarla di parlare del caro estinto, di allagare il mondo con cascate di ricette senza senso su meno stato, più mercato, meno o più controlli, moneta così o moneta cosà, risveglio industriale ed altri impossibili Viagra per propiziare una disperata, ennesima, erezione economica. Dovremmo cominciare a spegnere quell’idiota sorrisino di commiserazione con il quale i teologi del massimo sistema reagiscono alle istanze sul cambio repentino di mentalità economica, perché l’economia reale è già cambiata da tempo ed è la sua teologia ad essere rimasta inchiodata ad irrealistici dogmi metafisici fissati più di un secolo fa.
Non siamo noi a dover sostenere il picco di Hubbert o ai dimostrare il cambiamento climatico, non siamo noi a dover mostrare le foto satellitari sul restringimento dei ghiacci o a dover commuovere con le foto di terrorizzati orsi bianchi che si lasciano affogare. Dovremmo forse cambiare atteggiamento ed imporre nel dibattito l’urgenza realista di rispondere alla domanda: come ci si adatta ad una società che è già da tempo in vistosa e progressiva decrescita economica? Segnalando agli utilitaristi che anche il tempo utile per le risposte decresce vistosamente e che ai fallimenti adattativi, conseguono le estinzioni di massa.
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Segnalo questo articolo di M. Badiale che giustamente tenta di dar la sveglia al moribondo mondo del pensiero marxisteggiante. I marxisti sembrano essere ontologicamente accoppiati al capitalismo ed alla Rivoluzione industriale. Per loro il problema è solo il capitale, la stesso modello economico ma non guidato dal capitale, andrebbe benissimo. Siamo ancora al potere dei soviet più l’elettrificazione. La loro mentalità rimane nostalgicamente aggrappata ai fasti ottocenteschi e sono rimasti gli ultimi a reclamare “più lavoro”, “più industria”, “più produzione”, come se questa fosse ancora e per sempre possibile. Sebbene di un’altra chiesa, essi non differiscono poi di molto da i più canonici adoratori del culto del cargo.

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