Questo bel saggio di Felice Cimatti – incluso nel testo collettaneo Il transindividuale, appena uscito per Mimesis (pp. 253-271) – è dedicato a una teoria della mente che si avvale degli strumenti messi a punto da Marx e Vygotskij per mettere a fuoco i limiti e le aporie dell’individualismo cognitivo e del biologicismo delle neuroscienze
1. «La coscienza è un rapporto sociale»
L’animale non umano, per Marx,
«è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività vitale]» Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la sua ‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del castoro è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta dentro la scatola di cartone che lo contiene. Questo non signifi ca che non sia importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata.
Per l’animale non umano, allora, non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 che abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo coincide con l’essere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale non umano. Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la stessa forma di vita, le stesse esperienze.
Per l’animale umano, al contrario, questa identificazione fra essenza e individuo non vale, perché
«l’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda [p. 254]. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie [Gattungswesen]» [Ivi]
Mentre per il castoro il costruire una diga sul corso di un fiume è una attività spontanea e naturale, e infatti nessun castoro adulto gli spiega che è il caso di costruirla, né tantomeno gli viene in mente di costruire qualche altra struttura, per l’animale umano ogni attività presuppone una presa di posizione cosciente rispetto alla propria esistenza. Il castoro, appena è fisicamente in grado di farlo, comincia ad occuparsi del fiume e della diga; il castoro, cioè, non deve interrogarsi su quel che c’è da fare, il compito di ogni castoro è già inscritto nella sua natura; è la selezione naturale che ‘ha pensato’ a quello che devono fare i castori. L’umano, invece, fin dall’inizio si trova nella situazione di doversi chiedere che fare, dove farlo e perché farlo, e così, appunto,
«fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza» [Ivi].
Il castoro è libero di costruire una diga, nel senso che non occorre che qualcuno lo spinga con la forza a costruirne una, ma non è libero di non costruire una diga, e invece costruire un ponte. L’umano è libero in questo secondo senso, ogni volta si trova nella situazione di dovere scegliere fra costruire una diga o un ponte, o non costruire proprio niente:
«soltanto per ciò la sua attività è un’attività libera» [Ivi].
Se ora ci chiediamo qual è la caratteristica distintiva, specie-specifica, dell’Homo sapiens, ci troviamo di fronte ad un caso molto diverso da quello del Castor canadensis o del Castor fiber: ci sono esseri umani che costruiscono dighe, altri invece che costruiscono ponti, però ce ne sono altri che dighe e ponti invece li distruggono, altri ancora che i fiumi li attraversano a nuoto, e così via. Ogni corpo umano, alla nascita, può diventare costruttore di dighe oppure di ponti, ma anche nuotatore e ogni altra attività che può venire in mente: qui l’essenza umana non coincide con l’individualità di ogni esemplare della specie Homo sapiens, qui l’essenza della specie umana è nell’insieme delle attività di questa specie, sia di quelle effettivamente esistenti che di quelle ancora soltanto possibili.
Ma c’è di più, perché mentre il castoro – per costruire una diga – deve seguire il programma innato che è già dentro di sé, per costruire un ponte un umano deve prima imparare a parlare una lingua, poi deve imparare a progettarlo, poi deve convincere qualcuno che è in grado di costruirne uno in cemento e acciaio. Questo signifi ca che l’essenza umana si trova al di fuori del singolo individuo umano, nell’insieme delle relazioni sociali umane. Non è soltanto che l’animale umano è un animale fortemente sociale, perché molte altre specie animali sono fortemente se non più sociali: il punto è che l’umano diventa umano soltanto al di fuori di sé, nelle relazioni sociali con gli altri umani [T. Wartenberg, «Species-Being and Human Nature in Marx», 1982].
«L’individuo [umano] è l’essere sociale», infatti, non un essere sociale. Le sue manifestazioni di vita – anche se non appaiono nella forma immediata di manifestazioni di vita in comune, cioè compiute ad un tempo con altri – sono quindi una espressione e una conferma della vita sociale. La vita individuale dell’uomo e la sua vita come essere appartenente ad una specie non differiscono fra loro, nonostante che il modo di esistere della vita individuale sia – e sia necessariamente – un modo più particolare o più universale della vita della specie [Manoscritti ec-fil. del 1844].
Il caso esemplare di questa situazione, in cui l’essenza si trova non dentro di sé bensì al proprio esterno, è quello della autocoscienza. Se c’è una caratteristica distintiva dell’umano, almeno così ci rappresentiamo (non a caso ci definiamo, come specie animale, Homo sapiens sapiens), è l’autocoscienza, cioè la capacità di essere coscienti del fatto di essere coscienti. Questa è l’essenza umana. Ma questa essenza, a sua volta, ha una storia sociale, è una essenza che entra nel corpo umano dall’esterno, è, come scrive Vygotskij, un
«trapianto […] dall’esterno all’interno» [Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, 1930-31].
Un piccolo umano diventa autocosciente quando impara ad usare la lingua pubblica in modo privato [F. Cimatti, La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, 2000], quando impara a parlare a se stesso così come gli altri parlano a lui:
La produzione della vita [umana], tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui [...]. Solo a questo punto [...] troviamo che l’uomo ha anche una ‘coscienza’. Ma anche questa non esiste fin dall’inizio, come ‘pura’ coscienza. Fin dall’inizio lo ‘spirito’ porta in sé la maledizione di essere ‘infetto’ dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me [...]. La coscienza è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale e tale resta fintanto che in genere esistono uomini [Marx, Engels, L’ideologia tedesca].
Se la coscienza è la nostra essenza, allora questa presunta essenza individuale «è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale», cioè è una paradossale essenza transindividuale, una essenza esterna e diffusa – come appunto una lingua – fra gli individui. Questa prospettiva non si limita a sostenere che, per comprendere la psicologia di un essere umano, è importante anche tenere conto delle sue relazioni sociali e del necessario rapporto che la mente individuale deve intrattenere con gli strumenti esterni10. In realtà, con Marx si propone un modo completamente diverso di intendere la mente umana, che – con molta più coerenza delle scienze cognitive e della cosiddetta grounded cognition – pone all’origine la nozione di ‘rapporto sociale’.
In effetti è uno strano materialismo quello di chi sostiene che per naturalizzare la psicologia, cioè per escludere che
«nella mente esistano componenti riconducibili allo spirito vitale, all’anima incorporea, ai piani astrali e a qualsiasi altro fattore che non risulti integrabile nella scienza naturale» [G. Botterill, P. Carruthers, Filosofia della psicologia, 2001, p. 17],
si debba ricondurre tutto il comportamento umano a quello che succede nella mente individuale, e in prospettiva nel singolo cervello. In effetti questo curioso e miope naturalismo (che non riesce a vedere oltre le ossa del cranio) alla fine propone una nuova essenza, il cervello appunto, che – con le parole di un famoso scienziato cognitivo – crea il ‘me’ che viene reso pubblico nel mondo sociale […] [ed] è sempre lui che mi rende capace di condividere la mia vita mentale con gli amici e mi consente, in tal modo, di creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo in grado di fare da soli.
Un naturalismo che per un verso si inventa un nuovo homunculus, il cervello, che è un doppione nascosto dell’individuo esterno (cambia la parola, ma fa esattamente tutto quello che un tempo faceva l’anima; non sembra proprio un grande passo in avanti), per un altro non riesce a scorgere la differenza esistente fra l’esistenza di un castoro e quella di un essere umano. È il cervello, infatti, che «mi consente […] di creare qualcosa più grande di qualunque cosa saremmo in grado di fare da soli»: come nel caso dei castori la vita sociale e alla luce del sole non è che l’effetto esterno di quella individuale, l’essenza è dentro l’individuo [J. Tooby, L. Cosmides, «On the Universality of Human Nature and the Uniqueness of the Individual: The Role of Genetics and Adaptation», in Journal of Personality, 58, 1990, 1, pp. 17-67].
È infatti l’individualismo cognitivo il marchio di fabbrica del cognitivismo, e paradossalmente anche del suo antagonista, il comportamentismo (per il cognitivismo la mente è piena, per il comportamentista la mente è vuota: sono le due alternative possibili se si presume che la mente sia un’entità individuale): la mente umana è originariamente una entità autonoma e indipendente. Così, nelle parole del primo teorico delle scienze cognitive, cognitivismo significa «la convinzione che, parlando delle attività cognitive umane, sia necessario parlare di rappresentazioni mentali», che, in particolare, sono distinte dal «livello […] sociologico o culturale»16. I contenuti della mente individuale sono quindi ‘rappresentazioni mentali’ che sono diverse da quelle che si possono trovare al di fuori della mente, nella società. Un individualismo cognitivo che discende dal modello che è stato alla base delle scienze cognitive, il calcolatore:
«il computer» infatti «fornisce […] il modello più promettente del modo in cui funziona la mente umana» H. Gardner, La nuova Scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, tr. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 18.
Un computer è un dispositivo fisicamente distinto, che contiene programmi e dati. Questo modello dura anche oggi che le scienze cognitive vengono sempre più criticate perché poco embodied e grounded: in effetti oggi le neuroscienze mettono, nel posto che nei primi tempi delle scienze cognitive era occupato dal computer, il cervello. Un cervello è un’entità più biologica di un computer, ma svolge, in questo quadro teorico, le stesse funzioni che venti anni fa svolgeva quest’ultimo. Di qui il persistente individualismo cognitivo delle scienze cognitive. Così oggi come allora vale la scarsa attenzione teorica (non empirica) per i fenomeni transindividuali, cioè i fenomeni che si collocano fra i cervelli, e non al loro interno: un individualismo che impone, perché così impone il modello teorico di fondo, di mettere fra parentesi certi fattori che possono essere importanti per il funzionamento cognitivo ma la cui discussione complicherebbe oggi senza necessità l’impresa della scienza cognitiva. Questi fattori comprendono l’influenza di fattori emotivi o emozionali, il contributo di fattori storici e culturali e il ruolo del contesto generale in cui particolari azioni e pensieri si verificano (cfr. Gardner, La nuova scienza della mente storia della scienza cognitiva, 1994, p. 18].
Le scienze cognitive dei nostri giorni si occupano proprio di questi fattori, allora trascurati, ma senza mettere in discussione l’ipoteca dell’individualismo cognitivo: pertanto si cerca di allargare i confini della mente individuale, oppure di situare la mente in un corpo, a sua volta immerso in un particolare ambiente, o ancora si studia come le diverse menti entrano in rapporto fra loro (è il campo, per citare un caso oggi molto alla moda, dei cosiddetti neuroni specchio). Una grande attenzione empirica, da cui tuttavia non si estrae il succo teorico che contiene: non si tratta tanto di ampliare i confini della mente individuale, quanto piuttosto abbandonare un modello che impone l’individualismo cognitivo. Non si tratta di sottolineare che sono importanti anche le relazioni sociali, quanto piuttosto di mettere la nozione di relazione al centro dello studio della mente umana.
Solo in questo modo si può dare conto del fatto che, per tornare all’esempio iniziale, le nostre esistenze sono diverse da quelle dei castori, perché nessuna essenza interna mi costringe a costruire dighe anziché ponti. Questo naturalismo non sa spiegare questa differenza, ed in realtà nemmeno la vede. Con Marx, allora, nasce un materialismo della relazione che considera l’individuo come entità radicalmente sociale: si vede [allora] come la storia dell’industria e l’esistenza oggettiva già formata dell’industria sia il libro aperto delle forze essenziali dell’uomo, la psicologia umana, presente ai nostri occhi in modo sensibile [Marx, Manoscritti economico-filosofi, cit., p. 115].
Per studiare la psicologia individuale non è sufficiente cercare dentro il cervello, lì si trovano neuroni e biochimica, che certo sono necessari per comprendere la fisiologia umana, ma non per capire in che credono esseri umani, e perché vivano come vivano, e perché desiderino vivere in modo diverso. Così
«una psicologia, per la quale sia chiuso questo libro, cioè sia chiusa proprio la parte della storia più presente e accessibile ai sensi, non può diventare una scienza effettiva, ricca di contenuto e reale» [Marx, Manoscritti, cit., p. 120].
2. Vygotskij e la relazione individuo-società
Chi ha cercato di aprire ‘questo libro’, e quindi di costruire una psicologia ‘ricca di contenuto e reale’ è stato Lev Semenovič Vygotskij (1896-1934).
Si tratta di una psicologia che, ponendosi d’un solo colpo al di là della contrapposizione fra internalismo (oggi le scienze cognitive) ed esternalismo (le varie e ricorrenti forme di comportamentismo), pone al centro del suo apparato teorico la nozione di relazione. Per l’internalismo prima viene il dentro, l’essenza, il cervello, poi – come aggiunta importante ma non necessaria – le relazioni sociali. Così un suo inevitabile corollario è l’innatismo. Per l’esternalismo, al contrario, dentro la mente propriamente non c’è nulla, e quindi la nozione centrale è quella di apprendimento. Qui è l’individuo ad essere secondario e accessorio, invece. Per Vygotskij al contrario si tratta di partire dalla relazione fra l’individuo e la società, e ricostruire il percorso ontogenetico attraverso il quale si forma l’individuo, cioè il suo processo di individuazione.
È ciò che sta fra gli individui, nel transindividuale, la natura umana, e per questo, con Marx, l’umano è un «essere appartenente ad una specie»:
nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza [Marx, Per la critica dell'economia politica, Ed. Riuniti, 1974, p. 5].
Questo celebre passo non sostiene che la coscienza individuale non esista, sostiene che la coscienza – oggigiorno si preferisce parlare di mente, o di cervello se si vuole essere dei naturalisti integrali – non è il punto di partenza del percorso di sviluppo individuale; all’inizio ci sono i ‘rapporti di produzione’, in cui gli esseri umani vivono e pensano, ossia ‘forme determinate della coscienza sociale’; quindi, su questa base, che è insieme materiale e trascendentale, si forma la ‘loro coscienza’, la loro individualità.
L’originale psicologia materialista di Vygotskij, che è materialista senza essere eliminativista (senza cioè fare a meno della mente individuale), ma anche senza essere internalista (cioè privilegiando la mente individuale e innata rispetto alle relazioni sociali), è tutta intorno a questo schema generale: prima la relazione storico-sociale (prima in senso trascendentale), poi il processo di individuazione:
«le relazioni fra [le] funzioni psichiche superiori» della mente individuale, la sua coscienza, «sono state un tempo relazioni fra persone» [L. S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, cit., p. 197]
cioè appunto transindividuali.
All’inizio di questo processo c’è, naturalmente, un corpo di una specie animale, la specie Homo sapiens, che ha la potenzialità biologica di ricevere il ‘trapianto’ delle relazioni sociali esterne. Un corpo di un animale della specie Castor fiber non ha questa predisposizione. Ma appunto, si tratta di una predisposizione, che di per sé non predetermina lo sviluppo successivo. Tutto il modello basato sulla nozione di transindividuale esclude che esista qualcosa come una essenza interna che debba poi soltanto maturare e riversarsi all’esterno. La precondizione per lo sviluppo di una individualità umana è allora
«la presenza degli organi e delle funzioni peculiari dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati corrispondenti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino apprende l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si sviluppano normalmente» [Ivi].
Sulla biologia dell’animale umano Vygotskij non si concentra ulteriormente, proprio perché quella biologia – di per sé – è una condizione necessaria ma non sufficiente a formare un individuo umano:
come nel processo dello sviluppo storico l’uomo modifica non i propri organi naturali, ma i propri strumenti, così nel processo dello sviluppo psicologico l’uomo perfeziona il funzionamento del suo intelletto principalmente mediante lo sviluppo di particolari ‘mezzi ausiliari’ tecnici di pensiero e di comportamento. La storia della memoria umana non può essere compresa senza la storia della scrittura, così come la storia del pensiero umano senza la storia del linguaggio. Basta solo ricordare la natura e l’origine sociali di qualsiasi segno culturale per capire che lo sviluppo psicologico, esaminato da questo punto di vista, è essenzialmente sociale, condizionato dall’ambiente. Esso entra a far parte del contesto di tutto lo sviluppo sociale e si rivela come sua parte organica [L.S. Vygotskij, A. Lurija, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, 1934, trad. it. 1987, p. 6].
Accanto ed insieme allo sviluppo biologico, quello in cui opera la selezione naturale, si affianca, nel caso dell’animale umano, quello culturale. Qui è ancora più evidente l’originalità del lavoro di Vygotskij, per il qualenon si tratta di aggiungere, dopo una prima fase di sviluppo esclusivamente biologica, una sorta di completamento o aggiunta culturale. Per Vygotskij fin dall’inizio lo sviluppo organico si intreccia a quello socio-culturale, che quindi è ‘parte organica’ dello sviluppo dell’individuo. Le relazioni sociali contribuiscono a formare lo stesso corpo dell’animale umano, la sua fisiologia come la sua psicologia. Così il corpo impara una particolare andatura bipede [K Adolph, Learning in the Development of Infant Locomotion, Monographs of the Society for Research in Child Development, 1997, serial number No. 251, vol. 62, n. 3.27], ciò che comporta ristrutturazioni radicali del suo sistema scheletrico e muscolare, impara a parlare, e quindi a controllare, sviluppare e modificare le parti del corpo implicate nella produzione materiale dei suoni linguistic [P. Kuhl, «A New View of Language Acquisition», in Proceedings of the National Academy of Sciences, 97, 2000, (22), pp. 11850-11857] oppure dei gesti comunicativi, impara a controllare il proprio stesso comportamento, a prestare attenzione alla propria attenzione:
«sul piano della filogenesi […] tali funzioni si sono formate non come il prodotto dell’evoluzione biologica ma per lo sviluppo storico del comportamento» [L.S. Vygotskij, A. Lurija, Strumento e segno nello sviluppo del bambino, cit., p. 60]:nel sistema delle categorie psicologiche rientrano anche le forme simboliche esterne di attività come le relazioni verbali, la lettura, la scrittura, il calcolo e il disegno. Di solito questi processi sono considerati estranei e secondari rispetto ai processi psichici interni, ma dal nuovo punto di vista da cui partiamo vengono inclusi nel sistema delle relazioni psichiche superiori come equivalenti a tutti gli altri processi psichici superiori. Tendiamo a considerarli anzitutto come forme particolari di comportamento, che si costituiscono durante lo sviluppo socio-culturale del bambino e rappresentano una linea esterna di sviluppo dell’attività simbolica, accanto alla linea interna che rappresenta lo sviluppo culturale di formazioni come l’intelligenza pratica, la percezione e la memoria [L.S. Vygotskij, A. Lurija, Strumento e segno nello sviluppo del bambino, trad. it. 1997, p. 60].
La psicologia tradizionale, al cui interno rientrano ancora e pienamente anche le scienze cognitive, è sostanzialmente dualista, nel senso che separa (per come si forma, oppure per il modo di funzionare) la mente individuale dalle relazioni che può intrattenere con il suo ambiente (questo vale anche per la teoria della cosiddetta extended mind di Clark [Cfr. A. Clark, Natural-Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence] che è una mente individuale che viene appunto estesa, che si avventura all’esterno del cranio; questo è un cognitivismo ammorbidito, ma che non mette in discussione l’individualismo originario del paradigma). Anche lo psicologo eliminativista, cioè chi sostiene che il campo del mentale in realtà non esiste, distingue un interno – che per lui si identifica con il cervello – da un esterno, le relazioni fra quel corpo/cervello con il resto del mondo. In effetti si può essere dualisti anche se al posto dell’anima incorporea si mette un cervello materiale: è un dualismo che privilegia l’interno rispetto all’esterno, il dentro rispetto al fuori. La mossa innovatrice della teoria di Vygotskij, che generalizza la prospettiva di Marx, è invece di collocare all’inizio la relazione fra corpo/mente e società; qui nasce la psicologia, questo è il primo e fondamentale elemento di una teoria effettivamente materialistica della mente umana:
dire che un processo è ‘esterno’ equivale a dire che è ‘sociale’. Ogni funzione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale prima ancora che interiore e psichica, è stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per esercitare un’azione su se stessi è inizialmente un mezzo per esercitare un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per esercitare un’azione sulla persona [L.S. Storia delle funzioni superiori .. p. 32].
Allo stesso tempo è un materialismo che tiene conto dei fenomeni umani, e parte appunto da ciò che è immediatamente evidente, le concrete azioni degli esseri umani, come parlare, ricordare, afferrare un oggetto, lavorare, prestare attenzione ad un dettaglio visivo, e così via. È un materialismo che, come ogni materialismo, è tutto alla luce del sole, che non invoca entità invisibili, che non moltiplica gli enti oltre quelli assolutamente necessari. Così, invece di immaginare una inaccessibile vita interiore e originaria, è un materialismo che considera le attività mentali interne come l’uso per sé di prassi un tempo pubbliche.
Lo schema generale del processo di individuazione, per Vygotskij, è quindi del tutto diverso sia da quello delle scienze cognitive che da quello del loro antagonista, il comportamentismo. Per quest’ultimo la mente umana è originariamente vuota, e viene riempita dagli stimoli esterni. Qui c’è solo l’esterno, e l’interno non è che un sottoprodotto dell’esterno. La principale conseguenza teorica di questo approccio è che per il comportamentismo l’esistenza della mente individuale è del tutto inspiegabile (se non nel senso impoverito e vuoto di riflesso interno di uno stimolo esterno).
Al contrario, per le scienze cognitive, la mente è piena di contenuti e abilità innate, che poi vengono in parte trasmessi all’esterno, ad esempio mediante la comunicazione linguistica. Qui il problema, teoricamente insolubile (perché è una conseguenza necessaria del pregiudizio individualistico di questo approccio), è invece l’esistenza delle altre menti: della mia sono certo, ma di quella altrui no, perché non posso entrare nella loro mente.
Vygotskij rifiuta entrambe queste alternative: all’inizio c’è la relazione sociale, il rapporto fra esseri umani, ed in particolare c’è un piccolo della specie Homo sapiens che comincia il suo percorso di individuazione. All’inizio sono gli adulti, cioè appunto delle relazioni sociali incarnate, che si prendono cura di lui, lo accudiscono, gli parlano, gli insegnano – dapprima in modo implicito poi anche in modo esplicito – come agire, come muovere il corpo, come provare emozioni. Poi, lentamente, il piccolo della specie umana comincia ad usare su di e per sé quello che gli altri, prima, avevano fatto con lui:
«ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima fra le persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria intrapsichica» [L. S. Vygotskij, Storia delle funzioni superiori, p. 201].
3. Dal transindividuale all’individuo
Proviamo a seguire questo processo con un esempio determinato, la storia naturale (che è insieme storia ma anche naturale) del gesto con cui il bambino impara ad indicare ad un altro qualcosa che ha attirato la sua attenzione. Si tratta intanto di sgombrare il campo di ogni presupposizione mentalista. All’inizio c’è una operazione automatica: lo sguardo del bambino è attirato da qualcosa, e quindi, naturalmente, prova ad afferrare ciò che l’ha interessato:
«il gesto dell’indicazione», allora, «rappresenta originariamente un semplice movimento incompiuto volto ad afferrare l’oggetto, e che sta appunto a indicare l’azione. Il bambino tenta di afferrare un oggetto che è collocato troppo lontano, le sue mani sono protese verso l’oggetto, e restano sospese nell’aria, le dita compiono movimenti di presa: tale situazione è punto di partenza per ogni successivo sviluppo» [[L. S. Vygotskij, Storia delle funzioni superiori, p. 199].
All’inizio – come vale per ogni materialismo – c’è l’azione. In questo caso un’azione trainata dalla percezione. Qui non c’è nessuna intenzione comunicativa, c’è un riflesso scatenato dalla vista di un oggetto interessante. Propriamente, proprio perché si tratta di un riflesso, non c’è nemmeno pensiero. Quel gesto, però, accade in un contesto transindividuale, perché ci sono delle persone presenti, anche se il gesto del piccolo umano non era diretto a loro.
Infatti
Infatti
«la madre giunge in aiuto del bambino e concettualizza il suo movimento come un’indicazione» [Ivi].
L’intenzione, che non è nel gesto del bambino, che in realtà è un atto incompiuto, viene attribuita al bambino dalla madre. È la madre che vede in quel movimento uno scopo, raggiungere l’oggetto, e che quindi lo trasforma in azione mirata, in segnale per attirare la sua attenzione: così ora
«la situazione muta completamente. Il gesto dell’indicazione» – in realtà ancora soltanto supposta – «diventa un gesto per gli altri».
È allora il contesto transindividuale a trasformare un riflesso in un gesto, in un segnale comunicativo, in una indicazione. A questo punto la reazione della madre si riflette sul comportamento del bambino, che ora scopre che quel movimento può assumere tutt’altro valore. Qui vediamo il congiungersi della linea di sviluppo naturale – l’oggetto che attira lo sguardo e l’immediato tentativo di afferrarlo – con quella culturale, cioè con l’attribuzione di un valore comunicativo da parte di un altro essere umano: così il suo gesto
«viene ricollegato dal bambino con tutta la situazione oggettiva» e quindi lo stesso bambino «comincia a considerare questo stesso movimento come un’indicazione. Avviene così una modifi cazione della funzione del movimento stesso: da movimento rivolto verso l’oggetto diventa movimento rivolto verso un’altra persona attraverso un mezzo di comunicazione: la prensione si trasforma in indicazione».
Si parte dalla relazione sociale, a cui in realtà uno dei due partecipanti non sa, ancora, di partecipare; ne basta uno, purché anche l’altro sia capace di accorgersi del comportamento altrui. Dal transindividuale emerge l’individuo, perché alla fine «il bambino giunge […] alla consapevolezza del proprio gesto» [Ivi, p. 200].
Prima allora la relazione ‘interpsichica’, cioè appunto il transindividuale, poi quella ‘intrapsichica’, cioè quella mentale individuale. L’operatore storico-sociale della individuazione, l’operatore che media fra questi due momenti è la ‘interiorizzazione’, cioè la «ricostruzione interna di una operazione esterna»[L. S. Vygotskij, Il processo cognitivo, trad. it. 1978, p. 86] sociale. Fin dall’inizio in questo modello prevale il rapporto fra esseri umani, la relazione sociale. È la prima mossa del materialismo di Vygotskij, partire dalla realtà dei fenomeni umani. In effetti se è la mente umana che si sta studiando, non si vede da quali altri fenomeni bisognerebbe partire. Il curioso materialismo delle scienze cognitive pretende invece di risalire alle condizioni non umane dell’umanità.
Ora, è un materialismo affatto peculiare, questo, che per studiare un fenomeno umano comincia collocandosi al di qua dell’umano; a questo materialismo Marx ribatte mostrando il carattere intrinsecamente paradossale di questa stessa domanda:
«quando tu ti poni la domanda intorno alla creazione dell’uomo e della natura, fai astrazione dell’uomo e della natura. Tu li poni come non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti» [Marx, Manoscritti, cit., p. 119].
Il materialismo di Vygotskij cerca allora di tenere insieme i due elementi, quello naturale e quello storico, che il materialismo delle scienze cognitive tiene invece separati: da un lato c’è il processo per cui «l’uomo è debitore della sua esistenza anche fisicamente all’uomo» [ibidem]; dall’altro lato presta però anche «attenzione al movimento circolare […] in base al quale l’uomo nella generazione riproduce se stesso, e l’uomo rimane quindi sempre soggetto» [ibid]. Il materialismo storico consiste in questi due movimenti congiunti. Così il piccolo umano, che nasce come esemplare della specie animale Homo sapiens, come esito temporaneo di un lungo e intricato processo di evoluzione naturale, diventa umano quando viene accolto in una comunità umana: qui, introiettando al suo interno le particolari relazioni sociali del suo ambiente – lingua, tradizioni, prassi collettive, modi di fare, gesti consuetudinari ecc. – sviluppa le ‘funzioni psichiche superiori’, che possono anche essere definite le funzioni storico-sociali della sua mente (questo processo si riproduce anche a livello cerebrale, ovviamente, perché certe potenzialità cognitive sono il risultato di una ristrutturazione sociale e storica delle stesse strutture cerebrali).
L’individuo si forma all’incrocio fra le potenzialità naturali e le forme storico-sociali che effettivamente incontra durante il suo sviluppo [Vygotskij (1930), The Vygotskij Reader, 1994, p. 201], così «il risultato principale della storia dello sviluppo culturale del bambino» è «la sociogenesi delle forme superiori di comportamento» [L.S. Vygotskij, Storia delle funzioni psichiche superiori, cit. p. 201].
4. Il ‘pensiero verbale’
Il prototipo di tutte le operazioni di ‘interiorizzazione’ è quella in cui la lingua del proprio ambiente sociale diventa il principale sostegno cognitivo del pensiero individuale. All’inizio del processo di individuazione, scrive Vygotskij, nella mente del bambino, come in quella di ogni altro animale non umano, il pensiero (evidentemente non linguistico) e le forme naturali di espressione sono separate, infatti
«il pensiero e il linguaggio hanno radici genetiche completamente diverse» [L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934, trad. it. 1992, p. 95.
Il punto di svolta nell’ontogenesi della mente individuale è quando queste due distinte linee evolutive si incontrano e danno vita ad un nuovo sistema storico-naturale, quell’intreccio che Vygotskij definisce ‘pensiero verbale’, in cui
«il linguaggio diventa intellettivo e il pensiero diventa verbale» [Ivi, p. 111].
Ancora una volta è da ribadire l’originalità di questa formazione. La discussione sul tema dei rapporti fra linguaggio e pensiero oscilla fra chi sostiene la priorità e indipendenza del pensiero dal linguaggio (a lungo la posizione delle scienze cognitive), e chi invece sostiene la priorità del linguaggio sul pensiero. In questa forma si tratta di una contrapposizione ormai sterile. Vygotskij sposta la discussione sul piano dello sviluppo ad uno stesso tempo biologico e culturale dell’animale umano: non si tratta di affermare la priorità dell’uno o dell’altro elemento, bensì di vedere come dal loro incontro si formi una nuova forma di attività cognitiva.
Il ‘pensiero verbale’, infatti, più che un modo di comunicare è un modo nuovo di organizzare l’esperienza, interna ed esterna, da parte degli animali della specie biologica Homo sapiens. È una operazione naturale perché solo la nostra specie è predisposta in modo innato per l’incontro fra pensiero e linguaggio; è una operazione storico-culturale perché questo incontro avviene fra una dotazione biologica universale e una lingua particolare. Così il ‘pensiero verbale’ è allo stesso tempo un modo di stabilire relazioni linguistiche con i propri simili ma anche se non soprattutto un modo di organizzare il proprio pensiero. La tappa intermedia dello sviluppo di questa particolare forma di azione linguistica è il cosiddetto ‘linguaggio egocentrico’,che il bambino usa parlando ad alta voce in assenza di interlocutori: qui il parlare non ha uno scopo comunicativo, appunto perché non si parla a nessuno, bensì è la prima forma di auto-organizzazione del proprio comportamento da parte del bambino.
Fino a quel momento erano stati gli adulti a guidare le sue azioni, ora che gli adulti non ci sono il bambino comincia ad usare le forme linguistiche che ha ascoltato da loro per imparare a controllarsi anche da solo:
«il linguaggio egocentrico appare sulla base di un percorso sociale, quando il bambino trasferisce le forme sociali di comportamento, le forme di collaborazione collettiva nella sfera delle funzioni psicologiche personali» [L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, cit., p. 58].
L’esito finale di questo processo di sviluppo è il ‘linguaggio interno’, cioè appunto il ‘pensiero verbale’, il pensiero che fa tutt’uno con le parole di una lingua e che non richiede più di essere espressamente articolato: qui
«il pensiero non si esprime nella parola, ma si realizza nella parola» [Ivi, p. 334].
Lo schema complessivo dello sviluppo individuale delle funzioni psichiche superiori è quindi, per Vygotskij,
«linguaggio sociale – linguaggio egocentrico – linguaggio interno» [Ivi, p. 59].
Con il ‘linguaggio interno’ diventa possibile lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori, che sono tutte forme diverse di ‘autocontrollo’, in particolare ‘l’intenzionalità’ e la ‘volontà’ [ibidem]. Qui si coglie la distanza radicale fra l’impostazione di Vygotskij e anche le forme più avanzate del cognitivismo contemporaneo. Per Tomasello, ad esempio, le relazioni culturali sono possibili perché nella mente umana esisterebbe un dispositivo innato per la joint attention, che permetterebbe di cogliere le intenzioni altrui. Per Tomasello, allora – e qui svela fino in fondo la sua fedeltà al paradigma delle scienze cognitive, cioè il suo individualismo cognitivo – esiste nella mente umana la capacità innata degli esseri umani «di comprendere i conspecifici come esseri simili a loro stessi, con vite intenzionali e mentali simili alla propria» [M. Tomasello, Le origini culturali della ognizione umana, p. 23]. Il punto di partenza di questa impostazione è una forma di autocoscienza originaria, come appunto pensava il fondatore moderno del dualismo, Cartesio. Così il piccolo umano – quando ancora non è capace nemmeno di tenersi in piedi, tantomeno di dire una parola, in realtà nemmeno di chiudere bene la bocca quando viene imboccato – sarebbe però capace di «mettersi nei ‘panni mentali’ degli altri» [ivi, p. 24].
Qui Tomasello ci sta implicitamente dicendo che nel mondo naturale esistono, oltre alle carote e ai contratti over the counter, anche le intenzioni, e che per di più i piccoli umani riescono anche a vederle, forse come i fedeli vedono le lacrime delle statue della madonna. Ora tutto questo, per Tomasello, sarebbe una forma di naturalismo. In realtà qui si mostra chiaramente il vicolo cieco a cui conduce l’individualismo cognitivo che caratterizza in modo strutturale il modello delle scienze cognitive. Dovrebbe anche essere evidente allora la novità della impostazione di Vygotskij, che muovendo dal transindividuale, dalle relazioni sociali, dalle funzioni ‘interpsichiche’ arriva a quelle ‘intrapsichiche’. La ‘volontà’, in questo processo, non è il punto di partenza dello sviluppo individuale, al contrario, è l’esito finale di un processo storico-sociale di progressiva liberazione della mente umana dai vincoli che il nesso ambiente-percezione esercita sulla mente naturale.
La selezione naturale ha infatti guidato lo sviluppo di un apparato cognitivo prontissimo a reagire agli stimoli ambientali; in questo senso la mente animale è guidata dalla percezione, il pensiero è subordinato all’azione, il ricordo all’occasione che lo evoca. Con la nascita del ‘pensiero verbale’, invece, il piccolo umano rovescia questa situazione: imparando, attraverso il ‘linguaggio interno’, a controllare il proprio comportamento, impara di fatto a controllare la propria stessa attenzione. Ora i rapporti fra percezione e pensiero si ribaltano: non occorre più percepire uno stimolo esterno per concentrare su di esso la nostra attenzione. Diventa ora possibile pensare a ciò che non si percepisce:
grazie all’azione pianificatrice del linguaggio, diretta alla propria attività, il bambino crea accanto ad una serie di stimoli, che gli provengono dall’ambiente, una seconda serie di stimoli ausiliari che si frappongono fra lui e l’ambiente e dirigono il suo comportamento. Proprio per questa seconda serie di stimoli, formatasi mediante il linguaggio, il comportamento del bambino si eleva ad un livello più alto, acquisendo una relativa libertà dalla situazione che attrae direttamente, e i tentativi impulsivi vengono trasformati in un comportamento pianifi cato e organizzato [L.S. Vygotskij, A. Lurija, cit., p. 26].
La ‘volontà’, in questa prospettiva, non è affatto – come nelle scienze cognitive – originaria, non è la premessa nascosta di una cattivo naturalismo, che presuppone proprio ciò che più dovrebbe spiegare; non è nemmeno, però, esclusa, come accade in tutte le impostazione speculari e contrarie, cioè in tutte le varie forme di comportamentismo ed eliminativismo.
La mente individuale è il punto di arrivo di un processo di emancipazione dalle condizioni naturali, ma anche da tutte le relazioni storico-sociali che si presentano di fronte all’individuo come se fossero naturali [L.S. Vygotskij, The Vygotsky Reader]. L’individuo non è la premessa della relazione, è il suo effetto. Il transindividuale prende infine forma concreta e storica nell’individuo: il segno, che si trova al di fuori dell’organismo, ed è, come lo strumento, separato dalla persona, è sostanzialmente un organo collettivo, o uno strumento sociale. Potremmo ulteriormente dire che tutte le funzioni superiori non si sono venute costituendo nell’ambito della biologia, e neppure semplicemente della sola filogenesi, ma che il meccanismo che sta a loro fondamento è il calco di quello sociale. Tutte le funzioni psichiche superiori rappresentano delle relazioni sociali interiorizzate, il fondamento della struttura sociale della persona [L. S. Vygotskij, Storia delle funzioni psichiche superiori, p. 201].
5. Individuazione e transindividuale
Questa immagine dell’umano contiene anche una potenzialità politica, come peraltro era evidente anche allo stesso Vygotskij. L’individuo è l’esito finale, ma non definitivo, di un processo di individuazione. Non definitivo perché il transindividuale, come ci ricorda Simondon, eccede sempre l’individuo, perché
«il vivente serba in sé una permanente attività di individuazione» [G. Simondon, L’individuation psychique et collective. À la lumiere des notions de Forme, Information, Potentiel, Métastabilité, 1989, trad. it. p. 30]
Nella teoria di Vygotskij è quindi implicita una carica dinamica, proprio perché l’individuazione non è mai compiuta una volta per tutte, perché il transindividuale è sempre più denso e ricco di ogni individuo, che, al contrario, è come una mancanza che cerca sempre nuove individuazioni, sempre nuove determinazioni. Si stabilisce così un rapporto fra la ricchezza sociale e quella individuale, fra le potenzialità sociali – che peraltro lo stesso individuo contribuisce a creare – e le loro concrete realizzazioni individuali. Il nesso è evidente rispetto alla creatività individuale.
Coerentemente con la sua impostazione generale, che vede sempre l’individuo come individuazione, come esito di un processo di ‘interiorizzazione’ delle risorse sociali, per Vygotskij la creatività non è originaria, non nasce con l’individuo. Al contrario,
«l’immaginazione costruisce sempre con materiali forniti dalla realtà» [L. S. Vygotskij, 1930, Immaginazione e creatività infantile, p. 29].
L’individuo ricco – in senso umano – è l’individuo che ha vissuto esperienze diverse e che ha saputo assimilarle; è l’individuo che è riuscito a rimanere in contatto con il transindividuale, cioè con la ricchezza sociale: l’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. Ecco perché nel bambino l’immaginazione è più povera che nell’adulto: la cosa si spiega con la maggiore povertà della sua esperienza [Ivi, p. 29-30].
Il tema politico connesso a quello della individuazione psicologica è allora quello della «dilatazione della sua esperienza» [Ibidem]. Una ‘dilatazione’ che non è un accessorio, un dono capriccioso che ad alcuni individui è concesso e ad altri no. Se l’umano coincide con il processo di individuazione, di ‘interiorizzazione’ del transindividuale, allora ogni sistema sociale che blocchi questo processo letteralmente si frappone alla costruzione degli individui, perché
«l’immaginazione si dimostra una condizione assolutamente indispensabile di tutte le attività intellettuali dell’uomo» [Ivi, p. 33].
Proprio perché è transindividuale la ricchezza sociale non può essere proprietà privata di qualcuno, non può cioè essere sottratta a quell’‘essere sociale’ che è l’essenza umana. Quando qualcuno si appropria del transindividuale letteralmente si appropria di una potenzialità di esperienza umana; e così è l’intera essenza umana ad esserne sminuita. Il tema politico che pone la questione del transindividuale è quindi quello della sua completa accessibilità umana:
soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell’uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell’uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo fino ad oggi […] e così la società già formata produce l’uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l’uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà [K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, cit., pp. 114-115].
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