I travagli attuali di Sel hanno dato la stura a un fiume di
trivialità, sparate ad alzo zero in tutte le direzioni. Contro Vendola e Frantoianni, tacciati di "arroccamento identitario", di resa al minoritarismo e alla marginalità.
Contro Migliore
e gli «scissionisti», accusati di tradimento (gli «Scilipoti di
Renzi», i «Razzi di sinistra»…). Contro la sinistra in generale,
riesumando l’eterno e un po’ frusto mantra della scissione come
vocazione e come destino («La maledizione della sinistra più sinistra» intitolava sciacallescamente il quotidiano renziano Europa).
Come se il gusto della separazione abitasse solo su questo
versante dello schieramento politico in forma di malattia
incapacitante.
In realtà non è così. Perché è vero che la travagliata vicenda
storica del socialismo italiano è disseminata di scissioni, da
quella storica di Livorno del 1921, a quella di Palazzo Barberini del
1947 che separò nenniani e saragattiani, a quella del 1964 che segnò
la nascita del Psiup, fino alla reazione a catena seguita alla svolta
della Bolognina. Ma è altrettanto vero che nel campo liberale non si
è stati da meno, a cominciare dal big bang che separò all’origine
destra e sinistra storiche, passando per la contrapposizione tra
giolittiani e salandrini, e dalla disseminazione dei
differenti gruppi notabilari che impedirono nel nostro Paese la
nascita di un vero «partito della borghesia». Per non parlare della
diaspora a cui si è assistito recentemente nel Pdl, scisso in
molteplici frammenti, da Fratelli d’Italia all’Ncd.
La verità è che in un contesto politico come il nostro, non caratterizzato da uno «stile di aggregazione pragmatica» sul modello inglese strutturalmente bipartitico (ma anche lì, come si è visto, le cose stanno cambiando), la tendenza alla scomposizione dei soggetti politici è fisiologica, in particolare in momenti di grande trasformazione «di sistema», in cui le varie culture politiche tendono a riposizionarsi in rapporto al mutamento dell’insieme. E questa è, appunto, una congiuntura politica di tal genere. Non c’è dubbio, infatti, che la nascita del Pd renziano, e la deriva resa visibile dai suoi primi passi come soggetto di governo, mettono in evidenza una mutazione genetica insieme del partito e del sistema, che offre il segno di una discontinuità radicale.
La verità è che in un contesto politico come il nostro, non caratterizzato da uno «stile di aggregazione pragmatica» sul modello inglese strutturalmente bipartitico (ma anche lì, come si è visto, le cose stanno cambiando), la tendenza alla scomposizione dei soggetti politici è fisiologica, in particolare in momenti di grande trasformazione «di sistema», in cui le varie culture politiche tendono a riposizionarsi in rapporto al mutamento dell’insieme. E questa è, appunto, una congiuntura politica di tal genere. Non c’è dubbio, infatti, che la nascita del Pd renziano, e la deriva resa visibile dai suoi primi passi come soggetto di governo, mettono in evidenza una mutazione genetica insieme del partito e del sistema, che offre il segno di una discontinuità radicale.
Del Partito democratico, in primo luogo, perché esso ha
silenziosamente, senza modifiche statutarie e persino senza una
sensata discussione, mutato natura e struttura.
Il Pd è, oggi, di fatto, un’appendice del proprio leader. Da corpo
organizzato in funzione della selezione e promozione del
personale di governo è diventato, alla velocità della luce, per
effetto prima di una scalata «esterna» alla sua leadership, poi per
il risultato elettorale delle europee, un «partito personale»
a tutti gli effetti. Potremmo dire persino «dispoticamente
personale», la cui discussione interna viene risolta a colpi di
ultimatum (si veda il caso Mineo) e di tweet del capo, e il cui
destino dipende sempre più, nel bene o nel male, dalle sorti del suo
«uomo solo al comando». Un partito, potremmo aggiungere, totalmente
interno per pratica e per vocazione, al paradigma neoliberista,
di cui accetta vincoli (la linea Merkel), referenti (si pensi alle
riforme cogestite con Berlusconi e Lega!) e uomini (si veda il via
libera a Junker).
Ma anche, dicevo, mutazione genetica del sistema politico nel suo
complesso, perché il magnete renziano lavora in tutte le direzioni,
non solo sulla sua sinistra, frantumando tutte le formazioni che
gli stanno intorno, da Scelta civica a quel che resta della diaspora
cattolica, e attirandone i frammenti a vocazione ministeriale
(nel senso con cui Gaetano Salvemini usava il termine).
E soprattutto perché la metamorfosi renziana del Pd segna la fine
conclamata anche dell’ombra rimasta di ciò che era la vecchia
sinistra (di cui, appunto, oggi non resta neppure più la memoria).
Sull’ala sinistra del nostro sistema politico si apre una gigantesca
voragine, che attende di essere riempita.
Non possono stupire, dunque, i contraccolpi che tormentano il
percorso di Sel, la formazione politica che stava più a ridosso
dell’area Pd, e che sul suo precedente assetto e sulla sua, almeno
dichiarata, vocazione di sinistra aveva scommesso. Così come non può
stupire che il detonatore di questa crisi sia stato costituito
dall’apparire della lista «L’Altra Europa con Tsipras» e dal suo (non
da tutti sperato) superamento della fatidica soglia, a cui Sel ha
contribuito attivamente.
Non può stupire perché quel progetto embrionale di
soggettività politica alternativa, sopravvissuto (sia pur di
misura) alla prova del quorum mette all’ordine del giorno, appunto, la
costruzione (non, si badi, la ri-costruzione, o l’esumazione, ma la
rielaborazione su basi nuove) di una sinistra in Italia
all’altezza dei tempi. Ha ragione Asor Rosa quando, su questo
giornale, ci dice che il progetto deve necessariamente essere
ambizioso. Che non può arrestarsi all’amministrazione di quel milione
e centomila voti che la «Lista Tsipras» ha raccolto, ma immaginare
una sinistra ben più ampia (perché i tempi e i modo della crisi non
lasciano spazio alle vocazioni testimoniali), determinata
a riempire quella voragine. Ed è vero che chi in quella lista ha
creduto non può pensare che essa costituisca, di per sé, «il
soggetto», o «la forma» già definita o definibile per vie interne,
di quella grande speranza. Ma quel milione e centomila può essere il
punto da cui partire. E quella comunità che si è mobilitata per
raccoglierlo, il catalizzatore di una chimica che produca, in
itinere, processi di aggregazione ampi, inclusivi, rispettosi
delle differenti identità, e dei rispettivi tempi, capace di
rimettere in gioco «pubblici» diversi, dentro e fuori
i tradizionali steccati della sinistra politica.
Se una lezione ci viene dai fatti, è che nessuna delle forme
politiche generatesi alla sinistra del Pd può sopravvivere oggi da sola.
E nel contempo che il processo di ricostruzione di una sinistra
italiana non può ignorarne nessuna, così come non può ignorare
l’enorme esercito degli scoraggiati, degli indignati e dei delusi,
migrati nelle aree grigie dell’astensione, o del voto «grillino», o di
quello al Pd «a naso turato». È un buon viatico, per le talpe che
hanno voglia di scavare.
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