Esattamente quarantacinque anni
fa, nel Giugno 1969, usciva il primo numero del “Manifesto” rivista: distribuito
nelle edicole dalle edizioni Dedalo di Bari, rappresentò, pur in quei tempi di
militanza attiva e appassionata di tantissime e tantissimi, un successo
strepitoso vendendo 55.000 copie.
Allora entrò nel vivo la vicenda
politica e editoriale che condusse i redattori della Rivista alla radiazione dal
PCI nel Novembre dello stesso anno, alla formazione del gruppo politico, al
quotidiano nell’Aprile del 1971, alla sofferta e negativa presentazione
elettorale del 1972, alla fondazione del PdUP e alle successive rotture e
ricomposizioni: un pezzo di storia della sinistra italiana che molti
ricorderanno ancora.
Non è questa però l’occasione
per ricostruirla nel dettaglio.
Vale la pensa ricordare che, in
quel numero 1 (al prezzo di 500 lire), accanto agli articoli di Luigi Pintor,
Vittorio Foa, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Edgar Snow, K.S. Karol, Lucio
Colletti si trovava un documento eccezionale: le tesi del XIV congresso del
Partito Comunista Cecoslovacco che avrebbe dovuto tenersi il 9 Settembre del
1968, poi rinviato per l’invasione delle truppe del patto di Varsavia e quindi
svolto clandestinamente all’interno della fabbrica CKD di
Praga.
Quello del giudizio
sull’invasione di Praga e sul rapporto con l’Unione Sovietica fu uno dei punti
dirimenti sui quali si consumò la rottura con il PCI che appariva ancora in
ritardo nell’esprimere tutto il necessario dissenso verso il regime
sovietico.
Oggi s’intende soltanto
ricordare l’espressione di una concezione affatto diversa della politica che si
esprimeva a quel tempo attraverso la riflessione e la
militanza.
Per questo motivo troverete di
seguito riprodotto l’editoriale di apertura “Un Lavoro Collettivo” non firmato e
quindi attribuibile ai due direttori, Lucio Magri e Rossana Rossanda, quale
testimonianza di un’epoca, di un’idea di rapporto tra politica e cultura, di
un’analisi relativa proprio ai grandi fatti di
quell’epoca.
UN LAVORO
COLLETTIVO
Questa pubblicazione nasce da un
convincimento, che pensiamo non solo nostro: il convincimento che la lotta del
movimento operaio, la storia stessa del movimento, sia entrata in una fase
nuova; che molti schemi consacrati d’interpretazione della realtà e molti modi
di comportamento siano saltati senza rimedio; che la crisi sociale e politica
che ci circonda non possa essere vissuta e fronteggiata con la normale
amministrazione.
In Italia, come nel mondo, le
vicende sconvolgenti di questi anni, e quelle che è ragionevole attendersi,
dimostrano che il sistema di potere del capitalismo è combattuto in profondità
da un movimento impetuoso, che aspira a una società radicalmente
diversa.
E tuttavia dimostrano che questo
movimento fatica a darsi un ordine e una prospettiva e soffre di divisioni e
insufficienze, teoriche e politiche, che crescono con il crescere della tensione
rivoluzionaria.
E’ spiegabile che così sia. I
problemi che abbiamo di fronte non sono, infatti, particolari e minori, ma
generali ed essenziali: si tratta di cogliere la natura della crisi che scuote
il capitalismo maturo; le ragioni della frattura del movimento operaio e
comunista; le vie di una transizione al socialismo in una società “avanzata”
com’è la nostra; le possibili condizioni di una saldatura tra le spinte maturate
in questi anni e una tradizione di mezzo secolo.
Di così grandi problemi nessuno
può pretendere di possedere tutti i termini, e tanto meno di influenzare la
soluzione con formule logore o con improvvisazione
avventate.
Né il ripiegamento dogmatico né
la fiducia nella spontaneità, né l’indulgenza con le proprie abitudini né la
presunzione di un gruppo possono aiutarci. La via che le cose stesse
suggeriscono è piuttosto quella di una dialettica aperta all’interno di tutto il
movimento, di un massimo della circolazione delle idee, per modeste che siano,
di un più vero lavoro collettivo, senz’altra limitazione che quella imposta
dalla responsabilità e dalla coscienza di ciascuno.
Una via da percorrere ritrovando
tutto il senso della milizia politica, al di fuori dai condizionamenti tattici e
dagli equilibri di potere, senza cedere allo scoraggiamento per la disparità tra
i compiti che si affrontano e le forze di cui si
dispone.
Su un terreno generale, ricco
d’implicazioni teoriche, avanza oggi il quesito se sia maturo il superamento del
capitalismo come sistema mondiale, del suo modo di produrre e di consumare, di
pensare e far pensare, di organizzare la vita collettiva e i rapporti tra gli
uomini: così come Lenin lo pensava maturo, su scala europea cinquant’anni
fa.
La irrazionalità economica,
l’impotenza politica, lo smarrimento ideale del capitalismo sviluppato, la sua
disumanità, ma anche la tragedia del sottosviluppo, la crisi produttiva e
politica dei paesi socialisti europei, la rivoluzione culturale cinese,
ripropongono in forme diverse un’unica questione: la necessità di un sistema
sociale non più legato allo sfruttamento in qualsiasi forma di divisione del
lavoro, all’atomizzazione della vita collettiva e alla solitudine individuale;
la necessità e l’attualità di quella che Marx chiamava società
comunista.
Per i condizionamenti storici
che si conoscono, il movimento operaio e le ideologie che è andato elaborando,
la II internazionale e il riformismo, ma anche la III internazionale e lo
stalinismo, non hanno affrontato, o hanno poi abbandonato o oscurato questa
tematica.
Si è venuto perdendo il senso
della rivoluzione come rottura e rovesciamento dell’ordine delle cose
esistenti.
E’ astratto e intellettualistico
riproporsi questa prospettiva e in tutta la sua
ampiezza?
O non è vero invece che quanto
succede nel mondo, e le stesse conquiste del passato, inducono a ritenere che
siano presenti le condizioni perché il discorso teorico di Marx si trasferisca
sul terreno della concretezza storica e dell’attualità politica con tutta la
forza del suo radicalismo originario?
Senza risalire a questi nodi e
ritrovare questo respiro, non solo ai filosofi ma a ogni semplice militante
riuscirà sempre più difficile leggere e comprendere in modo unitario la storia
mondiale, vivere l’azione rivoluzionaria di ogni giorno, spezzare le
incrostazioni opportunistiche e burocratiche che si perpetuano separandosi dalla
vita e generando nuovi poteri oppressivi, o sfuggire alle lusinghe del
revisionismo socialdemocratico, o ai nuovi miti romantici e ribellistici, o ai
meccanici ritorni al passato.
Su di un terreno più
direttamente politico, avanza con forza il problema di una verifica e di un
rinnovamento coraggioso degli schemi strategici, della pratica politica, die
modelli organizzativi del movimento operaio.
Un rinnovamento
stimolato dalle grandi esperienze rivoluzionarie che si compiono in altre parti
del mondo, ma dettato dal carattere che lo scontro sociale assume oggi
nell’occidente capitalistico.
La sinistra rivoluzionaria
occidentale è ancora vittima di una debolezza storica di fronte al capitalismo
sviluppato.
La sua critica al sistema non ne
ha investito la natura ma le insufficienze produttive, le sue piattaforme di
lotta solo di rado hanno superato l’orizzonte rivendicativo o quello
parlamentare, la sua interna struttura è rimasta centralizzata e
gerarchica.
Questi caratteri negativi hanno
segnato sensibilmente il movimento di classe.
Per superarli, non una semplice
modifica di linea è necessaria ma una innovazione profonda dell’orizzonte
teorico, nel modo di essere e operare delle organizzazioni che la classe operaia
ha finora espresso.
Il nostro Paese gode di un
privilegio forse unico: d’essere teatro di esperienze, lotte, spinte originali,
non dissimili da quelle che corrono per tanta parte dell’occidente, generando
nuovi e autentici protagonisti dello scontro sociale; e d’esser sede in pari
tempo del più robusto movimento di massa del mondo capitalistico, di un Partito
Comunista non chiuso a uno sforzo di superamento dei propri limiti e
condizionamenti storici.
Un dialogo tra passato e futuro
è così aperto nella realtà ancor prima che nelle
intenzioni.
Una saldatura non superficiale
tra quel che la storia e la lotta della classe operaia sta producendo di nuovo,
si presenta come chiave di volta e molla di un salto di qualità, e condizione
della vittoria.
Purché si abbia chiaro che a un
rinnovamento di questa natura non si può approdare in modo indolore, con una
crescita naturale; ma solo con una nostra “rivoluzione culturale” capace anche
di mettere in discussione un patrimonio consolidato.
Una rivoluzione culturale, non
una battaglia d’idee tra stati maggiori intellettuali.
Il pericolo opportunista non
nasce da uno smarrimento delle coscienze o da un tradimento degli “apparati”, ma
come fenomeno sociale, effetto della complessa realtà moderna che soffoca i veri
protagonisti del processo rivoluzionario e gli operai per
primi.
E come fenomeno sociale va
dunque combattuto, con una estensione e un rilancio della lotta di classe a
tutti i livelli, con un rifiuto operaio e di massa di tutte le ineguaglianze e
le oppressioni direttamente patite nella vita produttiva e
associata.
Questi problemi, queste
esigenze, questi interrogativi esistono in un modo o nell’altro nei sentimenti e
nella mente di chiunque viva, da poco o da gran tempo nella lotta
politica.
Proporseli apertamente,
contribuire bene o male ad affrontarli, vorrebbe essere il nostro scopo, con il
rischio e la preoccupazione di un’alta percentuale d’errore, ma anche senza fare
di questa preoccupazione un alibi.
In ogni caso vuol essere,
questo, un modo di riaffermare le ragioni di una milizia, dell’impegno che ci si
assume quando si entra nell’organizzazione politica di
classe.
In condizioni nuove e con i
mezzi disponibili: anche con una rivista, che nasce per portare avanti con
qualche continuità un discorso politico già avviato, offrendosi come possibile
strumento di confronto a chiunque avverta le stesse esigenze, e augurandosi di
coinvolgere un arco di esperienze più vasto di quanto il proprio impianto non
lasci sperare.
Non ci pare esistano strade più
sicure e più rapide.
Si è lontani dalla chiarezza
teorica e dalla capacità di mobilitazione necessarie per dare a tutta la
sinistra, una nuova dimensione politico – operativa.
Ma favorire questo
processo in modo aperto, con alcune scelte pregiudiziali, anche
individuali, è già azione politica.
In questo spirito, non certo con
la presunzione di un “richiamo alle origini” e al grido di battaglia del 1848,
abbiamo chiamato questa rivista “Il Manifesto”: per sottolineare il bisogno che
sentiamo nei sentimenti e nella ragione di tanti compagni e di tanta parte della
società contemporanea, di un riferimento ideale, nella ricerca di quell’unità
d’ispirazione delle forze rivoluzionarie oggi per tanti aspetti compromessa
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