Il vertice di Parigi tra i leader “socialisti” al governo nei rispettivi paesi ha chiarito – al di là e al di sotto della retorica, come sempre trionfalistica – che non esistono alternative “rifomiste” al processo di costruzione dell'Unione Europea. Incardinato com'è in trattati sempre più vincolanti, sotto il controllo degli accordi intergovernativi che danno com'è ovvio un potere di veto o di direzione al paese economicamente più in forma (la Germania, of course), soprattutto sotto la pressione di un capitale multinazionale (“i mercati”) pronto a usare la mano forte se ci dovessero essere deviazioni dal percorso fissato già da prima degli accordi di Maastricht (1992, non proprio ieri mattina), questo “processo di costruzione” non ammette “perturbazioni” derivanti da una modificata composizione politica dei diversi paesi o del circo barnum chiamato “parlamento europeo” (assolutamente impotente, dato che è privo del potere tipico di ogni vero parlamento: quello di fare leggi).
La democrazia, insomma, è stata messa da parte, e non da ora. Più di tutti dovrebbero esserne consapevoli i “socialisti” europei, di fatto indistinguibili – anche sul piano linguistico e retorico – dai “popolari” guidati da Merkel.
Il vertice ha chiarito che questo insieme di leader teoricamente “progressisti” non proveranno neppure a mettere in discussione il “patto di stabilità e crescita” che vincola tutti i paesi membri. La loro unica preoccupazione – visto che la crisi morde da sette anni e non se ne vede la fine – è di avere un po' più di mano libera sugli “investimenti”. Naturalmente pubblici, visto che “il privato” - in tempi di deflazione galoppante – si guarda bene dal rischiare qualcosa. Il grande obiettivo, se così lo si vuol definire, è insomma quello di scorporare la spesa per investimenti dal computo generale della spesa pubblica nazionale.
La Germania è notoriamente contraria, perché teme come sempre di dover essere prima o poi chiamata a rispondere – con le proprie risorse – degli “eccessi” imputati ad altri. Quindi preme sul concetto di “stabilità” mentre i sedicenti socialisti forzano di più l'accento sulla “crescita”.
Ma non bisogna farsi prendere per il naso. L'idea uscita dal cappello di Renzi e Hollande per “ammorbidire” l'occhiuta sorveglianza tedesca è un suicidio preventivo: fare subito e prima le “riforme strutturali”, in modo da non poter trovare più ostacoli – nei trattati – per una serie di manovre “espansive” giocate sullo sfruttamento di “tutta la flessibilità possibile” definita nei trattati stessi.
Di fatto: un'applicazione piena e immediata dei diktat per avere poi – e forse – più margini di manovra.
Un percorso così delineato non lascia immaginare un futuro a breve meno sanguinoso per quanti hanno fin qui pagato il costo più alto: lavoratori dipendenti, pensionati, giovani e non precarizzati a vita, grazie a meno occupazione, salari più bassi, contratti più incerti (“flessibili”), servizi sociali ridotti al minimo e anche meno. È un pecorso naturalmente rischioso dal punto di vista del consenso interno ed allora ecco che le “riforme costituzionali” - e la dissoluzione dei rapporti tra “base e vertice” fin qui garantiti dai “corpi intermesi” (partiti e soprattutto sindacati) - diventano una “necessità” prioritaria; perché bisogna riprodurre anche all'interno di ogni singolo paese quel “dispotismo illuminato” che governa dalle origini l'Unione Europea. Una messa in sicurezza della “stabilità governativa” a prescindere dalle crisi di egemonia esercitate sulle popolazioni.
Tutta la scommessa si regge su un'incognita: la crisi finirà presto o no? Sia la Francia che l'Italia, tra i paesi “grandi” mostrano i segni della frattura sociale e politica conseguente al degradare delle condizioni di vita. Sta peggio – politicamente – la Francia, perché Hollande è un disastro che ha dimostrato impotenza assoluta, aprendo le dighe alle illusioni di revanche nazionale, incarnate dalla Le Pen. L'Italia si culla nell'illusione di aver trovato una ciambella di salvataggio in Renzi, ma si fa presto in questo paese a rovesciare anche le illusioni.
Ma proprio in campo economico le illusioni non trovano il terreno per mettere radici. Dopo sette anni in cui le principali banche centrali del pianeta (la Bce, comunque, molto meno delle altre) hanno cosparso il mondo con “iniezioni di liquidità” ci si comincia ad accorgere che i problemi così creati sono più numerosi – e in buona parte anche più seri – di quelli che si cercava di risolvere (il blocco del credito, susseguente alle crisi bancarie).
Gli analisti più attendibili cominciano così a contare le “bolle speculative” pronte ad esplodere: in testa a tutte c'è ovviamente quella delle borse, a cominciare da Wall Street, perché è ben strano che in un mondo stagnante (l'economia globale cresce, meno di prima, quasi soltanto nei paesi emergenti) le borse conoscano un boom continuato da tre anni a questa parte.
Ma preoccupa anche quella immobiliare, con le banche Usa che hanno ripreso il giochetto della cartolarizzazione sottostante i mutui (come nel caso della “crisi dei subprime”), i prezzi folli in Gran Bretagna e la ripresa persino nell'Europa continentale.
La terza è quella dei “social network”, macchine che centrifugano miliardi di contatti e “clienti potenziali” - ma non direttamente vincolati – messi a disposizione della pubblicità “customizzata”. Peccato che in tempi di crisi anche la pubblicità abbia subito drastici tagli di budget, quindi il valore azionario attribuito ai vari Facebook, Twitter e compagnia bella è destinato a essere rapidamente ridimensionato.
Della quarta bolla non parla nessuno, tranne qualche economista borderline o qualche ministro russo. È quella del dollaro, moneta dal valore ormai commisurato soltanto al funzionamento del Pentagono... Ma siccome è un argomento tipo “l'arma fine di mondo”, il silenzio è d'oro.
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