Nel suo saggio del 2010 La malattia dell’Occidente. Perché il lavoro non vale più (Laterza, 2013), Marco Panara, giornalista economico del quotidiano La repubblica,
denuncia ciò che da tempo era noto agli economisti e ai leader politici
di tutto il mondo: «La perdita di valore del lavoro, e il conseguente
trasferimento di ricchezza del lavoro al capitale». Sulla scorta dei
dati forniti dalle maggiori istituzioni internazionali che monitorano
l’andamento dell’economia mondiale, egli calcola nell’ordine di 5 punti
annui (circa 1500 dollari all’anno per ciascun lavoratore occidentale)
questo indiscutibile trasferimento di ricchezza.
Il salario si fa sempre più anemico, mentre il profitto ingrassa con
la stessa rapidità seguendo una “legge di sviluppo” che sembrava essere
andata in soffitta insieme al polveroso Carlo Marx. Non è che “a volte ritornano”; è che il Capitale non è mai andato via dalla scena.
«Quello che sta accadendo in Occidente da un quarto di secolo a
questa parte», scrive Panara, «è che il valore del lavoro diminuisce
costantemente. Si potrebbe dire che nello scontro secolare tra lavoro e
capitale in questa fase ha vinto il capitale». Perché «in questa fase»?
Diciamo piuttosto che il Capitale è destinato a vincere sempre e
necessariamente sul lavoro, almeno fino a quando non verrà superato il
rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che lo ha reso possibile
storicamente (attraverso la formazione di una classe di nullatenenti
costretti a vendersi ai capitalisti per sopravvivere) e che lo espande e
lo rafforza sempre di nuovo – anche attraverso le crisi economiche, che
sono immanenti al meccanismo di funzionamento di questo modo di
produzione.
Questo al di là delle fluttuazioni che possiamo registrare
contingentemente nell’andamento del salario reale, il quale, è bene
ricordarlo, si trova in una relazione assai stretta non solo con le
condizioni della valorizzazione, e quindi con il processo di
accumulazione, ma anche con la peculiare stratificazione sociale di un
Paese: vedi, ad esempio, il peso che i ceti parassitari percettori di
qualche tipi di rendita hanno nella distribuzione del plusvalore.
Insomma, per farla breve, il lavoro è sempre e necessariamente legato al
carro del profitto.
La svalorizzazione economica del lavoro, osserva Panara, si dà
insieme alla sua svalorizzazione a tutto campo: sul piano politico come
su quello etico. «Oggi viviamo in una società in cui il denaro conta
assi più del lavoro». Anche qui: perché «oggi»? Diciamo, più correttamente, che sempre più
il denaro agisce, in quanto equivalente universale delle merci, come
potenza sociale («che sta dentro le nostre tasche») in grado di comprare
tutto ciò che ha un valore sul mercato. Al lettore il facile compito di
individuare ciò che si sottrae alla bronzea legge del valore. A suo
tempo gli scugnizzi di Napoli riuscirono a confezionare e a vendere
anche l’aria di Posillipo: che genialità!
Per rendere una vivida immagine del potere che il denaro ha sugli
individui moderni, lo spendaccione di Treviri citò (in latino) il verso
biblico che segue: «Essi hanno un solo pensiero, e danno la
loro forza e il loro potere alla bestia. E che nessuno possa comprare o
vendere, se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il
numero del suo nome» (Apocalisse). Come spiegò a suo tempo
Marx, il denaro non è una cosa, non è una tecnologia economica messa dal
progresso storico al servizio della società, dal cui grado di
responsabilità politica ed etica dipenderebbe un suo uso più o meno
buono: il denaro è in primo luogo l’espressione di un peculiare rapporto
sociale.
Per quanto possa sembrare assurdo a chi concentra la propria
attenzione solo, o soprattutto, sui fenomeni afferenti la circolazione
della ricchezza (più o meno fittizia) nella sua forma finanziaria, anche
oggi il potere del denaro non potrebbe essere neanche concepito senza
il quotidiano sfruttamento dei salariati in ogni luogo del pianeta. La
stessa speculazione finanziaria, che in effetti non sembra avere alcun
rapporto con il lavoro vivo, può costruire i suoi grattacieli di carta
solo a partire dalla cosiddetta ricchezza reale: solo su questo
miserabile (sotto tutti i punti di vista) fondamento è possibile quella
miracolosa moltiplicazione “valoriale” che fa sorgere nella testa di chi
specula e in quella di chi teorizza il mondo “postcapitalistico” la
chimera del denaro prodotto a mezzo di denaro.
Poteva mancare, nel libro in questione scritto da un vecchio
progressista, un dolente richiamo all’articolo primo della Costituzione?
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»: che fine ha
fatto, si chiede amareggiato Panara, quella solenne dichiarazione in un
Paese in cui avanza la svalorizzazione “a 360 gradi” del lavoro, cresce
la precarizzazione del lavoro, dilaga la disoccupazione, soprattutto
fra le nuove generazioni? Panara ricorda quanto disse Giuseppe Saragat
nel 1947, a commento dell’Art.1: «Che cosa vuol dire questo articolo
primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l’accento sul fatto
che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di
ricchezza, ma sulla attività produttiva di quella ricchezza. È il
rovesciamento delle vecchie concezioni». Quasi mi commuovo e abbocco.
Quasi.
A
suo tempo il comunista che sussurrava alla bottiglia mi salvò
dall’infatuazione costituzionalista introducendomi nell’arcano mondo
della creazione del plusvalore, popolato di pochi detentori di capitale e
di molti venditori di mera capacità lavorativa, non certo felici di
creare tanta ricchezza sociale in cambio di un salario, che rimane miserabile
in ogni circostanza, anche in quella più favorevole ai lavoratori.
Insomma, appresi che non esiste un astratto e astorico lavoro, bensì un
lavoro sempre connotato in termini storici e sociali. Scoprii che il
lavoro tanto celebrato nella Costituzione «più bella del mondo» non è
che il “marxiano” lavoro salariato, il lavoro dei moderni schiavi, sul
cui sfruttamento si fonda il potere sociale mondiale del Capitale anche
nel XXI secolo. Anzi, oggi molto più che ai tempi di Marx, la cui
visione mondiale apparve allora ai più un tantino esagerata.
Ecco perché mi sono messo a ridere quando ho letto la frase che
segue: «Ogni volta che il lavoro è stato messo al centro, che sia stato
da San Benedetto, da Calvino o dalle costituzioni ne è sempre seguita
una fase di progresso civile ed economico e di conquiste di libertà».
Come se mettere al centro il lavoro (salariato) non equivalesse
a mettere al centro il rapporto sociale che lo rende possibile per la
maledizione dei senza riserve e la gioia per chi sa trarre gioia dal
loro sfruttamento! Mettere al centro il lavoro (salariato)
significa confermare la vigente prassi capitalistica, i cui lamentati
“lati cattivi” sono necessari esattamente come i suoi lodati “lati
positivi”. Parlare dei “lati buoni” e dei “lati cattivi” dello sviluppo tecnologico (che rende sempre più produttivo il lavoro) e della globalizzazione
(con l’ingresso nel mercato mondiale di nuovi competitori capitalistici
di grandi dimensioni: Cina, India, Brasile, ecc.) significa non
comprendere la natura del Capitalismo, il quale non conosce “lati” ma
processi sociali assoggettati alla sempre più stringente e totalitaria
logica del profitto.
Ed è proprio sulla natura socialmente totalitaria
del Capitalismo del XXI secolo che dovremmo riflettere, anziché versare
lacrime, come fa anche Panara, sulla perduta sovranità della politica a
vantaggio delle «forze del mercato» che metterebbe a repentaglio le
conquiste democratiche degli ultimi cinquant’anni.
Alle spalle degli apologeti della Santissima Costituzione, l’Art 1
dice la verità sul cattivo mondo che ci ospita. Come ho scritto altre
volte, trattandosi non di generico lavoro ma di lavoro salariato,
il quale presuppone e pone ogni giorno che il buon Dio manda in terra
la società dominata dal Capitale, la società sequestrata nella
dimensione strutturata dalla ricerca del massimo profitto; trattandosi
di questo e di nient’altro la precarizzazione del lavoro e la
disoccupazione non solo non contraddicono quell’articolo assurto a mito,
la cui pregnanza ideologica in senso ultrareazionario deve
necessariamente sfuggire ai progressisti d’ogni tendenza politica, ma
piuttosto lo confermano nel modo più puntuale. L’Art. 1 è così vero da
rasentare il cinismo.
Il lavoro che Panara vuole mettere al centro dell’interesse generale è
precisamente quello che rende radicalmente disumana questa società, al
contrario di quanto pensava a suo tempo il socialdemocratico Giuseppe
Saragat.
A pagina 13 del saggio ho letto una considerazione di stampo per così
dire malthusiano che mi ha fatto molto riflettere: «Dopo la fine della
peste nera nel 1347 i salari reali salirono rapidamente, perché il male
aveva falcidiato la popolazione e i pochi sopravvissuti erano diventati
assai più preziosi di prima nelle botteghe e nei campi». Subito mi è
balenata alla mente l’intervista rilasciata a Le Nouvel Observateur questo inverno da Thomas Piketty, il celebratissimo autore de Il Capitale nel XXI secolo:
«Nel XX secolo sono state le guerre a fare tabula rasa del passato e a
dare temporaneamente l’illusione di una diminuzione strutturale delle
disuguaglianze e un superamento del capitalismo». Diciamo che le guerre
mondiali hanno molto a che fare con il modo capitalistico di produrre e
distribuire la ricchezza sociale. Soprattutto la Seconda carneficina
mondiale, con la sua gigantesca opera di svalorizzazione e di
distruzione del capitale in ogni sua fenomenologia (compresa quella
“umana”, ovviamente), rese possibile il definitivo superamento della
lunga e micidiale crisi economica iniziata formalmente nel ’29 e il più
lungo e “tonificante” ciclo espansivo che la storia recente del
capitalismo conosca. Una “bella” guerra mondiale sarebbe anche oggi un
rimedio radicale, un vero e proprio toccasana, forse la sola “manovra
economica” in grado di rilanciare in Occidente e in Giappone
l’accumulazione in grande stile, e non c’è serio economista in giro per
il capitalistico mondo che non lo faccia intuire con battute, metafore e
paradossi. La «malattia», per dirla con Panara, è grave, e bisogna
aggredirla con rimedi adeguati, altrettanto gravi.
Ancora Piketty: «Affinché il XXI secolo inventi un superamento
contemporaneamente più pacifico e più duraturo è urgente ripensare il
capitalismo dalle fondamenta, serenamente e radicalmente, e costruire
una amministrazione pubblica adatta al capitalismo globalizzato del
nostro tempo». Qui siamo alle solite “utopie” riformiste che,
«serenamente e radicalmente», bisogna trattare alla stregua di
intoccabili sostanze escrementizie. Chiudo la breve parentesi.
La “malattia” dell’Occidente e del mondo intero si chiama
Capitalismo, una formazione storico-sociale radicata sullo sfruttamento
sempre più intensivo e scientifico del cosiddetto capitale umano, quello
che tutti vorrebbero «mettere al centro» con uno zelo che può
compiacere solo il Demonio, la cui attiva – e non metaforica – presenza
nel mondo il Papa Rivoluzionario denuncia ogni giorno, per la gioia
degli “Atei Devoti” come Giuliano Ferrara.
A proposito di “capitale umano”, di radici sociali del Male e di Santissimo Padre! In una intervista rilasciata in esclusiva a La Vanguardia, ripresa dall’Osservatore Romano
di ieri, Papa Francesco è tornato a lamentare la realtà di un mondo che
ha messo al centro non l’uomo ma il Dio denaro «le grandi economie
mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro».
Richiesto di commentare la tesi secondo la quale l’attuale Papa sarebbe
un rivoluzionario, il Vicario del Padre Eterno ha risposto in termini
molto “marxisti”: «Per me la grande rivoluzione è andare alle radici,
riconoscerle e vedere quello che queste radici hanno da dire al giorno
d’oggi. Non c’è contraddizione tra essere rivoluzionario e andare alle
radici». Non c’è dubbio. Solo il rivoluzionario si sforza di cogliere
l’essenza di una società, che sta nei suoi rapporti sociali. Per Marx «Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso» (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).
E siccome l’uomo è la sua prassi sociale, ne ricavo l’urgenza di
umanizzare questa prassi, e così accontentare anche il buon Francesco:
mettere al centro di tutto l’uomo – in quanto uomo.
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