Sul successo del governo Tsipras si giocherà una partita importantissima
non solo per i greci ma per le classi subalterne di tutta l’Europa.
Infatti, il governo Tsipras rappresenta un cuneo potenzialmente
pericoloso per questa Europa, l’Europa dei capitali e non dei popoli.
Il problema posto dal governo greco non sta tanto nel debito, quanto nelle misure economiche che sono nella sua agenda programmatica. A tale proposito, è significativo quanto scrive il 31 gennaio The Economist, una delle voci più autorevoli del capitale finanziario europeo. Per il settimanale, Tsipras dice due cose giuste e una completamente sbagliata.
Quelle giuste sono che l’austerity europea è stata eccessiva e che il debito (salito dal 103,1% al 175% in sei anni malgrado i tagli feroci alla spesa pubblica) non può essere pagato. Fin qui siamo d’accordo. Quale sarebbe allora la cosa completamente sbagliata? Tsipras sbaglierebbe ad abbandonare le cosidette riforme di struttura, su cui il governo greco precedente si era accordato con la Troika in cambio di prestiti ulteriori. L’abbandono delle riforme comporta misure che in Europa sono in completa controtendenza, come la riassunzione di 12mila lavoratori pubblici licenziati, l’innalzamento delle pensioni minime e soprattutto la cancellazione del programma di massicce privatizzazioni (in Grecia le banche più importanti hanno come principale azionista lo Stato). The Economist propone questa soluzione: la ristrutturazione del debito o la riduzione dei suo valore facciale in cambio della prosecuzione delle riforme.
Dopo le prime ipocrite congratulazioni, i governi europei e la Bce stanno cercando di isolare il governo greco, mettendolo alle corde per
costringerlo a proseguire nelle riforme. La Bce ha sospeso i finanziamenti alle banche greche, revocando loro la possibilità di consegnare in garanzia titoli di debito pubblico in cambio di liquidità ed estromettendole in sostanza dal Qe. Le banche greche hanno una sola possibilità, quella di ricorrere alla Banca centrale del loro Paese per ottenere liquidità dallo sportello di emergenza. Ma anche questa possibilità potrebbe essere revocata dalla Bce con una maggioranza di due terzi. In questo caso la Grecia potrebbe vedersi costretta ad uscire dall’euro. Ma c’è di più. A fine febbraio scadono i termini del prestito concesso alla Grecia e il presidente dell’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri economici dell’eurozona) ha preannunciato il rifiuto a qualsiasi prestito ponte alla Grecia, che le consenta di arrivare alla rinegoziazione di condizioni più leggere di riduzione del debito. Del resto, il ministro dell’economia greco, Varoufakis, ha raccolto rifiuti alle sue proposte da i suoi omologhi europei con cui si è incontrato, a partire dal tedesco Schauble. Eppure, la Grecia è un Paese piccolo e il suo debito in valore assoluto è il 2,8% di quello Ue. La cifra di 10-20 miliardi necessari per il prossimo anno non rappresenterebbe un problema per un colosso economico come l’Europa, che ha già salvato la Grecia nel passato.
Dunque, è nel programma del governo Tsipras il nodo della questione. E si tratta di un nodo dirimente su cui Tsipras non può cedere, pena la delusione delle aspettative dei greci e il fallimento del suo governo. Ma neanche i centri di potere economico e politico, che hanno guidato il processo di integrazione valutaria europea, possono cedere. Anche Draghi ha tenuto a sottolineare che il Qe non autorizzava nessuno a ritardare le riforme di struttura. Un cedimento europeo significherebbe che altri Paesi potrebbero pensare di poter fare lo stesso, snaturando così il senso dell’euro, e dando una pericolosa prospettiva di successo alle forze di sinistra nei confronti dei tradizionali centro-sinistra e centro-destra. Il senso dell’introduzione dell’unione valutaria europea (l’euro) consiste nel fatto di essere la leva strategica per l’attuazione della ristrutturazione delle condizioni di accumulazione del capitale in Europa (attacco al salario diretto e al welfare, privatizzazioni, centralizzazione produttiva). La posta in gioco è altissima: completare il mutamento, in atto da alcuni decenni, dei rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore di quest’ultimo o arrestare il processo e porre le premesse per invertirlo.
La situazione, per come si prospetta, appare molto difficile e incerta. Se nessuna delle due parti dovesse cedere, il governo greco dovrebbe prendere in seria considerazione il cosiddetto piano B, ovvero la possibilità di una uscita dall’euro. Proprio quello che finora Tsipras ha detto di voler escludere. Da tutto questo si possono ricavare due conclusioni. La prima è che bisogna sostenere in tutta Europa il governo greco con quanta più forza sia possibile, anche se non se ne condividono tutti gli aspetti, perché la sua battaglia è strategica. La seconda è che sull’euro è necessario definire una posizione chiara.
La radice dei problemi attuali sta nel modo di produzione capitalistico, nelle trasformazioni che impone alla società europea per scaricare la sua crisi sul lavoro salariato. Queste trasformazioni possono essere ricomprese nel cosiddetto neoliberismo, una strategia di controriforma della società le cui radici risalgono alla metà degli anni ’70 e che si basa sulla centralità del mercato autoregolato e sul ritiro dello Stato da alcune funzioni. Il punto è capire il nesso dialettico che esiste tra crisi del capitale, neoliberismo e euro. L’euro, più precisamente la Uem, è lo strumento attraverso cui il capitale attua le sue controriforme in chiave neoliberista e scarica la sua crisi sul lavoro salariato e la piccola impresa. Sottovalutare il ruolo specifico dell’euro è un po’ come se venissimo assaliti da un uomo che brandisce un bastone e ci dicessero che non bisogna preoccuparsi del bastone visto che il problema è la malvagità dell’assalitore. Certamente, senza la volontà dell’aggressore il bastone è nulla, ma è il bastone a dare un vantaggio all’assalitore e sarà il bastone che prenderò sulla testa se non gli bado. Quindi, se voglio difendermi efficacemente, non posso ignorare il bastone e debbo, per esempio, inventarmi qualche stratagemma per neutralizzarlo o toglierlo dalla mani dell’aggressore.
Fuor di metafora, bisogna fare attenzione a non rimanere intrappolati in una polemica tra, mi si scusino i termini semplificatori, sovranisti/nazionalisti e europeisti/internazionalisti. Il ritorno alla sovranità nazionale non basta, perché a monte della crisi dell’euro c’è il neoliberismo e il capitalismo. Ma, neanche possiamo ignorare il ruolo decisivo dell’Europa attuale. Il problema dell’Europa non è solo una questione di scelte politiche di austerity ma il fatto che come comunità di Stati semplicemente … non esiste. L’ultima dimostrazione è il modo in cui la Bce, con il recente Qe, ha reinternalizzato il rischio del debito nei singoli Paesi, attraverso l’acquisto dei titoli del tesoro da parte delle banche centrali nazionali. L’Europa è stata specificatamente progettata come meccanismo “oggettivo” di coercizione a determinate scelte politico-economiche. Il punto contro il quale cozziamo da anni è che è difficilissimo lottare semplicemente contro le politiche neoliberiste senza mettere in discussione radicalmente la struttura dell’euro, perché questa è una imbracatura potente.
Durante la Seconda guerra mondiale poteva avere senso prospettare l’europeismo come cura agli opposti nazionalismi (che esprimevano gli interessi delle borghesie nazionali) e quindi alle guerre intra-europee. Oggi, però, il capitale, a differenza di settanta anni fa, è transnazionale e non più nazionale e la sua ideologia di riferimento non è più il nazionalismo, ma proprio l’europeismo. Oggi, non è il sovranismo nazionale a essere la base del fascismo, bensì è l’europeismo dei capitali, che è il contrario dell’internazionalismo, a risvegliare vecchi fantasmi nazisti come Alba dorata in Grecia.
Le vicende greche sono una dimostrazione di tutto questo e della necessità di prendere in considerazione anche la possibilità concreta di una uscita dall’euro, senza la quale potrebbero esserci solo due alternative. La prima è piegare la testa, magari salvando la faccia con qualche concessione, la seconda è farsi imporre dall’esterno una uscita disordinata che esporrebbe il Paese che la intraprendesse a notevoli rischi. Esiste poi un altro pericolo, molto probabile, ovvero che l’area valutaria in tempi più o meno brevi si dissolva o si riduca ad un’area core (Germania e satelliti), ma solo dopo aver svolto il suo ruolo di ristrutturazione. La situazione è molto complicata, ma ricca di possibilità di sviluppi interessanti per i la sinistra europei, purché la posizione assunta sia chiara.
Il problema posto dal governo greco non sta tanto nel debito, quanto nelle misure economiche che sono nella sua agenda programmatica. A tale proposito, è significativo quanto scrive il 31 gennaio The Economist, una delle voci più autorevoli del capitale finanziario europeo. Per il settimanale, Tsipras dice due cose giuste e una completamente sbagliata.
Quelle giuste sono che l’austerity europea è stata eccessiva e che il debito (salito dal 103,1% al 175% in sei anni malgrado i tagli feroci alla spesa pubblica) non può essere pagato. Fin qui siamo d’accordo. Quale sarebbe allora la cosa completamente sbagliata? Tsipras sbaglierebbe ad abbandonare le cosidette riforme di struttura, su cui il governo greco precedente si era accordato con la Troika in cambio di prestiti ulteriori. L’abbandono delle riforme comporta misure che in Europa sono in completa controtendenza, come la riassunzione di 12mila lavoratori pubblici licenziati, l’innalzamento delle pensioni minime e soprattutto la cancellazione del programma di massicce privatizzazioni (in Grecia le banche più importanti hanno come principale azionista lo Stato). The Economist propone questa soluzione: la ristrutturazione del debito o la riduzione dei suo valore facciale in cambio della prosecuzione delle riforme.
Dopo le prime ipocrite congratulazioni, i governi europei e la Bce stanno cercando di isolare il governo greco, mettendolo alle corde per
costringerlo a proseguire nelle riforme. La Bce ha sospeso i finanziamenti alle banche greche, revocando loro la possibilità di consegnare in garanzia titoli di debito pubblico in cambio di liquidità ed estromettendole in sostanza dal Qe. Le banche greche hanno una sola possibilità, quella di ricorrere alla Banca centrale del loro Paese per ottenere liquidità dallo sportello di emergenza. Ma anche questa possibilità potrebbe essere revocata dalla Bce con una maggioranza di due terzi. In questo caso la Grecia potrebbe vedersi costretta ad uscire dall’euro. Ma c’è di più. A fine febbraio scadono i termini del prestito concesso alla Grecia e il presidente dell’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri economici dell’eurozona) ha preannunciato il rifiuto a qualsiasi prestito ponte alla Grecia, che le consenta di arrivare alla rinegoziazione di condizioni più leggere di riduzione del debito. Del resto, il ministro dell’economia greco, Varoufakis, ha raccolto rifiuti alle sue proposte da i suoi omologhi europei con cui si è incontrato, a partire dal tedesco Schauble. Eppure, la Grecia è un Paese piccolo e il suo debito in valore assoluto è il 2,8% di quello Ue. La cifra di 10-20 miliardi necessari per il prossimo anno non rappresenterebbe un problema per un colosso economico come l’Europa, che ha già salvato la Grecia nel passato.
Dunque, è nel programma del governo Tsipras il nodo della questione. E si tratta di un nodo dirimente su cui Tsipras non può cedere, pena la delusione delle aspettative dei greci e il fallimento del suo governo. Ma neanche i centri di potere economico e politico, che hanno guidato il processo di integrazione valutaria europea, possono cedere. Anche Draghi ha tenuto a sottolineare che il Qe non autorizzava nessuno a ritardare le riforme di struttura. Un cedimento europeo significherebbe che altri Paesi potrebbero pensare di poter fare lo stesso, snaturando così il senso dell’euro, e dando una pericolosa prospettiva di successo alle forze di sinistra nei confronti dei tradizionali centro-sinistra e centro-destra. Il senso dell’introduzione dell’unione valutaria europea (l’euro) consiste nel fatto di essere la leva strategica per l’attuazione della ristrutturazione delle condizioni di accumulazione del capitale in Europa (attacco al salario diretto e al welfare, privatizzazioni, centralizzazione produttiva). La posta in gioco è altissima: completare il mutamento, in atto da alcuni decenni, dei rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore di quest’ultimo o arrestare il processo e porre le premesse per invertirlo.
La situazione, per come si prospetta, appare molto difficile e incerta. Se nessuna delle due parti dovesse cedere, il governo greco dovrebbe prendere in seria considerazione il cosiddetto piano B, ovvero la possibilità di una uscita dall’euro. Proprio quello che finora Tsipras ha detto di voler escludere. Da tutto questo si possono ricavare due conclusioni. La prima è che bisogna sostenere in tutta Europa il governo greco con quanta più forza sia possibile, anche se non se ne condividono tutti gli aspetti, perché la sua battaglia è strategica. La seconda è che sull’euro è necessario definire una posizione chiara.
La radice dei problemi attuali sta nel modo di produzione capitalistico, nelle trasformazioni che impone alla società europea per scaricare la sua crisi sul lavoro salariato. Queste trasformazioni possono essere ricomprese nel cosiddetto neoliberismo, una strategia di controriforma della società le cui radici risalgono alla metà degli anni ’70 e che si basa sulla centralità del mercato autoregolato e sul ritiro dello Stato da alcune funzioni. Il punto è capire il nesso dialettico che esiste tra crisi del capitale, neoliberismo e euro. L’euro, più precisamente la Uem, è lo strumento attraverso cui il capitale attua le sue controriforme in chiave neoliberista e scarica la sua crisi sul lavoro salariato e la piccola impresa. Sottovalutare il ruolo specifico dell’euro è un po’ come se venissimo assaliti da un uomo che brandisce un bastone e ci dicessero che non bisogna preoccuparsi del bastone visto che il problema è la malvagità dell’assalitore. Certamente, senza la volontà dell’aggressore il bastone è nulla, ma è il bastone a dare un vantaggio all’assalitore e sarà il bastone che prenderò sulla testa se non gli bado. Quindi, se voglio difendermi efficacemente, non posso ignorare il bastone e debbo, per esempio, inventarmi qualche stratagemma per neutralizzarlo o toglierlo dalla mani dell’aggressore.
Fuor di metafora, bisogna fare attenzione a non rimanere intrappolati in una polemica tra, mi si scusino i termini semplificatori, sovranisti/nazionalisti e europeisti/internazionalisti. Il ritorno alla sovranità nazionale non basta, perché a monte della crisi dell’euro c’è il neoliberismo e il capitalismo. Ma, neanche possiamo ignorare il ruolo decisivo dell’Europa attuale. Il problema dell’Europa non è solo una questione di scelte politiche di austerity ma il fatto che come comunità di Stati semplicemente … non esiste. L’ultima dimostrazione è il modo in cui la Bce, con il recente Qe, ha reinternalizzato il rischio del debito nei singoli Paesi, attraverso l’acquisto dei titoli del tesoro da parte delle banche centrali nazionali. L’Europa è stata specificatamente progettata come meccanismo “oggettivo” di coercizione a determinate scelte politico-economiche. Il punto contro il quale cozziamo da anni è che è difficilissimo lottare semplicemente contro le politiche neoliberiste senza mettere in discussione radicalmente la struttura dell’euro, perché questa è una imbracatura potente.
Durante la Seconda guerra mondiale poteva avere senso prospettare l’europeismo come cura agli opposti nazionalismi (che esprimevano gli interessi delle borghesie nazionali) e quindi alle guerre intra-europee. Oggi, però, il capitale, a differenza di settanta anni fa, è transnazionale e non più nazionale e la sua ideologia di riferimento non è più il nazionalismo, ma proprio l’europeismo. Oggi, non è il sovranismo nazionale a essere la base del fascismo, bensì è l’europeismo dei capitali, che è il contrario dell’internazionalismo, a risvegliare vecchi fantasmi nazisti come Alba dorata in Grecia.
Le vicende greche sono una dimostrazione di tutto questo e della necessità di prendere in considerazione anche la possibilità concreta di una uscita dall’euro, senza la quale potrebbero esserci solo due alternative. La prima è piegare la testa, magari salvando la faccia con qualche concessione, la seconda è farsi imporre dall’esterno una uscita disordinata che esporrebbe il Paese che la intraprendesse a notevoli rischi. Esiste poi un altro pericolo, molto probabile, ovvero che l’area valutaria in tempi più o meno brevi si dissolva o si riduca ad un’area core (Germania e satelliti), ma solo dopo aver svolto il suo ruolo di ristrutturazione. La situazione è molto complicata, ma ricca di possibilità di sviluppi interessanti per i la sinistra europei, purché la posizione assunta sia chiara.
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