Syriza, Podemos e noi. Sta
nascendo una nuova «coalizione» popolare e trans-nazionale, la sinistra
italiana deve ricostruire questo grande spazio sociale e politico
Oggi, a Roma, scendiamo in piazza per la vita, la dignità e la
democrazia del popolo greco. È un ritorno – importante da non
sottovalutare — della buona, antica solidarietà internazionale,
dopo anni e anni di chiusura di ognuno in se stesso. Ma non è solo
questo.
Perché manifestando per «salvare la Grecia», noi manifestiamo
anche e soprattutto per salvare noi stessi: per salvare l’Italia. Per
salvare l’Europa.
Se l’azione di Tsipras e Varoufakis riuscirà ad aprire una
breccia nel muro di Berlino dell’austerità, ci sarà una speranza
anche per noi, che annaspiamo sul pelo dell’acqua appena un poco più
sopra di loro. E per gli spagnoli, i portoghesi, gli irlandesi,
massacrati socialmente dallo stesso dogma feroce.
Se da Atene potranno dimostrare che la volontà popolare non può
essere cancellata con un tratto di penna dai banchieri e dai
politici-tecnocrati in una stanza dell’Eurotower, della Bundesbank
o della Cancelleria della Bundesrepublik, sarà un passo
importante nel passaggio dall’Europa della moneta e una vera Europa
politica. La sola che può sopravvivere.
Lo sanno benissimo a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino, che
se i greci ce la fanno – se riescono a dimostrare che «si può» – potrà
innescarsi una reazione a catena, nel fronte mediterraneo
dell’Europa, ma non solo, in grado di scardinare i dogmi mortali che
ci stanno soffocando. Per questo resistono contro ogni buon senso,
negando l’evidenza, trincerandosi dietro il ritornello delle
«regole che vanno rispettate» anche se quelle regole si sono rivelate
con tutta evidenza devastanti. E per questo, dalla nostra parte, ci
si mobilita nelle principali piazze del continente: per dimostrare
che quella reazione a catena è già iniziata. Che il cambiamento
è già in corso.
Sfileremo, in molti, con un nastro nero in segno di lutto per il
nuovo eccidio di migranti, sapendo che non è, quella, una «tragedia
del mare» ma una «tragedia degli uomini». Una tragedia nostra,
dell’Italia e dell’Europa. Che quelle nuove centinaia di morti
testimoniano dell’egoismo, criminale, di un’Europa che chiude occhi
orecchie e braccia di fronte alla parte più sofferente dell’umanità.
E lesina gli spiccioli, con spirito da usuraio, tagliando persino
sui soccorsi, perché questo è il senso del passaggio da Mare
nostrum a Triton… In fondo, lo vediamo bene, un filo nero lega il modo
con cui la Troika ha ridotto in questi anni di «commissariamento»
la Grecia al coma sociale, e quello con cui le classi dirigenti
europee, impassibili, hanno trasformato il canale di Sicilia in un
cimitero liquido. La stessa logica, impersonale, delle cifre e dei
protocolli «a distanza», con decisioni prese in luoghi asettici,
dove non si sente la puzza della miseria e l’odore della morte per
annegamento. Senza neppure guardare in faccia le proprie vittime:
la «banalità del male», appunto, come direbbe Hannah Arendt.
Ora il nostro capo del governo, con cinismo degno della sua
biografia, getta il problema al di là del Mediterraneo, dicendo
che la questione sta in Libia, non qui o a Bruxelles. Che sono loro –
loro chi? il caos che abbiamo contribuito a creare? – non noi il
problema, come se non avessimo nessuna responsabilità e nulla da
modificare, rinviando tutto a una crisi nord-africana con tutta
evidenza ingovernabile. È lo stesso atteggiamento tenuto nei
confronti della Grecia, quando ebbe a definire non solo «legittima»
ma anche «opportuna» la decisione della Bce di togliere ossigeno alle
banche greche, proprio quando la minaccia maggiore era la fuga dei
capitali dei grandi miliardari ed evasori greci, appena due giorni
dopo aver abbracciato – gesto degno del dodicesimo apostolo –
Alexis Tsipras a Palazzo Chigi…
Anche per dimostrare che quest’uomo non ci rappresenta, scendiamo oggi in piazza a Roma.
Non è una manifestazione come tante altre. È il segno che una nuova politica può nascere.
In un nuovo «spazio della politica» ormai in ampia misura tran-nazionale, dove «si pensa» in qualche modo oltre i confini.
Non dimenticherò mai il 25 gennaio,
in piazza Omonia ad Atene, quando Tsipras finì il proprio discorso
di chiusura della campagna elettorale e salì sul palco Pablo
Iglesias, parlò poco più di un minuto, prima in inglese, poi in greco
(fluentemente) infine in spagnolo per dire «Syriza, Podemos,
venceremos», e la piazza, tutta, attaccò a cantare Bella ciao. In
italiano! Allora, al di là dell’emozione e del groppo in gola che tutti
ci prese, capimmo, con chiarezza, che eravamo ormai in un «oltre».
In un altro spazio in cui le vecchie scatole degli stati
nazionali si rompevano – senza che i popoli perdessero le proprie
caratteristiche, anzi! — per lasciar confluire le nuove sfide in
un’altra dimensione, vorrei dire in un altro «paradigma», della
politica, che si muove ormai in uno spazio compiutamente
continentale. E che si apriva per noi una grande occasione. Unita
a una grande responsabilità: di allineare anche l’Italia all’onda di
piena che avanza sull’asse mediterraneo, contribuendo anche nel
nostro Paese alla costruzione di una grande «casa comune» per questa
nuova soggettività ribelle.
Roma, testimone il Colosseo, è una prima occasione per mostrare
che anche qui si apre un processo in cui «coalizione sociale» e
«coalizione politica» possono – anzi devono – marciare insieme,
strettamente intrecciate, perché l’una è condizione dell’altra.
E se sapranno farlo, pur nella consapevolezza delle grandi
difficoltà — non tanto culturali quanto «tecniche», pratiche,
comportamentali e lessicali — dell’operazione, allora si potrà
dire che avranno saputo far nascere il primo degno abitante di quel
nuovo «spazio», in grado di offrire rappresentanza all’oceano di
spaesati e di homeless della politica in Italia come in Europa.
Il tempo – come si è detto ad Atene, come dicono in Spagna e come ripeteremo a Roma — è, davvero, ora!
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