LA SINISTRA PD TRA I COCCI DEL PATTO NAZZARENO
LA SINISTRA PD TRA I COCCI DEL PATTO NAZZARENO
LA SINISTRA PD TRA I COCCI DEL PATTO NAZZARENO
In un certo senso è il mondo alla
rovescia. Finché eravamo governati da un patto scellerato tra il capo del
governo (e della «sinistra di governo») e il capo della destra condannato
per frode fiscale, tutto sembrava in ordine. Ora che, dopo un anno di barbarie
politica e istituzionale, qualcosa è andato storto e quel
contratto contronatura e controragione è entrato in sofferenza,
ecco che tutti s’interrogano febbrilmente su come andrà a finire questa
storia, se non anche la legislatura. È tutto quanto meno bizzarro.
Ma si spiega, naturalmente. Il fatto
è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che
è vero veniva detto. Il governo è stato fiduciato da una maggioranza
virtuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.
In teoria aveva i numeri per navigare,
solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva
detto per scalare la segreteria democratica ed espugnare palazzo Chigi.
Cose che, invece, andavano perfettamente a genio al mecenate delle
olgettine, col quale ha subito stipulato una fattiva intesa. A danno
soprattutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai proclami – avrebbe
«frenato», corretto, posto condizioni e strappato modifiche. Dimodoché
per un anno siamo stati governati da una maggioranza sorretta
dall’opposizione contro una parte della maggioranza trasformata in opposizione.
Borges si congratulerebbe.
Poi è venuto lo scontro sul Quirinale.
Forse Renzi ha avvertito un pericolo. Ha temuto che, se avesse concordato
con Forza Italia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto
problemi dentro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cavalier
servente di Berlusconi. Con effetti rovinosi sul piano dell’immagine, che
tanto gli sta a cuore. Ma è anche possibile che Renzi abbia deciso
di usare la partita del Colle per soggiogare la fortuna, umiliare il vecchio
boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite
furiosa di queste ore, agli stracci che volano tra i due compari del
Nazareno, al divorzio annunciato.
Ma è vera crisi?
Vedremo. Se la politica non fosse anche
ricerca del consenso, ci sarebbe di che dubitarne. Le «riforme» renziane
stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore ufficiale.
La distruzione delle tutele del lavoro dipendente, la subordinazione organica
del parlamento al governo, l’attribuzione di una maggioranza schiacciante
al vincitore delle elezioni, la depenalizzazione delle frodi fiscali
figurano tra i desiderata del capo di Forza Italia da sempre, dai bei
tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evitato anche solo di nominare
il conflitto d’interessi: perché dunque infrangere l’idillio? Ma ha qualche
ragione pure chi nelle file berlusconiane scalpita e fa presente che
un partito ha anche esigenze di visibilità. Da questo punto di vista la
scelta del nuovo presidente è stata in effetti uno sfregio irricevibile.
Di qui la sceneggiata della finta defenestrazione di Brunetta, Romani
e Verdini. D’altra parte non è pensabile che Renzi adesso,
a un tratto, ci ripensi. Torni sui propri passi, disfi la tela
e riscriva le sue pessime leggi. I voti forzaitalioti vanno rimpiazzati,
sempre che non arrivino comunque. In che modo? Questo è il busillis.
E, si può dire, il più bel regalo che la partita del Quirinale ci ha fatto
sinora.
I giochi sono all’improvviso venuti al
chiaro, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità. Se la destra,
che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è perché
prevede che i propri voti non saranno indispensabili. Se Renzi lascia
che il patto con Berlusconi vada a ramengo è perché ritiene di non
dipendere più dal suo sostegno. La ragione evidente è che conta sul consenso
della cosiddetta sinistra del Pd. Dunque ora finalmente il destino del
governo e della legislatura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla
scacchiera renziana, per neutralizzare il quale Berlusconi venne cooptato,
di fatto, nella maggioranza.
Che cosa vuol dire tutto questo? Una sola
cosa: che non ci sono margini per altre messinscene. Finora, che la «sinistra»
democratica votasse o meno le «riforme» era indifferente. Ciò ha reso
il suo sistematico cedimento irrilevante, se non meno indecente. Adesso
la musica è cambiata. D’ora in poi la «sinistra» del Pd può decidere se
puntare i piedi, può ottenere modifiche reali (non le prese in giro
sin qui sbandierate) o, in caso contrario, impedire l’approvazione delle
leggi. Costringendo il governo a muoversi nella carreggiata definita
dal voto popolare di due anni fa.
Molti osservatori prevedono che nulla
di tutto ciò accadrà. Pensano che la fronda interna, a cominciare dai
suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», ritenendosi
appagata dalla scelta di Mattarella. Significherebbe che, nonostante
mesi di minacce, insulti e mortificazioni da parte del presidente
del Consiglio, costoro non andavano in cerca che di un contentino per tornare
docili all’ovile. E scongiurare il rischio capitale di una crisi che
potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura, con tutti i suoi
contraccolpi morali e soprattutto materiali.
È possibile che vada proprio
così. Tanto più che i portavoce del capo del governo hanno chiuso ogni
spiraglio chiarendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discutere. Da
martedì sapremo. Si riprenderà a votare sulla «riforma» costituzionale
e scopriremo se la «sinistra» democratica vuole davvero fermare il
disegno autoritario di Renzi, come giura e spergiura. Oppure, indifferente
alla sua pericolosità, ha sin qui recitato soltanto una commedia. Di
certo il tempo è scaduto. L’elezione del presidente della Repubblica
ha come squarciato un velo dietro al quale tutti gli attori si sono comodamente
celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di eterogenesi dei fini, e del
resto si sa che prevedere il futuro in politica è al contempo necessario
e impossibile.
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