Ma appena si è arrivati al dunque è scattato il ricatto della Bce. Eppure le richieste del nuovo governo greco erano più che ragionevoli. Né Tsipras né Varoufakis chiedevano un taglio netto del debito, ma solamente modalità e tempi diversi per pagarlo senza continuare a distruggere l’economia e la società greca, come avevano fatto i loro predecessori. Dichiarazioni e documenti di economisti a livello mondiale, compresi diversi premi Nobel, si rincorrono per dimostrare che le soluzioni proposte dal governo greco sono perfettamente applicabili, anzi le uniche efficaci se si vuole salvare l’Europa, che sarebbe trascinata nella voragine di un contagio dai confini imprevedibili se la Grecia dovesse fallire e uscire dall’euro. Perfino il pensiero mainstream – Financial Times in testa — si dimostrava più che possibilista.
Può darsi, come anche Varoufakis ha osservato, che la mossa di Draghi serva per evidenziare che la soluzione è politica e non tecnico-economica. Quindi ha buttato la palla nel campo dell’imminente Eurogruppo che si riunirà l’11 febbraio. Il guaio è che la politica europea attuale è ancora peggio della ragione economica. Basti leggere le dichiarazioni di un Renzi, sdraiato sul comunicato della Bce, o quelle di uno Schulz o di un Gabriel.
Non è la prima volta, d’altro canto, che la socialdemocrazia tedesca vota i «crediti di guerra». L’analogia non è troppo esagerata. Che spiegazione trovare per un simile accanimento contro un paese il cui Pil non supera il 2% e il cui debito il 3% di quelli complessivi dell’eurozona?
La ragione è duplice.
Se passa la soluzione greca appare chiaro che non esiste un’unica strada per abbattere il debito. Anzi ce n’è una alternativa concretamente praticabile rispetto a quella del fiscal compact. Più efficace e assai meno devastante. Tale da puntare su un nuovo tipo di sviluppo che valorizzi il lavoro, l’ambiente e la società, come appare dal programma di Salonicco su cui Syriza ha costruito e vinto la sua campagna elettorale. Sarebbe una sconfitta storica per il neoliberismo europeo.
Il secondo motivo riguarda gli assetti politico istituzionali della Ue. Sappiamo che i greci hanno giustamente rifiutato l’intervento della Troika. Ma è pur vero che perfino Juncker ha dichiarato che quest’ultima ha fatto il suo tempo. C’è allora qualcosa di più importante in gioco che la sopravvivenza di questo o quell’organismo. Finora la Ue attraverso gli strumenti della sua governance a-democratica aveva messo il naso nelle politiche interne di ogni paese, in qualche caso dettandone per filo e per segno le scelte da fare. Così è accaduto nel caso italiano con la famosa lettera della Bce del 5 agosto del 2011. Dove non era arrivato Berlusconi avevano provveduto Monti e ora Renzi a finire i compiti a casa. Ma si trattava pur sempre di un intervento su governi amici, che si fondavano su maggioranze che avevano esplicitato la loro preventiva sottomissione alla Troika. In Grecia siamo di fronte al tentativo di impedire che la volontà popolare espressasi nelle elezioni in modo abbondante e inequivocabile possa trovare implementazione perché contraria alle attuali scelte della Ue. Qualcosa che si avvicina a un colpo di stato in bianco (per ora). I neonazisti di Alba Dorata avevano dichiarato che Syriza avrebbe fallito e dopo sarebbe toccato a loro governare.
E’ questo che le mediocri classi dirigenti europee vogliono? Non sarebbe la prima volta.
Impediamoglielo.
Non solo con gli strumenti propri delle sedi parlamentari per influire sul vertice dei capi di stato, ma soprattutto riempiendo le piazze, come succede ora in Grecia e come vogliamo accada anche in Italia e nel resto d’Europa il prossimo 14 febbraio. Un San Valentino di passione con il popolo greco.
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