venerdì 27 febbraio 2015

La resa del più forte sindacato d'Europa di Giorgio Cremaschi


Il 28 febbraio a Milano ci sarà la prima manifestazione sindacale contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per Expo.

Nello stesso giorno a Roma scenderà in piazza il popolo antifascista e antirazzista per contestare il lepenismo in salsa leghista e Casapound. Una settimana fa a Torino decine di migliaia di persone hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No Tav.

In tutti questi appuntamenti la Cgil era ed è assente, a parte la sua piccola corrente di opposizione interna. È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa.

Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti. Così il mondo del lavoro italiano continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti.

In poco tempo abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l'età pensionabile più elevata. La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l'austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60. Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, l'orario di chi un lavoro ancora ce l'ha cresce inesorabilmente. Lavoriamo quasi 200 ore all'anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi.

I salari italiani hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d'acquisto e a volte anche in valori assoluti, se si fa eccezione della Grecia. Che per altro se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno.

Infine con il Jobs act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente. La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa ed incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l'appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l'elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile. I provvedimenti di Renzi chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell'impresa.

Come ha detto Crozza in TV, i padroni non erano così felici dall'epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d'Europa.

La Cgil non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa. Il sindacato considerato più forte d'Europa vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa. Eppure non è che consenta con Renzi, come a volte invece fa la Cisl. Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d'accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente.

Per Renzi una simile opposizione è la migliore augurabile. La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d'immagine. Renzi ci va a nozze.

La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo è che il linguaggio ed i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni 50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c'era il fascismo.

Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano. Le telecamere alle sei del mattino inseguivano operai a cui l'intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno stato di polizia. Nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa.

Il gruppo dirigente della Cgil sostiene che il governo agisce sotto dettatura della Confindustria ed è vero, ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato. Anzi con gli industriali, Cisl e Uil continua a voler applicare l'accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali. Alla Telecom Cgil Cisl Uil han firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no. L'accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo, ha la firma di Cgil Cisl Uil. Di fronte ad un presidente del Consiglio che minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio, le flebili parole dei dirigenti della Cgil son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo.

Potremmo andare avanti a lungo nel rimarcare le contraddizioni tra i proclami ufficiali ed i comportamenti reali dei gruppi dirigenti della Cgil. Ma se veniamo alla sintesi troviamo che queste contraddizioni hanno due radici di fondo.

Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la FIOM si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte. La seconda, anche più forte, è che questa Cgil non può rompere con il PD neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia. Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil soffre e persino odia Renzi, ma nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd. E nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque la Cgil potrebbe, volendo, far vedere i sorci verdi al renzismo, si continua a collaborare come sempre.

Rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano ed il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l'attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare. Così dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l'incapacità di farlo davvero, la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all'abulia confusa che oramai la possiede.

Per il mondo del lavoro italiano questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro, per cui non ci sono facili soluzioni. Intanto tocca a tutte le forze che oggi manifestano senza e nonostante la Cgil, tocca a queste forze il compito di costruire una vera opposizione a Renzi e alle sue politiche contro i diritti del lavoro e la democrazia costituzionale.

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