di Michele Prospero
E’ evidente che, con i decreti
attuativi della famigerata carta di espropriazione dei diritti
denominato Jobs Act, la Costituzione non è più la stessa. La prima
parte, quella dei valori fondamentali, anche se non ancora toccata
in modo esplicito, è indebolita dalla legislazione più recente,
vera pistola puntata contro il residuale diritto del lavoro. Frutto
della seconda costituzionalizzazione, lo Statuto del 1970 era il
compendio di una congiuntura storica irripetibile che
presentava condizioni politiche più favorevoli al mondo del
lavoro. L’articolo 18 era in fondo il simbolo della relativa potenza
accumulata dal lavoro, rispetto al dominio assoluto del capitale,
e la dimostrazione dei frutti positivi scaturiti dalla
congiunzione di conflitto sociale e grande manovra politica.
Ad essere colpito dalla furia
restauratrice del governo Renzi è anzitutto il potere del lavoro e di
conseguenza i diritti dei singoli dipendenti si spengono come
degli astratti postulati morali. Il segno di classe della riforma
strutturale varata dal governo l’ha colto bene l’Ocse che, in uno
sperticato elogio delle misure renziane, le ha santificate come
l’eden resuscitato della bella volontà di potenza dell’impresa. Nel
documento l’Ocse spiega le ragioni del suo innamoramento totale:
«accrescendo la prevedibilità la norma riduce i costi reali dei
licenziamenti, anche quando sono giudicati illegittimi dai
tribunali e incoraggia le imprese». Sono felici soltanto perché il
governo ha reso meno costosa la facoltà licenziare.
Quest’assalto normativo alla civiltà
del lavoro, con la riduzione del costo del licenziamento, secondo
l’Ocse, è una divina benedizione che accrescerà la produttività
perché, eliminando del tutto la possibilità del reintegro per
l’esclusione dall’impiego per motivi illegittimi, e riducendo anche
l’importo dell’indennizzo dovuto a chi viene gettato sul lastrico, il
Jobs Act sollecita il risveglio immediato degli spiriti animali
del capitalismo. Senza la sbrigativa libertà di licenziare, il
capitale non riesce più a investire, a innovare, a competere.
E quindi, il piano della nichilistica espropriazione del lavoro,
continua ad essere perseguito come la variante più allettante per
rilanciare l’accumulazione in un paese che si accasa
definitivamente nelle periferie del capitalismo globale e che
per il suo de te fabula narratur guarda ormai all’Albania.
La filosofia del renzismo si compie
nel segno di una integrale decostituzionalizzazione del lavoro.
E la sua genuina essenza ideologica è contenuta nella celebre
formula sulla libertà dell’imprenditore di licenziare come segno di
una grande innovazione destinata a fare epoca. La nuova
legislazione, in effetti, è il cuore delle stravolte riforme
post-moderne, quelle capovolte costruzioni giuridiche che
sopprimono tutele e piccole libertà dal bisogno e assegnano
proprio al soggetto già economicamente più forte il diritto di
schiacciare il contraente più debole della relazione lavorativa.
Le condizioni sociali della modernità
sono basate geneticamente sul differenziale di potere tra
capitale e lavoro. E il diritto del lavoro, nato dallo scontro
politico della società di massa, cercava di correggere con gli
interventi della legislazione gli squilibri sociali più
macroscopici conferendo poteri correttivi al lavoro come potenza
sociale collettiva. Ora il diritto muta di segno. E’ costruito il
diritto del più forte, cioè è scolpito anche sulla norma il potere
legale sanzionatorio del capitale sul lavoro. Quando all’impresa si
concede il diritto di licenziare il dipendente anche per un solo
giorno ingiustificato di assenza, le si consegna un’arma di
coercizione sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito. E’ la
pura forza dell’avere che succhia l’essere della persona che lavora,
nel silenzio della cornice pubblica. Ma Rousseau spiegava che il
diritto del più forte non è mai diritto. E quello scritto da Renzi
è infatti la pura e semplice sanzione ufficiale e formale del
dominio di fatto dell’impresa sulla forza lavoro ridotta a variabile
inanimata.
Ad dominio del capitale, scritto già
a chiare lettere nelle oggettive leggi dell’economia e confermato
nelle anonime regolarità imposte dalla divisione sociale del
lavoro, si aggiunge anche la norma di stampo classista che
annichilisce la relativa autonomia conquistata nel Novecento
dalla legislazione pubblica nel correggere le asimmetrie del
rapporto sociale con norme dettate dal senso civile e morale di
un’epoca democratica. Il giudice deve ammainare gli strumenti
romantici con i quali inseguiva il miraggio della
costituzionalizzazione dei rapporti di lavoro. Sebbene con
strumenti coercitivi scarichi, perché privi di sanzione
effettiva verso l’impresa inadempiente, il giudice del lavoro aveva
introdotto la legge e il contratto a più stretto collegamento con
l’essere del lavoratore. La bocca del giudice, nell’accertare la
adeguata proporzione tra fatto e sanzione, ora si chiude dinanzi
alla soverchiante potenza dell’avere, del capitale, che fa ciò che
crede della forza lavoro, con il modico prezzo di una indennità.
Si disegna una individualizzazione
crescente delle relazioni economiche imponendo un secco rapporto
a due, da una parte sta il potere d’impresa che regna incontrastato
e dall’altra il lavoro, soggetto ancor più precario appeso alla
decisione d’azienda sui tempi, sui costi delle ristrutturazioni,
sull’opportunità di un demensionamento di ruolo nel posto di lavoro.
Lo scambio indecente tra un (solo) nominativo contratto a tempo
indeterminato e un effettivo potere di licenziare senza giusta
causa cambia in profondità i rapporti di forza dentro i luoghi di
lavoro. Il sindacato è invitato a uscire dalla fabbrica
o dall’ufficio, non essendo più rilevante il potere delle
organizzazioni nel trattare le condizioni delle
ristrutturazioni, degli esuberi, dei tempi, delle mobilità, dei
licenziamenti collettivi.
Lo spiegava bene Spinoza: quando un soggetto cede un potere, non ha più le chiavi per rivendicare i suoi diritti. Non esistono infatti diritti fruibili senza una potenza collettiva che li sorregge. E l’attacco del governo è, con qualche perversa sistematicità, indirizzato contro le condizioni (sociali e sindacali) della potenza del lavoro. Strattonato dalle strategie d’impresa che lo rendevano una variabile sempre più precaria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giuridica. Il pubblico si adagia alle esigenze funzionali dell’impresa privata e costruisce un diritto con moduli, tempi, risarcimenti monetari richiesti dal capitale. Con il suo turbo governo Renzi procede a passi di gambero verso l’Ottocento. Nella sua fabbrica entra solo il cartello che intima alla manodopera di perdere ogni speranza di riscatto e di non disturbare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Lo spiegava bene Spinoza: quando un soggetto cede un potere, non ha più le chiavi per rivendicare i suoi diritti. Non esistono infatti diritti fruibili senza una potenza collettiva che li sorregge. E l’attacco del governo è, con qualche perversa sistematicità, indirizzato contro le condizioni (sociali e sindacali) della potenza del lavoro. Strattonato dalle strategie d’impresa che lo rendevano una variabile sempre più precaria, il lavoro viene ora reso liquido anche dalla norma giuridica. Il pubblico si adagia alle esigenze funzionali dell’impresa privata e costruisce un diritto con moduli, tempi, risarcimenti monetari richiesti dal capitale. Con il suo turbo governo Renzi procede a passi di gambero verso l’Ottocento. Nella sua fabbrica entra solo il cartello che intima alla manodopera di perdere ogni speranza di riscatto e di non disturbare il padrone che dà l’opportunità di lavoro, e quindi va santificato.
Nel regime giuridico duale, cioè con
la competizione innestata dalla norma diseguale che differenzia
tra vecchi e nuovi assunti servendosi di profili discriminatori,
l’impresa spera di ottenere maggiori potenziali di ricatto sul lavoro
diviso e sotto minaccia in virtù di nuovi poteri dispositivi
e sanzionatori. Con il suo Pier delle Vigne, la comandante dei
vigili urbani di Firenze nominata sul campo capo dell’ufficio
legislativo di palazzo Chigi, Renzi ha davvero posto fine al
costituzionalismo della repubblica. Già sepolti i suoi soggetti
politici (i partiti ideologici di massa), ora sono spenti anche
i suoi soggetti sociali, il lavoro come sovrano della costituzione
economica. E’ cominciata un’altra epoca nel segno della destra
economica, cioè con lo sfacciato potere dell’impresa, con la sua
giurisdizione privata spietata e senza contropartite. Il lavoro
è sconfitto, ma non vinto.
fonte: il manifesto
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