Che la legge elettorale partorita dal
patto del Nazareno sia un po’ mostruosa, nel senso di Frankenstein, lo
riconoscono anche i più benevoli: è una miscela di maggioritario e
proporzionale, di turno unico e ballottaggio, di preferenze e liste di
nominati.
Molti però si stanno affannando con
cortigiano realismo a spiegare che, benché difettosa, è un “bicchiere
mezzo pieno”, soprattutto se confrontata con la sua versione primitiva,
che era un modello tra il turco e la pirateria.
Ma il fatto che si siano scongiurati
ancor più arditi esperimenti in corpore vili non può impedirci di vedere
che il mostro non è per nulla mite.
Il Porcellum portato alle estreme conseguenze.
L’aspetto più velenoso del Porcellum del
2005 non era la presenza dei, pur gravissimi, meccanismi
incostituzionali condannati dalla sentenza n° 1/2014 della Consulta
(l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate), ma era il disegno
di fondo che mirava a determinare un radicale cambiamento della forma
di governo con legge ordinaria, appunto la riforma elettorale, senza
formalmente riformare la Carta fondamentale con le garanzie dell’art.
138.
Col Porcellum si dava vita di fatto
all’elezione diretta del governo e del suo premier, addirittura
ostentata con l’obbligo per le coalizioni di indicare un capo politico.
Però c’era un baco, dolosamente inserito
dai suoi stessi autori con interessata prudenza: la netta
differenziazione tra i sistemi maggioritari della Camera e del Senato
rendeva assai probabile che il vincitore non arrivasse ad un controllo
pieno di entrambi i rami del parlamento, come difatti si è puntualmente
verificato sia in questa legislatura sia nelle due precedenti.
Il combinato disposto dell’Italicum e
della demolizione del bicameralismo, eliminando il baco, porta invece
quel disegno al suo pieno compimento e lo fa senza alcuna inibizione,
all’insegna del dogma qualunquista per cui la sera delle elezioni si
deve sapere chi governerà per i prossimi 5 anni.
Il presidenzialismo si attua così nella
sua forma più pericolosa e meno funzionale, quella dell’elezione diretta
dell’esecutivo in uno con la sua maggioranza parlamentare. Un sistema
che non a caso non esiste nelle democrazie occidentali e di cui si
ricorda un unico precedente recente: quello attuato in Israele negli
anni ’90 e presto rimosso, dopo un paio di travagliate legislature,
perché non funzionava.
La Costituzione formalmente non viene
modificata, ma è manomessa. Il presidente del consiglio ed i ministri
non verranno più nominati, se non pro forma, dal presidente della
Repubblica, ed il parlamento monocamerale, nel quale una sola lista con
la maggioranza relativa avrà in premio il 55 % dei seggi, assumerà
inevitabilmente un ruolo servente nei confronti del governo e del suo
leader, il quale è anche capo del partito e dominus delle candidature.
Chi dice che è più o meno così anche
nelle altre democrazie, grazie a sistemi maggioritari o presidenziali,
mente sapendo di mentire.
Nella grande maggioranza degli stati europei vigono sistemi proporzionali, più o meno corretti.
Dove vi sono leggi maggioritarie si
vince collegio per collegio, o in un turno unico (Regno Unito) o in due
turni (Francia). Nel primo caso, se il primo partito non conquista la
maggioranza assoluta dei collegi, si deve formare una coalizione in
parlamento. Nel secondo caso i collegi si conquistano solo con la
maggioranza assoluta dei voti, al primo turno o al ballottaggio; e se
nessuno ottiene la maggioranza assoluta dei collegi anche qui occorre
formare una coalizione in parlamento.
Nei sistemi presidenziali si sa
effettivamente la sera delle elezioni chi governerà per l’intero
mandato, ma l’assemblea legislativa è sempre eletta con una separata
votazione e non necessariamente la maggioranza parlamentare è dello
stesso colore dell’esecutivo.
Montesquieu, nel suo Spirito delle leggi
(1748) fonda la teoria della separazione dei poteri – legislativo,
esecutivo e giudiziario – sull’idea che “chiunque abbia potere è
portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non
si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”. È saggio rottamare Montesquieu ?
Il premio di maggioranza ed il ballottaggio eventuale: incostituzionalità al quadrato.
La Corte Costituzionale con la sentenza n° 1/2014 ha cassato il premio di maggioranza previsto dal Porcellum perché “tale
da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla
Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto
(art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il
legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige
comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari
efficacia alla formazione degli organi elettivi”.La sentenza, citando espressamente la giurisprudenza dell’Alta Corte tedesca, sottolinea che “qualora
il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo
parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si
determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una
diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini
dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un
pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare”. Su questi presupposti è stata dichiarata l’incostituzionalità del premio
di maggioranza perché “determina una
compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché
dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione
profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla
quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale
vigente”.
Giova osservare che in nessuna delle
democrazie occidentali esiste un “premio di maggioranza” che, in una
elezione su base proporzionale, trasformi la maggioranza relativa in
maggioranza assoluta dei seggi. L’unico esempio simile è quello della
Grecia, dove però il premio alla lista prima classificata è in misura
fissa, 50 seggi, e non necessariamente assegna la maggioranza in
parlamento. Tutti gli altri sistemi maggioritari si innestano sui
collegi uninominali, ponendo così l’elettore di fronte ad una scelta
consapevole che ha in palio esclusivamente l’eletto di quel singolo
collegio.
La convivenza tra proporzionale e
“premio”, prima del Porcellum, ha avuto in Italia due infelici
precedenti: la “fascistissima” legge Acerbo del 1923 e la “legge truffa”
del 1953, mai di fatto applicata, che rafforzava col premio la
coalizione che avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti. Se
quella era una truffa, chissà quale fattispecie del codice penale si
dovrebbe usare per il Porcellum e per l’Italicum !
La legge concepita al Nazareno e poi più
volte rimaneggiata prevede un premio che varia in misura tale da far
ottenere il 55 % dei deputati, ma inserisce la soglia minima del 40 %
per l’attribuzione del premio ad una singola lista (non più alla
coalizione), prevedendo che in caso di mancato raggiungimento di tale
soglia si dia luogo ad un secondo turno di ballottaggio tra le prime due
liste.
Un caso davvero unico al mondo, che stravolge i principi democratici più elementari.
Nelle democrazie conosciute le regole
sono semplici. Se si vota con il cosiddetto maggioritario “secco” a un
turno, il primo classificato vince anche con la maggioranza relativa (ma
sempre nei collegi uninominali, uno per uno). Nel nostro caso, poiché
la sentenza della Consulta impone l’adozione di una soglia minima e
l’impianto della legge è proporzionale, è chiaro che per rispettare la
prescrizione si sarebbe avuta l’attribuzione del premio solo al
raggiungimento del quorum, mentre in difetto sarebbe rimasta la
ripartizione proporzionale (salvo eventuali sbarramenti).
Se invece si vota con un sistema a
doppio turno, ovunque nel mondo, dalla Francia al Cile, dal Brasile alla
Tunisia, innanzitutto il ballottaggio riguarda solo cariche uninominali
e mai l’attribuzione ad un partito della maggioranza parlamentare, e
poi c’è una regola-base: se nessuno ottiene la maggioranza assoluta al
primo turno, si deve andare al ballottaggio.
Solo in Italia, benché da più di 20 anni
pratichiamo il doppio turno per l’elezione dei sindaci e siamo tutti
ben consapevoli del fatto che anche il 49,99 % dei voti non basta per
vincere al primo turno, proprio quelli che per anni hanno sostenuto il
modello del “Sindaco d’Italia” vogliono imporre un’inedita democrazia
minoritaria, nella quale con il 40 % (cioè avendo contro il 60 % !) si
vince senza dare agli elettori il diritto di scegliere col ballottaggio
quale delle minoranze far prevalere.
Ergo, al motto “la maggioranza vince” si deve sostituire quello opposto: “la minoranza vince”. Con il che la “compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea”, la “lesione dell’eguale diritto di voto” e la “alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica” che rendevano illegittimo il Porcellum non solo non sono state rimosse, ma per certi aspetti risultano perfino aggravate.
Le preferenze come ludi cartacei.
L’altro motivo di incostituzionalità del
Porcellum statuito dalla sentenza n° 1/2014 riguarda le liste bloccate
che, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, violano i
precetti costituzionali sul voto “libero, personale, diretto” (artt.
48, 56, 58 Cost.).
Nella legge Calderoli, osserva la Corte, “tale
libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a
determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando
un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di
candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati
sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine
di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in
riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto
della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di
optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del
partito”.
L’Italicum tenta di aggirare
l’indicazione della Corte, lasciando “bloccati” solo i capilista delle
nuove 100 circoscrizioni e consentendo invece all’elettore di esprimere
il voto di preferenza per gli altri candidati.
Oltre al danno, la beffa.
Infatti, salvo casi del tutto
eccezionali, il sistema funziona in modo tale per cui tutte le liste
diverse da quella che si vedrà attribuito il premio di maggioranza – il
che significa liste che potrebbero avere raccolto complessivamente fino
al 60 % del voto popolare, e anche oltre se si è andati al ballottaggio –
non avranno altri eletti all’infuori dei capilista. In altre parole,
per la maggior parte degli elettori, tutti i deputati eletti con il loro
voto saranno quelli individuati sulla base di scelte operate dai partiti; e neppure potranno dire di avere scelto il capolista, essendo rimasta inalterata la
possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di
optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del
partito.
Anche in questo caso la situazione,
rispetto al Porcellum, è per certi versi addirittura peggiorata perché
il meccanismo è ingannevole: milioni di elettori, la maggioranza,
saranno chiamati ad esprimere un voto di preferenza del tutto virtuale,
privo a priori di ogni possibilità di tradursi in autentica scelta
dell’eletto. Così la consultazione elettorale viene degradata a recita,
si sprofonda nei “ludi cartacei” di mussoliniana memoria.
Le istituzioni di garanzia col trucco contabile. Il presidenzialismo come male minore.
Gli inventori dell’Italicum, per
ripararsi dalle critiche di chi paventa che dal rischio della classica
“dittatura della maggioranza” si scivoli addirittura verso quello della
“dittatura della minoranza”, hanno proposto la riforma dell’art. 83
Cost., prevedendo che per l’elezione del Presidente della Repubblica,
dopo i primi tre scrutini nei quali è richiesto il quorum dei 2/3,
occorra una maggioranza qualificata dei 3/5 (oggi basta la maggioranza
assoluta dei grandi elettori).
Apparentemente questo dovrebbe impedire
alla lista che ottiene il premio di eleggersi da sola anche il
Presidente della Repubblica, mantenendo in tal modo a quest’ultimo il
ruolo di organo di garanzia.
Peccato che ci sia una sorta di trucco contabile che rende ben poco rassicurante la riforma.
Infatti, il quorum dei 3/5 (equivalente
al 60 %) non si calcola solo sulla Camera, dove la lista vincitrice ha
già il 55 %, bensì sul collegio dei grandi elettori che comprende anche
il Senato.
E qui si capisce l’utilità della curiosa
riforma del Senato. La seconda camera, privata ormai del potere di dare
la fiducia al Governo e relegata al ruolo di comparsa anche nel
processo legislativo, avrebbe potuto essere abolita del tutto per
evitare un nuovo organismo senza sostanza, tipo Cnel.
Oppure, se proprio la si voleva
mantenere, avrebbe potuto essere eletta in modo proporzionale per
fungere da “specchio del Paese”, con competenza sulle questioni più
delicate, come le leggi costituzionali, le leggi elettorali e, appunto,
l’elezione degli organi di garanzia.
Invece il Senato riformato, grazie
all’elezione di secondo grado da parte dei Consigli Regionali – che a
loro volta sono frutto di elezioni a turno unico che assegnano alla
coalizione del presidente (con la semplice maggioranza relativa) un
premio abnorme – avrà una conformazione ipermaggioritaria.
In tal modo vi sono elevate probabilità
che quel 5 % mancante perché la lista che domina la Camera arrivi al 60 %
complessivo possa essere garantito proprio dall’apporto dei senatori,
tra i quali la medesima “maggioranza” potrà essere ulteriormente
sovra-rappresentata.
A ciò si aggiunge il fatto che
nell’ultima versione dell’Italicum il premio non va più alla coalizione
bensì alla singola lista; il che rende possibile che chi vince (specie
se vincesse solo al ballottaggio, avendo perciò ottenuto al primo turno
meno del 40 %) abbia in parlamento altre liste alleate che portino in
dote quel 5 % mancante per fare cappotto.
Questa elevata probabilità che l’effetto
della combinazione tra Italicum e riforma del Senato porti ad un
sistema in cui con una sola votazione, di fatto, si prende tutto –
parlamento, governo, presidente della repubblica e, a cascata,
maggioranza della corte costituzionale, ecc. – dovrebbe indurre a
riflettere attentamente sull’opportunità di preferire, al confronto, un
sistema di elezione diretta del Capo dello Stato.
I critici del presidenzialismo (tra i
quali si colloca chi scrive) si sono sempre opposti all’elezione diretta
temendo che da essa, in una democrazia fragile come quella italiana ed
in presenza di già eccessivi fenomeni di personalizzazione, potessero
scaturire degenerazioni plebiscitarie.
Oggi però si rischia qualcosa di molto
peggio: un presidenzialismo di fatto, ma senza neppure il bagno
democratico dell’investitura popolare e senza alcun sistema di checks
and balances.
Insomma, rispetto al quadro che
emergerebbe dalle riforme del Nazareno, il presidenzialismo o meglio
ancora il semi-presidenzialismo sarebbe di gran lunga il male minore.
Un sano esercizio: immaginare la vittoria degli altri.
Il dibattito sulle riforme in commento
si sta svolgendo in un contesto di scarsa attenzione, se non di
anestesia delle coscienze.
La ragione di questo inquietante
fenomeno solo in parte può essere individuata nella mitridatizzazione
prodotta da anni e anni di demonizzazione del proporzionale, di
delegittimazione del parlamento come sede della mediazione politica e di
crescita del leaderismo.
In una buona parte dell’opinione
pubblica solitamente sensibile al tema dei valori costituzionali
prevale, oltre alla stanchezza, l’idea che si tratti di riforme fatte su
misura, che potranno avvantaggiare solo il PD del 40 % alle europee ed
il suo capo; soggetti ritenuti dai più magari criticabili, ma non
sospettabili di involuzioni anti-democratiche.
Chi scrive non condivide questo pregiudizio favorevole, ma il punto non è questo.
In materia elettorale le
“leggi-fotografia” sono un grave errore ed il legislatore dovrebbe
sempre decidere “dietro il velo dell’ignoranza”, ma ancor più sbagliato
sarebbe giudicare le regole come se la situazione data fosse immutabile.
Poiché le riforme elettorali ed
istituzionali si fanno, tendenzialmente, per sempre, è doveroso
interrogarsi sui risultati che produrrebbero in presenza di equilibri
politici completamente diversi dagli attuali, nei quali potrebbero
prevalere forze che sono le più lontane da noi.
Dobbiamo immaginare che possa rivincere,
se non Berlusconi in persona, un altro come lui; che possa vincere
Salvini con una specie di Front National italiano; o che possa vincere
Grillo, magari uscendo da un primo turno molto distaccato e poi
raccogliendo al ballottaggio un ampio voto di protesta goliardica e
trasversale (come è già accaduto a Parma e a Livorno).
Ecco che l’eliminazione di pesi e contrappesi e l’impossibilità di realizzare una convergenza
repubblicana per sbarrare la strada in
un secondo turno ad una forza eversiva che dovesse arrivare al 40 %
(come avvenne in Francia alle presidenziali del 2002 quando anche la
sinistra votò per Chirac contro Le Pen) risulterebbero esiziali per le
sorti della Repubblica nata dalla Resistenza.
Se oggi si prende alla leggera il problema, si rischia di svegliarsi quando il danno è fatto.
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