domenica 30 giugno 2013

Il nuovo realismo è un totalitarismo di Fabio Milazzo


Apologia della doxa.
Il “nuovo realismo” è letteralmente una trovata geniale. Il paradigma, reso recentemente famoso da Maurizio Ferraris, che ne è il promotore in Italia, e da quella fucina di idee progressiste che è il gruppo La Repubblica[1], è riuscito a ritagliarsi un posto nelle asfittiche e claustrofobiche chiacchierate della filosofia italiana. Ma cos’è questa postura intellettuale che tanto credito sembra ottenere da personalità quali Umberto Eco – che, a dir la verità, già dai tempi de I limiti dell’interpretazione ha operato una svolta anti-ermeneutica – e dalle tante teste pensanti riunite in convegni quali quello di Bonn[2]?
Fondamentalmente è un ritorno ai fasti della doxa (δόξα), l’opinione comune, ciò contro cui si erge il pensiero filosofico fin dalle sue origini pre-socratiche[3]. Detta in maniera brutale, ma forse anche efficace, il nuovo realismo afferma la consistenza oggettiva della realtà, al di là di ogni fenomeno interpretativo. Il suo principale avversario non può che essere il Nietzsche che nel noto frammento postumo dichiarava profeticamente:
«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”‘, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo.
È infine ancora necessario mettere l’interprete dietro l’interpretazione? Già questa è invenzione, ipotesi. In quanto alla parola “conoscenza” abbia senso il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ognuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti»[4].
Il baffone di Röcken, anche in questo frammento, non nega l’esistenza di un qualcosa posto là fuori, la realtà, ma sta sottolineando come il rapporto tra soggetto e mondo si dia sempre come dialettica orientata dal senso[5]. L’ingenuità del realismo che afferma l’inemendabilità del reale, vale a dire la consistenza immodificabile dell’oggetto-mondo posto davanti al soggetto, disconosce che questa relazione è sempre situata in una prospettiva attraverso la quale i “fatti” assumono un certo “valore”. In altre parole, non si nega la possibilità di riscontrare empiricamente qualcosa di inter-soggettivamente verificabile (“fatto”) ma che questo “qualcosa”, nel momento in cui entra a far parte del nostro universo mentale, assume un certo “senso”, un certo “posto”, che è a tutti gli effetti il prodotto della singolarità irriducibile che siamo. A Nietzsche interessa indagare questo “spazio vuoto” entro cui il mondo assume una certa dislocazione per il soggetto. Un’analitica della verità entro cui si dà la verità; o per essere più chiari: una ricerca delle condizioni che determinano la prospettiva attraverso la quale ci affacciamo sul mondo: il nostro belvedere.  «Il mondo apparente è un mondo considerato secondo certi valori: ordinato e sceverato in conformità a certi valori, ossia, in questo caso, dal punto di vista dell’utilità, in vista della conservazione e dell’aumento di potenza di un determinato genere di animale»[6] . Nietzsche problematizza l’a-priori irriflesso entro cui si dispone la nostra immagine del pensiero (per dirla con Deleuze) perché è convinto che l’uomo non si disponga davanti ad un inemendabile, come pensano gli ingenui, ma che viva innanzitutto singolarmente[7] il proprio mondo.
Il nuovo realismo, sostenendo la tesi secondo cui Nietzsche (e i suoi epigoni postmoderni)  avrebbe  esaltato il concetto di interpretazione a detrimento della verità, intesa quest’ultima nella forma corrispondentista di «adaequatio rei et intellectus», oltre ad operare una lettura banale del baffone, ha voluto cercare di smontare i due presunti dogmi del postmoderno così riassumibili: «che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante dell’oggettività»[8]( p. XI). Affermare  l’inemendabilità di ciò che c’è, «il carattere saliente del reale»[9]  , è l’imperativo di questa condizione post- postmoderna. Ma siamo sicuri che questa sia un’operazione filosofica emancipatoria come in più parti si sbandiera nel Manifesto del nuovo realismo? Noi non ne siamo convinti, tutt’altro.

L’idiota fantasia del Logos
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Come ho cercato di mostrare in Bentornata Ingenuità! L’oscena fantasia della ciabatta[10], il contributo preparato per il volume a più voci Il nuovo realismo è un populismo , la svolta realista del circolo di Ferraris è il tentativo più “facile” di andare incontro ad un’opinione pubblica che fa sempre più fatica  a star dietro a ragionamenti complessi e che, quindi, cerca le scorciatoie della conoscenza in pillole, ciò che “può essere facilmente compreso” e, magari, ridotto nella forma iconica cui tutti siamo abituati per le frequentazioni dei social network. Ma è, soprattutto, una procedura di esaltazione del senso comune e un tentativo di ridurre la filosofia a pratica di ratifica dell’ovvio, della doxa. Se il pensiero filosofico nasce per cercare di indagare i principi primi non immediatamente riscontrabili che organizzano la realtà, la sua trama, le sue leggi, il nuovo realismo si pone in netta anti-tesi a questo spirito primordiale sancendo l’inequivocabilità di ciò che appare davanti ai nostri occhi, del mondo “così come lo vediamo”, del dato bruto disponibile alla chiacchiera di qualunque signor Simplicius.
Apparentemente questo andare incontro all’uomo comune dovrebbe essere  favorire la democrazia di massa anche nell’ambito della riflessione teoretica. Non è così. Come ha più volte sottolineato Slavoj Žižek[11], le operazioni ideologiche più pericolose sono quelle che si delineano sotto altre vesti, magari facendo ricorso al consenso demagogico. E’ proprio il caso dell’operazione targata new realism in salsa italiana[12] che, attraverso il consenso del grande pubblico, mira a ridurre la filosofia a semplice operazione di ratifica dell’opinione comune. Prova ad accattivarsi il plauso delle masse svendendo slogan che tutti gli insofferenti la “fatica del concetto” anelano e, così operando, attacca il filosofo “grillo parlante”, quello che mette la “pulce nell’orecchio” proponendo e sollecitando la riflessione, l’attività critica, la messa in discussione del senso comune, di ciò che appare palese. Offre “ricette a buon mercato” che, in linea con i tempi (forse con tutti i tempi), provano ad aggirare l’ostacolo attraverso il ricorso alla soluzione più facile, la più ovvia, quella che semplifica tutto e tutto dispone sul piano orizzontale della chiacchiera; quel piano in cui si parla solo per affermare il diritto di aprire la bocca, anche solo per darle fiato e per riempire l’aria di flatulenze verbali. Si esalta l’opinione comune che tutti sappiamo quanto sia evanescente, soggetta agli umori del tempo, alle sollecitazioni strumentali alle varianti dell’emotività.  Quanto sia condizionabile.
L’opinione comune, la doxa, era la grande avversaria della filosofia presocratica, quella che si interrogava sulle condizioni di possibilità dell’esistente, diffidando profondamente dell’ovvio buon senso dell’uomo comune e ricevendo, in cambio, altrettanti sospetti; ci ricordiamo tutti della servetta di Talete… Compito di questa filosofia delle origini è scompaginare i valori comuni, le certezze dell’opinione pubblica, le chiacchiere da osteria, quel sapere inconsapevole cui si riferiva Braudel parlando di inconscio collettivo[13] ancora tutto da indagare.  Proprio questo sapere ingenuo che innerva l’opinione pubblica è alla base di ogni totalitarismo. La radice di quest’ultimo, il suo scopo principale, è quello di «costruire un uomo nuovo dal quale estirpare ogni tratto non sussumibile sotto una legge universale»[14] , di ridurre ogni singolo uomo ad un pezzo intercambiabile all’interno della specie, cancellandone la soggettività, intesa come singolare apertura al mondo. Elemento fondamentale per raggiungere questo scopo è la riduzione dell’immaginario collettivo ad Uno, sottrazione delle differenze singolari a vantaggio dell’omologazione. Ogni totalitarismo opera per riprodurre la specie umana sotto il segno dell’Unità:
«Il dominio totale, che mira ad organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste[15]
In ogni totalitarismo la posta in gioco riguarda la creazione di un certo tipo di individuo, parte di un insieme più ampio contraddistinto dall’uniformità di quella che, con Deleuze, possiamo chiamare una certa “immagine presunta naturale del pensiero[16]”. Un uomo che non pensa ma che si limita a riconoscere il dato oggettivo che «appare impermeabile al sapere e fornisce un caso di patente divario tra conoscenza del mondo ed esperienza del mondo […].»[17]La presunta naturale corrispondenza tra pensiero e mondo sbandierata dal realismo ingenuo, lungi dall’essere una filosofia dell’emancipazione è, a ben vedere, un potente strumento a disposizione delle pratiche di governo che mirano alla cancellazione delle differenze. Uno spirito reazionario contraddistingue un pensiero, quello dei nuovi realisti, che  si propone di affermare la presunta oggettività del mondo e, implicitamente, l’inutilità della riflessione filosofica, di ogni procedimento teoretico che mira a mettere tra parentesi le certezze al fine di indagarle, di sottoporle a critica. Questo “oggettivismo” (lo possiamo chiamare così) da ragioniere si regge su quella che abbiamo definito l’ idiota fantasia del logos[18], l’irriflessa postura intellettuale che  «immagina il mondo esterno come il correlato di un’esperienza neutra»[19], di un semplice riconoscimento dello stato di cose. Il sogno che l’intero universo sia semplicemente quello che percepiamo, che non nasconda abissi, traumi, zone oscure, fenditure, pericoli, è, probabilmente, una delle fantasie fondamentali della specie umana, da sempre intimamente minacciata dall’insondabile e, quindi, sempre sulla difensiva. Un qualcosa di disponibile alle nostre pretese manipolative, ecco, cosa prospetta il nuovo realismo per sedare le paure indefinite della “società dell’ansia”. Ma questa ricetta di sicurezza, che sacrifica la verità per un pò di sicurezza, è proprio ciò che offrono tutti i totalitarismi, di qualunque colore. Si coltivano, si proteggono, si organizzano, le esigenze, i desideri e le istanze della doxa al fine di disporne l’addomesticamento di massa. Sembra una procedura già vista…

[1] Il dibattito sul Nuovo realismo è sorto e si è diffuso sulle pagine di La Repubblica che ha svolto la funzione di cassa di risonanza per una querelle inizialmente tutta torinese. E’ leggibile nella sua interezza qui: http://nuovorealismo.wordpress.com/rassegna/2013-2/
[2] Qui il programma del convegno: http://new-realism.de/program.php
[3] Sulle origini del pensiero greco ci sembra sempre attuale il rinvio a J.P.Vernant, Le origini del pensiero greco, trad.it. a cura di F.Codino, Se ed. 2005.
[4] Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere complete, vol. 8.1, Adelphi, Milano 1975, fr. 7[60], pp. 299-300.
[5] Come aveva compreso benissimo il Deleuze dei primi studi su Nietzsche; vedi: “Senso e valore in Nietzsche secondo DEleuze” su http://haecceitasweb.com/2010/05/30/senso-e-valore-in-nietzsche-secondo-deleuze/
[6] F.Nietzsche, La volontà di potenza, trad.it. di A.Treves, riveduta da P.Kobau e M.Ferraris, Bompiani, Milano 1992/2001, § 507, p.280.
[7] La precedenza è logica e non cronologica.
[8] Cfr. M.Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. XI
[9] Ivi, p.30
[10] Cfr. F.Milazzo, Bentornata Ingenuità! L’oscena fantasia della ciabatta, in (a cura di Regazzoni-Ocone. Di Cesare), Il nuovo realismo è un populismo, Il nuovo Melangolo, Genova 2013, pp. 25-40.
[11] Vedi le analisi portate avanti in S. Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, trad.it di C.Arruzza, Ponte alle Grazie, Firenze 2009.
[12] Come ho sostenuto in diverse occasioni, non tutte le analisi sul “nuovo realismo” sono da considerare delle operazioni commerciali riduttive. Per un interessante eccezione vedi Q.Meillasoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, trad.it. di M.Sandri, Mimesis ed, Milano 2012.
[13] Cfr. F.Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1988, p.27.
[14] Cfr. S.Forti, Il grande corpo della totalità. Immagini e concetti per pensare il totalitarismo in (a cura di) M. Recalcati, Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007,p.31.
[15] Cfr. H.Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Comunità, Torino 1999, p.632.
[16] Cfr. G.Deleuze, Differenza e ripetizione,  ed. Raffaello Cortina, Milano, 1997, pp. 169-199.
[17] Cfr. M. Ferraris, Manifesto…, cit. p.52
[18] Cfr. F.Milazzo, Bentornata…, cit., p.40.
[19] Ibidem.

La frattura tra mercato e democrazia di Nicola Melloni, Liberazione.it





Il rapporto di JP Morgan che prende di mira le Costituzioni Europee troppo democratiche ed antifasciste e troppo basate su sistemi politici ed economici del secolo scorso è stato ben descritto dal Fatto Quotidiano ed ampiamento commentato su Repubblica da Barbara Spinelli e su Liberazione da Dino Greco. Mi pare però che ci sia un elemento mancante in questi ragionamenti, e cioè che JP Morgan ha sostanzialmente ragione. Attenzione! Non sto dicendo che la via indicata dalla banca d’affari sia quella giusta, tutt’altro. Ma il rapporto dice a chiare lettere che nel dopo-crisi questo tipo di mercato è irriconciliabile con la democrazia come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 60 anni circa.

Facciamo un rapido excursus storico per capire come si è evoluto nel tempo il rapporto tra democrazia e mercato, per renderci conto in che situazione ci troviamo ora. Tenendo ben presente che democrazia e mercato non sono due soggetti totalmente scissi uno dall’altro, ma sono invece due elementi in continua interazione, che si spingono, si uniscono ed a volte si respingono vicendevolmente. La loro unione, o scissione, è quella che ha creato i moderni sistemi politici occidentali. Il capitalismo si è sviluppato in un contesto non democratico, quando non proprio autoritario, in società inique in cui il diritto di voto era concesso solo ai ricchi ed in sistemi economici in cui l’accumulazione del capitale era l’unica variabile di rilievo. E con un regime internazionale imperniato intorno al libero scambio ed al gold standard, un sistema che risolveva gli squilibri economici con disoccupazione di massa e recessioni. Le cose cambiarono dopo la prima ed in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Il trauma del conflitto, del fascismo, la minaccia socialista portarono ad una trasformazione fondamentale: le dinamiche interne – occupazione, crescita – divennero tutto d’un tratto, e per la prima volta, più importanti di quelle internazionali – cioè equilibrio dei conti. In parole povere, il nuovo sistema democratico portava ad un nuovo contratto sociale basato su redistribuzione del reddito dal capitale al lavoro, restrizione alla libertà movimento dei capitali, diritti non solo politici ma sociali. Un aumento dei diritti di cittadinanza, una diminuzione delle cosiddette “libertà” del mercato. D’altronde la democrazia, una novità del XX secolo, ha bisogno di voti e i voti si ottengono soprattutto con lavoro, reddito, qualità della vita.

Come ben sappiamo, però, a fine anni 70 le cose cambiarono nuovamente, il nuovo corso della globalizzazione neo-liberista riportò al libero movimento dei capitali, all’accumulazione dei profitti, allo schiacciamento dei salari. Nuovamente il pendolo si spostava a favore del capitale e contro il lavoro, in un trend, in maniera minore o maggiore, presente in tutto il mondo occidentale. Che non portò a drastici cambiamenti del sistema politico, capace di convivere con un capitalismo rampante soprattutto grazie al sistema del debito. Debito che cominciò ad esplodere proprio dagli anni 80 in avanti. Debito pubblico in Europa, debito privato nei paesi anglosassoni, perché in qualche maniera bisognava garantire degli standard di vita decenti agli elettori. Ma la crisi del 2007 ha portato alla fine di questo sistema, di questo tentativo di far convivere il capitalismo mondializzato con la democrazia nazionale. Come spiegato in maniera accurata da Dani Rodrik nel suo saggio sui limiti della globalizzazione, i mercati liberi e senza regole non sono compatibili con la democrazia e con la sopravvivenza dello stato nazionale. Ed è qui che entra in campo il rapporto di JP Morgan. Escludendo la soluzione utopica di un governo (democratico) mondiale, le soluzioni sono due: o un freno ai mercati e dunque alle opportunità di profitto e accumulazione del capitale; o un inesorabile riduzione dei contenuti democratici nei Paesi occidentali, e non solo. Che è in fondo quello che stiamo vivendo oggi nell’Unione Europea dove si è deciso che le crisi si curano a colpi di tagli di welfare, disoccupazione e diminuzione dei salari, esattamente come nel vecchio Gold Standard. Ma che è anche il modello di quei paesi come Brasile o Turchia dove la democrazia elettorale esiste, ma dove il governo prende decisioni sempre e comunque in favore dei grandi interessi economici. E che dunque, nonostante la diminuzione della povertà e il miglioramento delle condizioni di vita, scatenano rivolte popolari che nessuno aveva previsto e che chiedono un ruolo centrale per la democrazia e un freno al potere del capitale e del governo che lo rappresenta.

Insomma, siamo ad un bivio cruciale. La crisi ha sentenziato che il modello del capitalismo a debito, della democrazia finanziaria non è sostenibile. Il capitale ha riorganizzato in fretta i suoi interessi, la politica europea ha legato le mani agli Stati col fiscal compact e sta imponendo una colossale ristrutturazione dei rapporti economici, a cui seguirà inevitabilmente una riscrittura del dettato politico-costituzionale, esattamente come chiedono le grandi banche d’affari, ormai portavoce della nuova “razza padrona”. Non vi sono dubbi che un’organizzazione istituzionale di tipo Novecentesco non sia compatibile con disoccupazione di massa, salari bassi, peggioramento drastico delle condizioni di vita – quelle stesse condizioni che portarono a guerra e dittature nella prima metà del secolo scorso.

L’alternativa è una riscossa democratica, del tipo di quelle che seguirono al disastro economico-politico-militare della Grande Crisi e della Guerra. Quella che portò al Welfare State britannico, alle Costituzioni democratiche europee, agli accordi di Bretton Woods che contenevano il mercato nelle maglie della democrazia e, dunque, del bene comune.

Come sempre si tratta dell’eterno conflitto lavoro contro capitale: salario contro profitto, oligarchia contro democrazia, ineguaglianza contro welfare, queste sono le scelte strutturali cui ci troviamo davanti. Le banche, i governi conservatori, i tecnocrati hanno già scelto il loro modello, mentre gran parte della sinistra europea brancola nel buio, incapace di comprendere i grandi problemi del post-crisi. Col rischio di svegliarsi un giorno nel mondo della post-democrazia.

La fine dell'età dell'abbondanza di Paolo cacciari, Sbilanciamoci.info




Il sistema capitalista si basa sulla disposizione psicologica all’insaziabilità. Secondo Robert e Edward Skidelsky se può uscire solo riscoprendo l’idea antica di “eudaimonia”

Siamo abituati ad ascoltare molte critiche alla crescita e allo sviluppo economico (come bene in sé, come “fine senza fine”) che provengono da considerazioni d’ordine scientifico circa l’insostenibilità degli impatti ambientali sugli ecosistemi naturali (il riscaldamento globale antropogenico, la perdita di biodiversità e via dicendo), oppure d’ordine politico-morale circa le insopportabili ingiustizie nella distribuzione dei benefici sociali ricavati dal sistema produttivo globalizzato. Non che queste non siano considerazioni drammaticamente vere, ma secondo Robert e Edward Skidelsky, (Quanto è abbastanza. Di quanto denaro abbiamo davvero bisogno per essere felici? (meno di quello che pensi), Mondadori, 2013, pp305, Euro17,50) si tratta di argomenti deboli, che non colgono il nocciolo del problema: l’essere il nostro un sistema economico e sociale “privo di senso” [p.15] e un “progresso senza scopo” [p.62]. Inoltre gli argomenti che potremmo definire di tipo eco-socialista non riescono a “presentare una visione della vita buona come qualche cosa da perseguire non per senso di colpa o per paura di un castigo, ma con felicità e speranza” [p.167]. Serve quindi recuperare una “visione dello scopo della ricchezza” [p.287] a partire da una idea di “vita buona” (attingendo senza vergogna anche dal pensiero preillumistico e premoderno) ben diversa da quella su cui si fonda il capitalismo che fa dipendere la stessa “felicità” dalla accumulazione e dal possesso di denaro da giocare sulla sfera dei consumi.

A dirci queste cose sono un economista, Robert Skidelsky, uno dei massimi conoscitori di J.M. Keynes, e suo figlio Edward, filosofo, che insegnano nelle università inglesi. Hanno messo assieme le loro discipline perché pensano che “abbiano bisogno l’una dell’altra” e perché dichiarano di voler “ridare slancio alla vecchia idea dell’economia come scienza morale” [p.13]. Una impresa non da poco se si pensa che tutta la “scienza economica” moderna, per dirla con Gilbert Rist, ha mirato a creare una “ethics-free zone”, dove, cioè, le preferenze del consumatore (quanto un individuo è disposto a pagare per ottenere una merce) vengono considerate una manifestazione insindacabile di libertà e la molla stessa del progresso. Per riuscire a incrinare simili trionfanti credenze liberiste (“l’economia è la teologia della nostra era” [p.124]), evitando di cadere sotto i colpi dei pensatori liberali e “neutralisti”, secondo i quali ogni prospettiva etica è manifestazione di oscurantismo, neo-medievalismo, dispotismo e via di seguito, i nostri autori hanno dovuto ricostruire le fonti prime del pensiero economico; da Aristotele ai giorni nostri, passando per le grandi religioni e i grandi pensatori John Locke, Bernard Mandeville, Carl Marx, John Kenneth Galbrait e, soprattutto, Keynes. Il libro degli Skidelsky infatti non è un trattato asettico sulla storia delle teorie economiche. Interviene a cuore aperto sul principale paradosso irrisolto del nostro tempo, che Keynes, come Gandhi e moltissimi altri attenti osservatori, avevano ben presente: come può essere accettabile che nel mondo vi siano le condizioni, le conoscenze e le risorse materiarli per poter estendere a tutti una “vita buona” ed invece miseria, violenza e disparità intollerabili continuano a caratterizzare le nostre società?

Gli Skidelsky vogliono indagare “sulle ragioni del fallimento della profezia di Keynes”, che, come noto, calcolava, nel saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, pubblicato nel 1930, che nel giro di cento anni, lo sviluppo tecnologico avrebbe consentito di raggiungere un livello di “abbondanza” tale da soddisfare le necessità di base (vitto, alloggio, vestiario, salute, istruzione…) impegnando ogni abitante della Terra a lavorare non più di tre ore al giorno. Se pensiamo che spostando solo una quota parte delle spese militari (ad esempio) sarebbe possibile risolvere domani mattina il problema della fame e della sete del mondo, è evidente che l’errore di Keynes non sta nell’aver sopravalutato l’enorme aumento delle capacità produttive che si è davvero verificato dal secondo dopoguerra. Nemmeno la cattiva distribuzione dei frutti della produzione e della ricchezza è la ragione primaria della mancata realizzazione dell’utopia keynesiana (si pensi ai tragici fallimenti dei tentativi di pianificazione centralizzate). Il difetto deve essere ricercato ancora più in profondità, nel non aver capito che il sistema economico e sociale capitalista ha eretto a proprio fondamento la “disposizione psicologica all’insaziabilità” propria del “tipo umano medio”. Secondo i nostri autori: “Il capitalismo è un’arma a doppio taglio: da un lato ha reso possibili grandi miglioramenti delle condizioni materiali dell’esistenza, dall’altro ha esaltato alcune delle caratteristiche umane più deplorevoli, come l’avidità, l’invidia e l’avarizia” [p.10]. In altri termini: “un’economia competitiva monetizzata esercita su di noi continue pressioni a voler sempre di più” [p.23]. E ancora: “il capitalismo si fonda sulla inesauribile crescita dei bisogni” [p.94]. Nella nostra società non è possibile separare “bisogni assoluti” predeterminabili e “bisogni relativi” inesauribili. “I bisogni non conoscono limiti naturali, possono espandersi all’infinito almeno che non li conteniamo in maniera consapevole (…) La consapevolezza di avere quanto basta” [p.95].

Se le cose stanno così, allora è evidente che il raggiungimento dell’“età dell’abbondanza” pronosticata da Keynes verrà continuamente posticipata, travolta nel vortice della spirale produzione-consumo.

Come uscirne? Tornando a chiederci “cosa vogliamo dalla vita”. Quali sono i requisiti oggettivi di una buona e comoda vita. Scopriremmo allora che non di merci da comprare al supermercato si tratta, ma di “beni primari fondamentali” non commercializzabili, non quantificabili in termini monetari. Gli Skidelski ne propongono sette: la salute, la sicurezza, il rispetto, l’amicizia (rapporti di fiducia e relazioni affettive), la personalità (la capacità di realizzare progetti di vita autonomi), l’armonia con la natura, il tempo libero (l’attività volontaria autogestita e condivisa).Come si vede si tratta di beni del corpo, della mente e delle relazioni, costitutivi dell’umano, che “non escludono l’altro, ma lo includono” (Luigi Lombardi Vallauri in La Società dei beni comuni, Ediesse, 2010).

In definitiva, se vogliamo davvero realizzare il mondo della sufficienza immaginato da Keynes, dovremmo abbandonare il progetto di felicità che gli economisti hanno imposto e che si basa sulla creazione continua di “un surplus di piacere”, riscoprendo invece l’idea antica di “eudaimonia”, una condizione esistenziale che introietta la nozione di sazietà, il senso del limite, la necessità della condivisione e quindi della giustizia sociale.

Che queste cose comincino a dircele degli economisti che non hanno letto Latouche e nemmeno Gilbert Rist, confermano che la crisi di sistema in corso sta aprendo profonde crepe nelle teorie economiche dominanti.

Attenzione! Problemi di liquidità in Cina

Tensioni improvvise sul mercato cinese. La banca centrale blocca i pagamenti interbancari, mentre numerosi bancomat da qualche giorno non erogano più denaro contante.
Una mossa “anti-mercato”, ma benedetta dal mercato? Com'è possibile?
Il governatore della Banca Centrale cinese (Pboc) ha deciso di bloccare per 24 ore i pagamenti interbancari in tuto il paese. La misura è tesa a “congelare” la corsa mostruosa del tasso interbancario interno (il tasso a cui le banche si prestano quotidianamente soldi per far fronte a liquidità insufficiente per determinate operazioni), che ha raggiunto il livello pericolosissimo del 30% (in luogo del 3% che costituiva la normalità sul mercato cinese).
Il tentativo del governatore punta a tranquillizzare, per quanto possibile, gli operatori circa un possibile – e in qualche modo atteso, ormai - credit crunch cinese.
Zhou Xiaochuan ha dichiarato la notte scorsa che, nonostante la politica monetaria sia perfettamente in linea con le stime di crescita e di inflazione della banca centrale, la Pboc si assicurerà che vi sia la liquidità necessaria a far fronte ai crediti in circolazione.
L’indice azionario di Shanghai ha virato solo a quel punto verso una chiusura positiva. Non a tutti questa decisione è sembrata però sufficiente, visto che non è per il momento previsto alcun ulteriore allentamento monetario per stimolare l’economia. “Tuttavia, la sola indicazione di voler salvaguardare il sistema bancario della seconda economia mondiale, la quale era passata allo scrutinio degli analisti nel corso delle ultime settimane, ha avuto un effetto positivo sui mercati”.
La misura sembra soprattutto orientata, però, a ridurre l'influenza dello "shadow banking" (società che si comportano come banche, ma senza sottostare agli stessi controlli), che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli pericolosi. Come si può vedere dal  grafico qui riprodotto:

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Ma le difficoltà non riguardano ormai soltanto i rapporti interbancari. Da circa una settimana sia gli sportelli bancari che molti bancomat hanno smesso di fornire contante in Cina. Nessuno sembra avere informazioni precise su fino a quando potrà durare quest’improvvisa carenza di liquidità.
“La prima banca a bloccare gli sportelli è stata la Icbc, la più grossa banca commerciale statale cinese, e poi, in alcuni giorni, la stessa Bank of China”. Alcuni comunicati bancari “hanno cercato di dire agli utenti che le difficoltà di questi giorni provengono da un upgrade informatico, ma nessuno dà credito a questa spiegazione. Quello che appare evidente è che il credit crunch che colpisce le banche cinesi è la tappa più seria che si sia avuta finora in quella che era stata una scaramuccia solo verbale: il governo centrale – e in particolare in nuovo premier Li Keqiang – da mesi dice alle banche di restringere il credito, senza risultati. Così, ecco che il credito si sarebbe improvvisamente bloccato, e la decisione di alcune banche commerciali di non erogare più nemmeno contante è il gesto supremo con cui esprimono tutto il loro disappunto nei confronti della Banca centrale. Che continua invece a richiedere che cessino i prestiti pericolosi e che i conti siano rimessi in ordine”.

Fonti: agenzie e http://www.waroncash.org

Qui di seguito un'utile ricostruzione delle tappe della crisi finanziaria nel nuovo millennio.

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Cina, in arrivo la crisi fotocopia?

Andrea Baranes, Sbilanciamoci.info

"La Cina spaventa in mercati", "La Cina affonda le Borse". Notizie sempre più allarmanti, legate a un rallentamento della produzione industriale del gigante asiatico. Ma perché un tale rallentamento dovrebbe "affondare" le Borse di tutto il mondo? Sicuri che per la finanza globale non ci siano motivazioni più profonde in arrivo dal lontano oriente, e che giustificano le attuali preoccupazioni?

Nel 2001 scoppia negli Usa la bolla dei titoli delle imprese tecnologiche. Negli anni precedenti il valore delle società informatiche cresceva senza sosta, e più cresceva più risparmiatori vedevano la possibilità di realizzare alti profitti, e quindi compravano. L'aumento della domanda di titoli spingeva il prezzo verso l'alto, e l'aumento del prezzo sosteneva l'aumento della domanda. Una classica bolla finanziaria che si auto-alimenta.

Nel 2001, con i prezzi enormemente sopravvalutati, qualcuno inizia a vendere e parte il processo inverso. Le vendite significano un aumento di offerta di titoli, il che fa scendere i prezzi, il che a sua volta porta altri risparmiatori a disfarsi dei titoli. Scoppia la bolla finanziaria, panico sui mercati ed effetto valanga tra vendite e crollo dei prezzi.
Per uscirne la Fed, la banca centrale statunitense, taglia drasticamente i tassi, il che equivale a immettere liquidità nel sistema economico: diventa più facile prendere soldi in prestito e indebitarsi, ad esempio per contrarre un mutuo sulla casa. Il sistema delle cartolarizzazioni permette a banche e intermediari di concedere mutui a tutti, ignorando i rischi. Un passaggio fondamentale consiste nel fatto che le banche cedono i mutui a società che si comportano come banche ma non devono sottostare alle regole e ai controlli previsti per il sistema bancario. È il cosiddetto "sistema bancario ombra" - shadow banking system - fatto di società registrate nei peggiori paradisi fiscali del pianeta e che consente ai grandi gruppi bancari di spostare fuori bilancio prestiti e mutui eccessivamente rischiosi. L'aumento di domanda delle case spinge al rialzo i prezzi, e dà il via alla bolla immobiliare.

Nel 2007 la bolla scoppia. I prezzi delle case crollano, i mutuatari subprime non riescono più a restituire i prestiti contratti. La crisi immobiliare si trasforma rapidamente in una crisi finanziaria e di fiducia. Nessuno sa dove siano le perdite, nessuno si fida più di nessun altro, e le banche non si prestano più denaro tra di loro. In condizioni normali le banche si prestano continuamente denaro a vicenda nel circuito interbancario, per bilanciare eccessi o mancanze momentanee di liquidità. Prestiti che spesso vengono erogati e restituiti da un giorno all'altro, e per questo chiamati overnight. Il tasso overnight, ovvero il tasso di interesse a cui le banche sono disposte a prestarsi i soldi l'una l'altra, è un indice fondamentale per misurare la fiducia sul mercato finanziario. Con lo scoppio della bolla dei subprime, questo tasso va alle stelle, non solo negli Usa ma in tutto il mondo. Si blocca l'intero sistema, e devono intervenire gli Stati con giganteschi piani di salvataggio per evitarne il completo collasso.

Esplode la peggiore crisi degli ultimi decenni, con una fortissima recessione che dura ancora oggi e conseguente crollo dei consumi, in particolare nelle economie occidentali. Le ripercussioni colpiscono i paesi che esportano verso Usa ed Europa, quindi in primo luogo la Cina, diventata la nuova fabbrica del mondo. Per uscire dalle difficoltà legate al calo delle esportazioni, la Cina decide di puntare sul mercato interno. Il partito tollera, se non addirittura sostiene, i primi scioperi e le richieste di aumenti salariali, in modo da aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori e metterli cosi in condizione di aumentare i consumi. Ma è un processo lungo. Per sostenere la domanda interna si punta sull'edilizia. Incentivi e facilitazioni per costruire e comprare casa. Il prezzo delle case inizia a salire. Il fenomeno viene amplificato non solo dai crediti facili erogati dalle banche cinesi, ma anche da tutta una serie di società finanziarie più o meno legali e più o meno informali, che sul territorio erogano prestiti ai cittadini. Società che di fatto si comportano come banche, ma che non devono sottostare alle regole e ai controlli previsti per il sistema bancario. Avete una sensazione di dejà-vu?

Il prezzo delle case sale velocemente, troppo velocemente per la limitata capacità di acquisto dei cinesi. E si è costruito troppo, c'è un eccesso di offerta di case e i prezzi rischiano di crollare. Le società informali che avevano erogato prestiti a cittadini che non sono in grado di rimborsarli si trovano in difficoltà, e le difficoltà passano rapidamente al sistema bancario cinese. Il 20 giugno 2013 Forbes titola "panico cinese: l'overnight tocca il 25%", sottolineando come lo stesso tasso era intorno al 7% solo pochi giorni prima. Sembra che le banche del gigante asiatico non si fidino più l'una dell'altra, il mercato interbancario è congelato.

Ricapitolando: politiche di indebitamento e "soldi facili" che non portano a uno sviluppo dell'economia reale, ma a una bolla speculativa, a causa di un mercato dominato da logiche finanziarie e di brevissimo termine; assenza di regole e controlli e sviluppo di un sistema finanziario pseudo-legale; scoppio della bolla; crollo della fiducia sui mercati finanziari.

Cosa succederà ora? Difficile dirlo. L'articolo presenta delle semplificazioni eccessive, la Cina del 2013 non è gli Usa del 2007, i dati macroeconomici dei due paesi, a partire dalla bilancia dei pagamenti, sono estremamente differenti, così come la situazione politica e via discorrendo. Rimangono però delle somiglianze impressionanti. Prima tra tutte, che con ogni probabilità le difficoltà non sono legate al rallentamento della produzione industriale. È invece l'ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che l'attuale sistema finanziario è inefficiente, inefficace e totalmente fuori controllo. Non è più uno strumento al servizio dell'economia ma un fardello insopportabile per l'insieme della società. Cina 2013 e Usa 2007 sono sicuramente due situazioni molto diverse, ma rimane un minimo comune denominatore. Come sosteneva Mark Twain oltre un secolo fa, la storia non si ripete ma spesso fa rima.

Il governo pensa ad aumentare i ticket e a ridurre gli "esenti"

Il piano criminale si arricchisce di un altro dettaglio: il ministro della (contro) salute Lorenzin rivela di star preparando un taglio drastico alle "esenzioni" dal pagamento dei ticket. Come sempre, il taglio drastico viene cucinato con la storiella della "maggiore equità". Il sistema dei ticket deve cambiare - dice la Lorenzin - perché metà degli assistiti non li paga ''perché esente e consuma l'80% delle prestazioni''. Logica vorrebbe che si analizzasse la congruità di queste percentuali con la situazione territoriale (se le esenzioni sono più numerose probabilmente significa che in una certa area del paese c'è una maggiore freequenza di anziani poveri e i malati cronici; e  "tagliare" a costoro le prestazioni del servizio sanitario equivale ad accelerarne la morte).
Ad annunciare la 'rivoluzione' in arrivo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che in una intervista alla Stampa spiega che il sistema va cambiato ''in modo semplice e lineare, tenendo conto dei carichi familiari''. E già la "linearità" indica che questo governo - come i precedenti, Tremonti compreso - non ha alcuna intenzione di toccare le "aree di spreco" o "privilegio" (ad esempio, nella sanità, le prestazioni "in convenzione" presso cliniche private, ma pagate dal servizio pubblico). "Semplicemente" si taglia dappertutto nella stessa percentuale. Così le "clientele" e la corruzione viene conservata (magari con un po' di "sconto"), mentre i servizi essenziali vengono smantellati (esiste una soglia minima oltre cui il taglio delle risorse diventa soppressione del servizio).
Lorenzin conferma anche che non ci sarà l'aumento di due miliardi a partire dal 1 gennaio 2014: ''Proprio questa mattina il ministro Saccomanni mi ha telefonato per dirmi che sarà garantita la copertura nel fondo sanitario. In cambio dovremmo metterci intorno al tavolo con le Regioni per chiudere al più presto un nuovo Patto della salute che riprogrammi sia la governance che la spesa sanitaria''.
Ci sono, ribadisce, ''dieci miliardi che si possono recuperare''. ''Possiamo risparmiare e ottimizzare le cure con il piano quinquennale per la deospedalizzazione e le cure domiciliari che stiamo perfezionando. Mettendo in rete ospedali asl e studi dei medici di famiglia, mentre una mano ce la darà l'informatizzazione e il fascicolo sanitario elettronico'' cosi' come ''la farmacia dei servizi'' e le ''centrali di acquisto''. E dal piano di ''riprogrammazione della spesa che definiremo nel Patto'' andranno trovate le risorse anche per gli studi h24 dei medici di famiglia ''che non possono essere relegati al ruolo di compila-ricette''.
Quanto ai ticket, non c'è volonta' di ''fare cassa'' ma ''in alcune aree del Paese gli esenti per reddito Irpef arrivano al 70%'' e ''chi paga paga troppo''. Bisogna quindi ''spalmarli in modo più equo sulle prestazioni sanitarie e ridurre il numero degli esenti''. L'aggancio all'Isee potrebbe essere una strada, ma ''tenendo in maggiore considerazione i carichi familiari oltre che la ricchezza effettiva. Sono tutte cose delle quali parleremo nei prossimi giorni con le Regioni e con l'Economia''.

Questo è l'autunno che ci aspetta, altro che la "questione della giustizia", con cui Berlusconi e Repubblica provano a distrarci....

sabato 29 giugno 2013

La voce del padrone di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

His_Master's_Voice
Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.
Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese oppure dalle tavole catastrofiche ed allucinate di Katsuhiro Ōtomo. Un corpo politico e amministrativo che in tutte le sue componenti, anche le più periferiche, assume un comportamento che definire bipolare  è ancora poco. Un’attitudine comunicativa che si muove tra una falsa sicurezza per la durata del Governo e la sua capacità operativa (sempre più compromessa dalle sentenze degli ultimi giorni) e la disperazione per la situazione del lavoro e dell’economia nazionale e per le sue più che probabili conseguenze sociali.
  Il Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni,  ha affermato che la crisi attuale è peggiore di quella del ‘29”, ma è difficile dire se tale affermazione volesse giustificare le difficoltà del Governo, legate principalmente alla sua composizione, oppure costituisse la presa d’atto di un dato di fatto ormai scontato per numerosi economisti. Mentre Jacopo Morelli, presidente dei giovani industriali riuniti nel convegno annuale di  Santa Margherita Ligure, ha affermato che: ”Senza prospettive per il futuro, l’unica prospettiva diventa la rivolta. Le istituzioni democratiche vengono contestate e possono arrivare alla dissoluzione, quando non riescono a dare risposte concrete ai bisogni economici e sociali”.
 Affermazioni che sono ricorse , magari in forme  e da fonti differenti, più volte nell’ultimo periodo e che, sinceramente, sembrano oggi ripetute fino alla nausea dopo l’ubriacatura di ottimismo montiano ormai seppellito con i professori della Bocconi, nonostante il ritorno, in alcune sporadiche interviste televisive, del Prof. per eccellenza. Eppure, eppure… queste parole, che sembrano voler prendere atto della gravità della crisi in atto e delle sue possibili conseguenze sociali, non nascondono altro che una seconda fase dell’offensiva contro i giovani e i lavoratori che il governo attuale, senza dubbio debole ma sicuramente autoritario, intende mettere in atto.
 Se nella Fase 1 (definizione utile ad individuare, per comodità, l’azione del governo Monti dall’autunno del 2011 ai primi mesi del 2013) si è operato a beneficio delle banche e della finanza, attaccando direttamente i risparmi e le garanzie sociali degli italiani (pensioni, sanità, etc.), con la Fase 2 (quella apertasi con il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta, voluto e benedetto da Papa Giorgio) si è passati direttamente ad operare a beneficio delle imprese (piccole, medie e grandi), attaccando direttamente i costi del lavoro e le leggi che ne regolamentano le condizioni.
 Mentre nella Fase 1 gran parte dell’attenzione si era concentrata, per quanto riguardava il lavoro, intorno alla difesa o meno dell’articolo 18 (già riguardante un numero tutto sommato esiguo di lavoratori), oggi l’azione del governo è diretta a sradicare qualsiasi ostacolo alla libertà dell’impresa di assumere e licenziare chi e quando vuole, prolungando all’infinito la possibilità di promulgare i contratti a termine e abbattendo sia i costi diretti del lavoro (salario) che quelli indiretti ( oneri sociali, sicurezza). Così la tanto sbandierata azione a favore dei giovani e del lavoro, collegata al cosiddetto Decreto del Fare, non è altro che un’azione tutta rivolta a lasciare mano libera alle imprese, in tutti i sensi.
 D’altra parte cosa possono nascondere le parole di Sergio Marchionne quando afferma che “l’Italia nell’economia globale non è più interessante come mercato di consumo” oppure “chiediamo che ci lasci liberi di lavorare (NB: il governo) senza ostacoli”? Di fatto una esplicita richiesta che il nostro paese diventi un paese di produttori a bassissimo costo (come il cosiddetto terzo mondo di un tempo).
Elencare qui e, conseguentemente, commentare gli ottanta punti contenuti nel Decreto Sviluppo approvato in questi giorni, richiederebbe troppo tempo e troppo spazio. Così si è costretti a restringere l’analisi ad alcuni punti tra quelli tanto sbandierati, la cui efficacia, non ci si può esimere dal ripeterlo, tornerà soltanto a vantaggio delle imprese. Ma , per farlo, è utile tornare ad utilizzare strumenti critici immeritatamente abbandonati alla polvere da troppo tempo, a favore di un nuovo sospetto e poco efficace.
 Certo uno degli argomenti che colpiscono di più l’immaginario è quello delle difficoltà che le imprese incontrano quando devono far ricorso al credito, soprattutto se piccole. Su questa difficoltà, il cosiddetto credit crunch,  si tende a costruire una sorta di unità di intenti e di bisogni tra lavoratori, giovani e impresari tutti alle prese con le stesse difficoltà nei confronti delle banche e del credito. “Siamo tutti sulla stessa barca può affermare così, falsamente, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Tutti preoccupati dal fatto che il credito invece di favorire mutui per l’acquisto della prima casa o prestiti per investimenti produttivi, soprattutto in una fase di crisi, finisca invece con l’essere diretto verso la speculazione finanziaria.
 Rosa Luxemburg, però, scriveva già nel lontano (?) 1898, in un articolo significativamente intitolato “Riforma sociale o rivoluzione?”: 
Se le crisi, com’è noto, traggono origine dalla contraddizione tra la capacità e la tendenza espansiva della produzione e la limitata capacità di consumo, il credito è il mezzo più idoneo a portare tanto più spesso questa contraddizione alla fase critica. Anzitutto esso accresce enormemente la capacità di espansione della produzione e costituisce la forza motrice interna, che la spinge continuamente a oltrepassare i limiti del mercato. Ma esso agisce in due sensi. Dopo aver, come fattore del processo produttivo, provocato la superproduzione, durante la crisi, nella sua qualità di intermediario dello scambio, dà il colpo di grazia alle forze produttive, che esso medesimo ha risvegliato. Al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove esso sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.
 Oltre questi due risultati più importanti, il credito agisce ancora in diversi modi in relazione col determinarsi delle crisi. Non soltanto esso offre il mezzo tecnico per mettere dei capitali altrui a disposizione di un capitalista, ma lo sprona ad impiegare con audacia e senza scrupoli la proprietà degli altri persino in speculazioni arrischiate. Non soltanto acuisce la crisi come mezzo infido di scambio delle merci, ma ne facilita lo scoppio e l’estensione in quanto trasforma tutto lo scambio in un meccanismo artificioso ed estremamente complesso, con una quantità minima di moneta aurea come base reale, e provoca così una una perturbazione per ogni minimo motivo.
 Così il credito, ben lungi dall’essere un mezzo per evitare o anche solamente attenuare la crisi è, tutt’al contrario, un fattore determinante particolarmente importante delle crisi. E del resto non potrebbe essere altrimenti. La funzione specifica del credito – esprimendoci in termini generali – non è altro infatti che quella di eliminare da tutti i rapporti capitalistici ciò che ancora rimaneva in fatto di stabilità, di introdurre dovunque il massimo possibile di elasticità e di rendere al massimo grado malleabili, relative e sensibili tutte le forze capitalistiche. Che in tal modo le crisi, le quali non sono altro che il cozzo periodico delle forze reciprocamente contrastanti dell’economia capitalistica, non possano essere che facilitate ed acuite, è cosa che salta agli occhi” ( Rosa Luxemburg, op.cit. in Scritti Politici Vol.1, pp.170 – 171, Editori Internazionali Riuniti, 2012).
L’articolo della Luxemburg era rivolto, già allora, a criticare le posizioni riformistiche di Eduard Bernstein, uno dei fondatori del revisionismo in seno alla Socialdemocrazia tedesca e contrario all’abbattimento violento del potere dello Stato e del Capitale; ma è facile vedere come in esso fossero già rinvenibili le tracce di tutto ciò che sarebbe  avvenuto in seguito e, in particolare, nel corso dell’ultima crisi, iniziatasi nel 2008 (mutui sub-prime americani, affaire Enron, speculazioni finanziarie e chiusura attuale dei rubinetti del credito in Europa e, domani, negli USA  per opera della Fed, solo per fare degli esempi).
 Sempre gli stessi giovani di Confindustria, più sopra citati, hanno poi invitato il governo attuale “a dare un progetto  concreto di futuro, a disegnare l’Italia che sarà tra 10 anni [...] La capacità di visione per un leader è essenziale. Non un governo che faccia miracoli ma che agisca sulla competitività del Paese “. Le prime mosse dell’esecutivo non sembrano convincere però i giovani imprenditori, poiché più che l’Imu, la priorità dovrebbe essere costituita dal ”livello di tassazione su lavoro e imprese“.
 Ecco, prima di tutto le tasse e in particolare quelle sul lavoro. Altro tema coinvolgente, dal punto di vista di Squinzi. Peccato, però, che da una detassazione del lavoro salariato, poco abbiano da guadagnare i lavoratori dipendenti (poche decine di euro in più in busta paga in cambio di una ulteriore sensibile riduzione dei servizi prestati in futuro dallo Stato a causa delle minori entrate) e molto gli imprenditori che vedrebbero, di fatto, abbassato il costo del lavoro. Insomma, milioni di euro di guadagno per le imprese in cambio di pochi spiccioli per i lavoratori.
Non a caso la cosa piace a tanti, dalla Lega alla CISL e, ormai, anche alla CGIL e alla Sinistra istituzionale come abbiamo potuto ben capire dai discorsi fatti in Piazza San Giovanni, il 22 giugno scorso, in occasione della manifestazione nazionale unitaria dei sindacati. Tutti uniti nel  far fronte alla crisi. Tutti schierati con gli imprenditori. Tutti sulla stessa barca. Nessuna richiesta di aumenti salariali, nessuna richiesta di riduzione dell’orario di lavoro, nessuna richiesta esplicita di una severa patrimoniale progressiva. No, i posti di lavoro verranno creati, se saranno creati, esclusivamente a spese dei lavoratori.
 Tutti insieme appassionatamente a difendere l’economia nazionale e i diritti dell’impresa e del profitto. La società dello spettacolo portata alle sue più estreme e nefaste conseguenze: il lavoro trasformato da attività creatrice tipica della specie ad assunto dell’immarcescibilità del capitale e dei suoi sacri valori. Lavoro, lavoro! A qualsiasi costo per i disoccupati e purché scarsamente retribuito, a vantaggio degli imprenditori. Evviva! Bravi!! Solidali con le leggi del Capitale!!!
 Tanto che il vero pericolo, oggi, è costituito dal non  saper più riconoscere e denunciare l’autentica lue della borghesia italiana, da Giolitti in avanti. Una borghesia vile, profittatrice, capace di espandere i propri profitti soltanto attraverso il basso costo del lavoro e le prebende statali; capace di affondare quelle sue stesse componenti che avrebbero voluto seguire un percorso diverso, magari basato sulla ricerca, l’investimento tecnologico e un diverso rapporto con i lavoratori (Adriano Olivetti, tanto per fare un nome); incapace di liberarsi dal legame politico ed economico che la legano, a doppi e triplo filo, con le mafie locali fin dai tempi dello “statista” cuneese; capace soltanto di barcamenarsi in continui giri di valzer tra un possibile alleato e l’altro (oggi l’Europa, domani gli USA  e viceversa), senza mai potersi permettere un’autonoma politica estera (troppo impegnativa per la classe dirigente, da sempre, più vile del pianeta); capace di spacciare per machiavellismo ciò che è soltanto desiderio di abbuffarsi a spese altrui, senza correre troppi rischi; bigotta e lasciva allo stesso tempo come un programma televisivo domenicale per famiglie; che ha finito col far prevalere un’opposizione (politica e sindacale) costruita a sua immagine e somiglianza: piagnona, falsa, accattona e rapace (sempre a spese dei lavoratori).
 La legittima soddisfazione per la condanna di Silvio Berlusconi, emessa dal Tribunale di Milano,  non deve perciò far dimenticare il marciume ideologico, morale, economico e politico che caratterizza nel suo insieme l’intera classe dirigente italiana fin dalle sue origini, perché altrimenti si finirebbe col rendere credibili le bugie e le millanterie dei nomi nuovi espressi oggi dalla stessa, da Letta a Renzi passando magari attraverso le confuse proposte di Grillo. Mentre un orecchio ben allenato all’ascolto dei suoni prodotti dal vociferare degli stessi e dei fin troppo numerosi cantori  o degli pseudo-critici del regime potrebbe rivelare senza ombra di dubbio che, in fin dei conti, quella che ascoltiamo è sempre la stessa musica, incisa sempre per la stessa etichetta discografica: His Master’s Voice, la Voce del Padrone.

UNIVERSITA': le menzogne di stampa e politica di Thomas Mackinson, Il Fatto Quotidiano

Università, l’Ocse sbugiarda stampa e politica. “Troppi costi e studenti”: falso

Il rapporto 2013 dell'organizzazione smentisce ciò che è stato raccontato per anni. Non è vero che l'Italia spende troppo per atenei che rendono poco e nemmeno che abbiamo il record di fuori corso e baroni. E soprattutto: con la laurea è meno probabile restare disoccupati

Studenti Università
Tutta la verità sull’università italiana, ovvero: come ti sbugiardo dieci anni di proclami (e programmi) politici che hanno fatto del luogo comune e dell’analisi falsata il grimaldello per entrare nel sistema dell’istruzione e giustificarne la progressiva demolizione, dalle guerre sante dei berluscones contro la scuola pubblica agli strali dei “professori” chiamati da Monti a tagliare la spesa statale per l’istruzione. “Abbiamo troppi laureati”, no troppi professori, l’università pubblica “costa troppo”, la laurea “non vale nulla”… Tutte clamorosissime “balle”, e lo certifica l’Ocse che ha appena diffuso l’edizione 2013 del suo Rapporto sullo stato dell’istruzione a livello mondiale (scarica). Si parla anche dell’Italia, eccome. Numeri su numeri, statistiche comparative tra nazioni su spesa, costi privati, quantità di professori, studenti, laureati e dottorandi. E ancora, analisi su benefici e costi socioeconomici dell’istruzione universitaria e del valore del titolo accademico.
Il battagliero e informale network di ricercatori “Roars“ ha studiato le 440 pagine di dati e si è divertito a confrontarli con quanto dichiarato negli ultimi anni dal variopinto pool di “esperti” chiamati a vario titolo dalla politica e dalla stampa a contribuire al discorso pubblico su emergenze e prospettive del sistema universitario. Tra gli altri Gelmini, Giavazzi, Andrea Ichino, Profumo, Martone. Il confronto tra il proclama del momento e il dato fornito dall’Ocse è spesso esilarante, ma è soprattutto preoccupante: in un attimo rivela il livello di approssimazione delle analisi e delle valutazioni di chi per anni ha avuto tra le mani la delega al settore o è stato chiamato a dire la sua, in virtù di una patente di competenza scientifica pubblicamente riconosciuta. Ecco le cantonate più grosse. 
1. “L’università italiana costa troppo”Era la grande convinzione del ex ministro Mariastella Gelmini che nella stagione dei tagli e della contestazione del 2009 apostrofava così le voci del dissenso: “È risibile il tentativo di qualcuno di collegare la bassa qualità dell’Università italiana alla quantità delle risorse erogate. Il problema, come ormai hanno compreso tutti, non è quanto si spende (siamo in linea con la media europea)”. Ma cosa dice l’Ocse in proposito? 
L’esatto contrario della Gelmini: ad eccezione di Repubblica Slovacca e Ungheria, l’Italia spende meno di tutte le altre nazioni europee (61% della media Ocse, 69% della media Eu21). Mentre la maggior parte delle altre nazioni hanno riconosciuto la natura strategica delle spese per istruzione, l’Italia, con la sola eccezione dell’Ungheria, è la nazione che ha effettuato i tagli più pesanti (il rapporto Ocse non fornisce il dato relativo alla sola spesa per università, ma un dato aggregato relativo all’intera spesa per istruzione). Se si considera la percentuale della spesa pubblica destinata all’istruzione, si scopre che l’Italia è ultima su 32 nazioni. Insomma, Gelmini bocciata su tutta la linea.  
2. Troppi studenti. Parola di Giavazzi, l’uomo della spending reviewL’altro mantra che si ripete da tempo è l’eccessivo numero di studenti. Tra chi si esercita in affondi letali per il mondo accademico italiano spicca Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del Corriere. Che non ha alcun dubbio in proposito, tanto che quando Mario Monti l’ha chiamato a realizzare la spending review e tagliare teste molti in università si son fatti il segno della Croce. 
Ed ecco che sul sito de Lavoce.info, l’esperto getta il sasso nello stagno al mottoSiamo davvero sicuri che questo Paese abbia bisogno di più laureati?” (28/11/2012).  Ma ha ragione Giavazzi, sono davvero troppi gli studenti dell’università italiana? Niente affatto e l’Ocse lo certifica. Come percentuale di laureati nella fascia più giovane (25-34 anni) l’Italia è all’ultimo posto in Europa (21% contro 39% della media Ocse). Se si considera che il Brasile è una nazione non-Ocse, l’Italia è al penultimo posto tra i Paesi Ocse dato che solo la Turchia (19%) ha meno laureati di noi. Sarà allora che abbiamo troppi docenti. 
3. Contrordine: sono troppi i professoriSe non sono troppi gli studenti tocca prendersela con i professori, altrimenti il gioco a chi spara sull’università non funziona più. Per accreditare l’idea che gli atenei siano in balia di masse di baroni, orde incontrollate di docenti,  Giavazzi usa le pagine del Corriere. La sentenza è inappellabile: Non c’è dubbio che nell’università siamo in troppi  (24 ottobre 201o).
Non c’è dubbio. Ma anche qui, sbaglia. Ricorda l’ingegner Giuseppe De Nicolao, professore e analista all’università di Pavia: su 26 nazioni considerate solo 5 hanno un rapporto studenti/docenti peggiore del’Italia (Indonesia, Repubblica Ceca, Arabia Saudita, Belgio e Slovenia). Dato che Indonesia e Arabia Saudita sono paesi non-Ocse, l’Italia risulta essere quart’ultima tra i paesi Ocse per rapporto docenti/studenti. “Eppure anche questo dato, disponibile a tutti e da alcuni anni, non è mai stato utilizzato perché non funzionale come altri a dare addosso al sistema universitario. Fa parte di quel corredo di parametri sistematicamente occultato da chi guardava ai numeri del settore con gli occhiali dell’ideologia politica”.  
4.L’ultima spiaggia: troppi dottorandiA un certo punto se non sono troppi i laureati e neppure i professori a qualcuno viene in mente che possano essere i dottorandi, ad esempio a Sergio Benedetto, illustre professore del Politecnico di Torino ma sopratutto l’uomo messo a capo dell’organismo di valutazione della ricerca, deputato dall’Anvur a premiare o punire 95 atenei stabilendo criteri per l’erogazione di 800 milioni di fondi. Incarico delicatissimo, dunque. 
Ebbene Benedetto su Repubblica annuncia: “Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta” (Repubblica, 4/02/2012). Ma l’assunto iniziale era corretto, ovvero l’Italia ha un numero di dottorandi  tanto spropositato da doverlo ridurre? Nel seguente grafico viene riportata la percentuale di studenti che proseguono i loro studi fino al conseguimento del dottorato di ricerca. L’Italia è al di sotto della media Ocse e si colloca in 21esima posizione su 32 nazioni. Per la spiegazione delle età medie di entrata particolarmente elevate in alcune nazioni (Islanda, Spagna, Portogallo, Corea, …) si veda la discussione a p. 296 del Rapporto “Education at a Glance”.
 5. La moltiplicazione dei fuoricorsoMa ecco il turno di Francesco Profumo che se la prende con i fuori corso d’Italia, massa di fannulloni che non avrebbe pari in tutta Europa. “I fuori corso all’università esistono solo da noi (…) All’Italia manca il rispetto delle regole e dei tempi. Credo che la scuola sul rispetto delle regole debba dare un segnale forte perché gli studenti fuori corso hanno un costo, anche in termini sociali” (Corriere, 15-10-2012). Vero, non vero?  
Anche questo non è vero, a insistere sullo stesso punto è però l’ex sottosegretario Michel Martone (quello che laurearsi dopo i 28 anni “è da sfigati”), su Repubblica: “Il problema dell’età media dei laureati in Italia esiste”. L’Ocse dice esattamente il contrario: l’età media dei laureati italiani è addirittura più bassa della media europea. In realtà il mancato rispetto dei tempo nominali è un fenomeno diffuso a livello mondiale, mentre nelle dichiarazioni degli “esperti” viene propagandato come il piccolo e imperdonabile vezzo di un Paese che tira a campare, azzoppato dal carrozzone universitario, mentre l’Europa e il mondo corrono. 
6. Lo studente che costava troppo. Il problema che non è mai esistitoAd avvertire che “spendiamo troppo per gli studenti” è Roberto Perotti, economista della Bocconi che nel libro L’università truccata (Einaudi) ha messo in croce il malcostume accademico dei privilegi. Ma ha commesso anche qualche errore di conto. 
L’assunto iniziale (e quindi i rimedi finali intesi come proposte di riforma in appendice al discorso) sono falsi. “Si basano infatti sul precedente rapporto Ocse e su una rielaborazione fai-da-te del Perotti del dato sulla spesa per studente che già lo stesso rapporto indicava come inutilizzabile a fini comprativi”, spiega De Nicolao. Il rapporto mostra che la spesa media per studente lungo la durata media del suo corso di studi, lungi dall’essere la quarta al mondo, è invece 14-esima con un valore pari al 75% della media Ocse”. In altre parole il sistema universitario italiano non è quella babele di sprechi e costi ingiustificati che si vuol sempre rappresentare nel dibattito pubblico. O almeno, l’Italia (almeno in questo) non è la pecora nera d’Europa. 
 7. Il falso mito delle rette troppo basse, una mina sull’istruzione di massaAltro mito da sfatare buttato in pasto al dibattito sul destino dell’istruzione universitaria è il seguente: “Non possiamo più permetterci un’università quasi gratuita”, sempre Giavazzi (Corriere, 24-10-2010). Vero, perché dobbiamo pagare noi per masse di studenti sfaccendati, professori e ricercatori parassitari? 
Peccato che anche questo dato sia del tutto campato in aria. Dalle comparazioni Ocse per l’Italia risulta un quadro della situazione decisamente diverso: il nostro Paese si posiziona decimo in classifica sulle 25 nazioni considerate per costo delle tasse e addirittura terza se si considera poi l’aumento delle rette dell’ultimo anno, soprattutto nelle private. Qui effettivamente la retta corre e forse dovrebbe essere posta più attenzione nel dibattito pubblico. Tanto che, considerando solo le private, l’Italia è addirittura seconda in Europa per costo delle rette, seguita dall’Inghilterra. Ma (chissà perché) di questo non si parla mai mentre si riempiono fiumi d’inchiostro sul falso mito dell’università semi-gratuita per tutti.
 8. Il sistema pubblico ci costa e ci danneggia tutti. Quelli che…  ”meglio le private”Ma ecco che Andrea Ichino, fratello del giuslavorista Pietro con cattedra all’università di Bologna, metteva in dubbio i benefici sociali della laureaUno dei nostri argomenti, però, è che chi ha provato a misurare empiricamente la presenza di questi benefici sociali [della laurea], aggiuntivi rispetto a quelli privati, ha trovato poco o nulla”, scriveva proprio su “Roars” il 18 febbraio scorso.
La questione viene analizzata in dettaglio dall’Ocse che sfata l’ennesimo falso mito: i benefici sociali conseguenti da un laureato italiano maschio sono 3,7 volte maggiori dei costi pubblici  (media Ocse: 3,9), nel caso di una laureata femmina sono 2,4 volte maggiori  (media Ocse: 3,0). Quindi un euro speso in ricerca ne porta da 2,4 a 3,7. 
I ritorni economici di un laureato italiano (ovvero i benefici meno i costi sostenuti), sia pubblici (169mila dollari) che individuali (155mila dollari) elaborati dall’Ocse per i laureati non solo sono di entità del tutto paragonabile ai valori degli altri paesi, ma  in Italia il ritorno per la collettività sarebbe superiore addirittura a quello individuale. In altre parole, incentivare e investire sull’accesso al sistema universitario conviene a tutti, anche a chi decide altrimenti. 
 9. L’affondo finale: quelli che “La laurea non serve”. Parola di Oscar GianninoMa cosa ti laurei a fare? L’università non serve ormai a nulla. L’ultimo a sostenerlo, forse per ragioni strettamente personali, è stato Oscar Giannino, beccato in castagna a vantare titoli mai posseduti: “Cinquantamila universitari in meno vuol dire che i giovani non sono fessi, vedono l’università senza merito come inutile”. Anche qui l’Ocse ristabilisce due elementi di verità. Nel seguente grafico viene rappresentato il maggior guadagno percentuale che deriva dall’essere laureati rispetto a possedere un diploma di istruzione secondaria. 
Per i laureati italiani tale maggior guadagno (+48%) non appare trascurabile, anche se negli altri paesi Ocse tende ad essere ancora maggiore (media Ocse: +57%). Non solo. Il beneficio della laurea (il cui valore legale è sempre a rischio di abolizione) emerge anche rispetto al dato occupazionale. Nell’ultimo grafico si osserva infatti la minore probabilità di disoccupazione tra chi ha in tasca un diploma di laurea e chi non lo ha. Il tasso di occupazione per i laureati italiani è pari al 79% (media Ocse:84%) contro il 75% dei maturati (media Ocse: 84%) ed il 58% per chi si è fermato alla media inferiore (media Ocse: 58%). Se da un lato, la situazione italiana è peggiore della media Ocse, il differenziale  di quattro punti percentuali tra laureati e maturati è identico. Tutto il resto è, semplicemente, falso.