Mentre
Enrico Letta emette flebili lamenti nei confronti dell’Unione europea,
mentre il Partito democratico esaurisce ogni propria energia in
dilanianti lotte fra correnti e rissosi capibastone, mentre i
dopolavoristi del M5S si baloccano con questioni del tutto secondarie
consumando in ininfluenti baruffe il loro apprendistato parlamentare,
Berlusconi fa politica, spaziando indisturbato in un campo lasciato
totalmente sgombro dai suoi sbiaditissimi partner di governo.
Il capo
del Pdl lavora con grande determinazione ed efficacia comunicativa su
due terreni principali.
Da un lato, quello istituzionale, buttandosi a
peso morto nelle voragini culturali spalancatesi nel Centrosinistra per
mettere in gestazione una riforma che consolidi la fuoriuscita dalla
democrazia parlamentare e approdi ad un presidenzialismo autoritario,
possibilmente senza contrappesi, possibilmente senza zavorre di origine
costituzionale che contemplino poteri indipendenti – men che meno
sovraordinati – rispetto all’esecutivo.
Dall’altro, il terreno cruciale
dell’economia, a proposito del quale Berlusconi chiede con chiarezza
adamantina che l’Italia smetta di strusciare chiedendo elemosine,
digrigni i denti con Angela Merkel e si affranchi dalla prepotenza
tedesca. Anche a costo di “scomporre i meccanismi dell’area dell’Euro” e
di tornare alla lira. Dunque, mentre Enrico Letta non varca i confini
della più innocua moral suasion, Berlusconi si intesta una linea che ha
il sapore del recupero di una sovranità nazionale che l’architettura
monetarista dell’Ue ha liquefatto.
Ovviamente Berlusconi tace sul che fare, non dice nulla sui trattati europei, sulle concrete misure nelle quali dovrebbe materializzarsi una nuova politica economica; ovviamente il suo strombazzato “new deal” non passerebbe per la cruna di politiche sociali a tutela dei salari e del welfare, né attraverso la ricostruzione di un potere e di una proprietà pubblici capaci di riorientare un processo di sviluppo drammaticamente compromesso da una classe imprenditoriale che ha depredato le risorse del Paese godendo di una illimitata libertà.
Il progetto di Berlusconi si può al dunque condensare in due proposizioni: stato autoritario e rapporti sociali dominati da un liberismo assoluto. E tuttavia, ciò che passa nella vasta opinione pubblica e trasversalmente a tutti i ceti sociali è che da una parte c’è un imbelle traccheggiamento, una navigazione a vista, incapace di reagire ai drammi sociali che quotidianamente crescono per intensità e dimensione, mentre dall’altra c’è la volitiva muscolarità dell’uomo forte, convinto delle proprie idee e capace (la memoria non fa parte delle virtù italiche) di realizzare ciò che dice.
Ovviamente Berlusconi tace sul che fare, non dice nulla sui trattati europei, sulle concrete misure nelle quali dovrebbe materializzarsi una nuova politica economica; ovviamente il suo strombazzato “new deal” non passerebbe per la cruna di politiche sociali a tutela dei salari e del welfare, né attraverso la ricostruzione di un potere e di una proprietà pubblici capaci di riorientare un processo di sviluppo drammaticamente compromesso da una classe imprenditoriale che ha depredato le risorse del Paese godendo di una illimitata libertà.
Il progetto di Berlusconi si può al dunque condensare in due proposizioni: stato autoritario e rapporti sociali dominati da un liberismo assoluto. E tuttavia, ciò che passa nella vasta opinione pubblica e trasversalmente a tutti i ceti sociali è che da una parte c’è un imbelle traccheggiamento, una navigazione a vista, incapace di reagire ai drammi sociali che quotidianamente crescono per intensità e dimensione, mentre dall’altra c’è la volitiva muscolarità dell’uomo forte, convinto delle proprie idee e capace (la memoria non fa parte delle virtù italiche) di realizzare ciò che dice.
Nel guscio
del governo di coalizione, nell’abbraccio “strategico” fra Pd e Pdl
voluto da Napolitano, si sta producendo una catastrofica implosione
della forza che soltanto tre mesi fa pensava di avere in tasca un
luminoso futuro e il governo del paese. Ma il Pd non dà la sensazione di
potere-sapere-volere venir fuori dalla trappola letale in cui si è
messo.
Noi, noi comunisti, voglio dire, le proposte le avremmo anche,
ma non arrivano a destinazione, perché poggiano su gambe troppo
gracili, perché possono essere facilmente sepolte nell’anonimato da un
fuoco di sbarramento mediatico che non abbiamo (ancora) capito come
aggirare. E perché il partito che ci serve è in tanta parte da
ricostruire e da rinnovare.
Eppure bisogna avere chiara almeno una cosa:
che per quanto il percorso sia in salita ripida, non c’è altra strada
(utile) che quella della ricostruzione di un pensiero critico, autonomo
dall’ideologia dominante, capace di indicare una prospettiva diversa e
praticabile, su cui progressivamente agglutinare forze, soggettività
politiche e sociali che oggi, anziché trovare il modo di unirsi,
continuano a guardarsi in cagnesco, ritraendosi orgogliosamente a
coltivare sempre più angusti orticelli.
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