E
se i padroni non fossero necessari? È un sogno, ma con la
disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercare una soluzione.
L’hanno trovata alcune migliaia di lavoratori che in Italia hanno
reagito al fallimento della loro impresa e alla delocalizzazione. Hanno
detto ai padroni: «Se ve ne andate, proveremo noi a mandare avanti
l’azienda con il nostro lavoro».
E se i padroni, dopotutto, non fossero necessari? Naturalmente è un
sogno, ma con la disoccupazione che morde anche i sogni aiutano a cercar
soluzioni per continuare ad avere un lavoro e non arrendersi alla
prospettiva di una vita da cassintegrati, o da pensionati con dieci anni
di anticipo. L’hanno trovata, una soluzione, alcune migliaia di
lavoratori che in varie regioni d’Italia hanno reagito al fallimento
della loro impresa, alla delocalizzazione, ai dirigenti di una
corporation che dalla Finlandia o dall’Alabama decidono di chiudere un
impianto in Italia perché rende meno di uno della Corea del Sud. Hanno
detto ai padroni, ma anche a se stessi, «se voi ve ne andate, noi
restiamo qui, e proveremo a mandare avanti l’azienda con il nostro
lavoro». Alcune delle imprese che han continuato ad operare nonostante
la fuoruscita dei capi o dei padroni hanno preso forma di cooperative;
altre si sono date una veste giuridica diversa. Sia questa l’una o
l’altra, adesso l’impresa la mandano avanti loro, operai e tecnici,
dirigenti e impiegati.
In Argentina le chiamano fabricas o empresas recuperadas. Sono nate dal 2001 e si sono moltiplicate. Considerato quel che sta avvenendo in Italia, la loro storia è di speciale interesse, perché in essa si ritrovano varie situazioni che hanno con il nostro paese diversi elementi comuni. Nel 2001 l’Argentina stava attraversando, come noi oggi, una disastrosa crisi economica. Centinaia di imprese dichiaravano fallimento, e i dipendenti, con una età media sopra i quaranta, erano quasi certi che mai più avrebbero trovato un lavoro. Una ondata dissennata di privatizzazioni di aziende pubbliche aveva contribuito a disastrare il mercato del lavoro; il resto lo avevano fatto gli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi — simili a quelli che oggi arrivano a noi da Bruxelles o da Francoforte — da cui il drastico ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale.
Non vi fu allora, in Argentina, alcuna particolare spinta di ordine politico a indurre i lavoratori a impegnarsi per gestire loro l’impresa, una circostanza che pare evidente anche nel caso italiano. Molti aspetti positivi maturarono dopo, e paiono emergere ora nel nostro paese giusto come avvenne laggiù. I lavoratori scoprirono, tra mille difficoltà, che riuscivano a mandare avanti la fabbrica o l’impresa non meno bene del padrone che era fallito o di fronte alla crisi era scappato all’estero. Stabilirono reti di relazione efficaci con le comunità locali e con altre imprese “recuperate”. Approfondirono il tema dell’autogestione, quello che negli anni 70 del Novecento era stato un tema importante per il movimento operaio, non privo di applicazioni positive, specie in Jugoslavia. Risultato: nel 2001 le empresas recuperadas erano alcune decine. Al presente si stima siano 350, che occupano circa 25.000 lavoratori in diversi settori produttivi.
Le imprese italiane autogestite, siano cooperative o altro, meritano quindi attenzione da parte del governo, dei sindacati, e delle tantissime imprese che un padrone ancora ce l’hanno. Da un lato perché a fronte di una crisi che è ormai certo durerà un altro decennio è essenziale esplorare ogni possibile strada per evitare che le imprese, a cominciare dalle Pmi, continuino a chiudere. Dall’altro perché queste fabbriche o aziende di servizio mostrano che se i lavoratori sono trattati come persone, piuttosto che come robot i quali debbono attenersi rigorosamente alla metrica tayloristica del lavoro imposta dall’alto, tirano fuori una intelligenza, una capacità professionale, una competenza nel costruire e gestire un’organizzazione, che quella metrica al tempo stessa nega e spreca. Con un danno grave sia per i lavoratori, sia per la stessa impresa. Ciò di cui i padroni, pur restando al loro posto, dovrebbero prendere nota. Qualche decennio fa si parlava molto, da noi come in altri paesi, della necessità di sollecitare la creatività e lo spirito di iniziativa dei dipendenti. Le imprese hanno preferito adottare modelli di organizzazione del lavoro che soffocavano di proposito l’una e l’altro. La crisi ha tra le sue cause anche quei modelli. Le “imprese recuperate” attestano che converrebbe cominciare a battere altre strade.
In Argentina le chiamano fabricas o empresas recuperadas. Sono nate dal 2001 e si sono moltiplicate. Considerato quel che sta avvenendo in Italia, la loro storia è di speciale interesse, perché in essa si ritrovano varie situazioni che hanno con il nostro paese diversi elementi comuni. Nel 2001 l’Argentina stava attraversando, come noi oggi, una disastrosa crisi economica. Centinaia di imprese dichiaravano fallimento, e i dipendenti, con una età media sopra i quaranta, erano quasi certi che mai più avrebbero trovato un lavoro. Una ondata dissennata di privatizzazioni di aziende pubbliche aveva contribuito a disastrare il mercato del lavoro; il resto lo avevano fatto gli “aggiustamenti strutturali” imposti dalla Banca Mondiale e dal Fmi — simili a quelli che oggi arrivano a noi da Bruxelles o da Francoforte — da cui il drastico ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale.
Non vi fu allora, in Argentina, alcuna particolare spinta di ordine politico a indurre i lavoratori a impegnarsi per gestire loro l’impresa, una circostanza che pare evidente anche nel caso italiano. Molti aspetti positivi maturarono dopo, e paiono emergere ora nel nostro paese giusto come avvenne laggiù. I lavoratori scoprirono, tra mille difficoltà, che riuscivano a mandare avanti la fabbrica o l’impresa non meno bene del padrone che era fallito o di fronte alla crisi era scappato all’estero. Stabilirono reti di relazione efficaci con le comunità locali e con altre imprese “recuperate”. Approfondirono il tema dell’autogestione, quello che negli anni 70 del Novecento era stato un tema importante per il movimento operaio, non privo di applicazioni positive, specie in Jugoslavia. Risultato: nel 2001 le empresas recuperadas erano alcune decine. Al presente si stima siano 350, che occupano circa 25.000 lavoratori in diversi settori produttivi.
Le imprese italiane autogestite, siano cooperative o altro, meritano quindi attenzione da parte del governo, dei sindacati, e delle tantissime imprese che un padrone ancora ce l’hanno. Da un lato perché a fronte di una crisi che è ormai certo durerà un altro decennio è essenziale esplorare ogni possibile strada per evitare che le imprese, a cominciare dalle Pmi, continuino a chiudere. Dall’altro perché queste fabbriche o aziende di servizio mostrano che se i lavoratori sono trattati come persone, piuttosto che come robot i quali debbono attenersi rigorosamente alla metrica tayloristica del lavoro imposta dall’alto, tirano fuori una intelligenza, una capacità professionale, una competenza nel costruire e gestire un’organizzazione, che quella metrica al tempo stessa nega e spreca. Con un danno grave sia per i lavoratori, sia per la stessa impresa. Ciò di cui i padroni, pur restando al loro posto, dovrebbero prendere nota. Qualche decennio fa si parlava molto, da noi come in altri paesi, della necessità di sollecitare la creatività e lo spirito di iniziativa dei dipendenti. Le imprese hanno preferito adottare modelli di organizzazione del lavoro che soffocavano di proposito l’una e l’altro. La crisi ha tra le sue cause anche quei modelli. Le “imprese recuperate” attestano che converrebbe cominciare a battere altre strade.
Nessun commento:
Posta un commento