Le
quotidiane, benché tardive lagnanze della Confindustria nei confronti dei
governi, divenute particolarmente forti verso gli ultimi governi hanno
sicuramente buone e fondate ragioni: gli enormi crediti vantati da migliaia di
imprese nei confronti di amministrazioni pubbliche ormai cronicamente
insolventi, il credit crunch che impedisce alle aziende di ottenere i
finanziamenti necessari per alimentare la normale dinamica del ciclo
produttivo, un sistema fiscale che penalizza il lavoro e l’attività produttiva,
la presenza di una burocrazia ottusa e scoraggiante e, primariamente,
l’incapacità della guida politica – prigioniera del dogma monetarista – di
adottare misure anticicliche, tali da ridare fiato ad un’economia molto, molto
vicina al definitivo collasso.
Varrebbe semmai la pena di ricordare ai padroni che oggi tirano gli stracci, quanto siano stati corrivi nei confronti dei governi che hanno fatto del lavoro carne di porco, pensando che una classe lavoratrice priva di diritti, con tutele sociali decrescenti e potere sindacale ridotto allo zero, avrebbe risolto ogni problema di competitività, assolvendoli dal dovere di rischiare, investire, innovare, non contro ma grazie all’emancipazione dei lavoratori.
Converrà allora dire a costoro di interrompere l’ipocrita piagnisteo che spesso si risolve nella sola richiesta di quattrini allo Stato, per chiarire come stiano effettivamente le cose.
Ci dà una mano l’ottimo lavoro con il quale Marco Panara (Affari&Finanza ne la Repubblica di lunedì 10 giugno) racconta, con l’ausilio di una larga messe di dati, una storia interessante che lor signori cercano di occultare.
La verità nascosta è che la quota della ricchezza prodotta nel nostro paese e incamerata dai profitti è stata, fino a due anni fa, costantemente e significativamente superiore a quella tedesca e a quella francese. E tutto ciò – osserva Panara – “nonostante che lo Stato italiano in tutti questi anni si sia preso, con tasse e imposte di varia natura, una parte più rilevante di quanto abbiano fatto sia la Francia che la Germania”.
Questo per la manifattura, che possiamo considerare – soprattutto nelle imprese di dimensione media e grande – “la parte nobile dello spettro”. Nei servizi, la quota di valore aggiunto assorbita dal lavoro dal 1996 ad oggi è stata anche minore, non essendosi mai discostata molto dal 54 per cento. Guardando invece l’insieme del settore privato, negli stessi 15 anni siamo intorno al 61 per cento e, con riferimento all’intera economia nazionale, al 65 per cento.
Insomma, al lavoro, in Italia, vanno i due terzi del pil, meno dei paesi con i quali ogni giorno ci confrontiamo in termini di spread, di export, di produttività, di competitività, di attrazione degli investimenti.
Di più: se si guarda agli anni buoni (2004-2007) si scopre che in quei periodi al lavoro non arriva nulla della maggiore ricchezza prodotta. Quando poi arrivano gli anni bui, i lavoratori pagano due volte, in termini di caduta del salario e di disoccupazione crescente, a cui i padroni ricorrono per evitare di abbattere o contenere la riduzione del saggio di profitto. Con l’ulteriore differenza che quando il vento soffiava nelle vele gli imprenditori avevano accumulato e i lavoratori no. Se poi si guarda all’andamento del salario orario medio si scopre (è la Banca d’Italia a dircelo nella relazione pubblicata il 31 maggio scorso) che negli ultimi due anni esso è andato indietro, traiettoria a perdere che si prevede continuerà anche nel prossimo biennio.
La circostanza che il salario operaio in media non cresca da vent’anni, non dice poi tutta la realtà. Perché “si è creata, all’interno della classe lavoratrice, una nuova classe, o sottoclasse, ancora più povera e destinata a rimanere tale nel corso della sua intera vita”. E’ l’esercito (crescente) dei lavoratori precari, che hanno visto unirsi all’abbattimento generale del potere di contrattazione anche i misfatti a ripetizione provocati dalla legislazione sul mercato del lavoro e sul regime pensionistico. Quando arriverà – se mai arriverà – il tempo della pensione “ci si troverà con assegni mensili sensibilmente più bassi, non solo perché avendo percepito redditi inferiori sono stati versati meno contributi, ma anche perché le numerose riforme della previdenza hanno ridotto l’ammontare delle pensioni anche a parità di contributi versati da generazioni diverse di lavoratori”.
La morale di questa antica favola che ora abbiamo solo corroborato con qualche dato statistico fresco di stampa, è che i padroni, anche in questi anni di austerity, sono “ingrassati”, che la loro ricchezza privata, opportunamente patrimonializzata, è enorme (anche questo ci dice la Banca d’Italia, certo non obnubilata da propaganda bolscevica), nascosta attraverso le società “of shore”, custodita nei forzieri svizzeri, protetta da un regime fiscale feroce con i poveri diavoli, ma distratto e connivente con la grande proprietà.
Pagano per tutti il conto lavoratori, disoccupati, precari e pensionati poveri, da tempo privi di rappresentanza sociale e politica.
Varrebbe semmai la pena di ricordare ai padroni che oggi tirano gli stracci, quanto siano stati corrivi nei confronti dei governi che hanno fatto del lavoro carne di porco, pensando che una classe lavoratrice priva di diritti, con tutele sociali decrescenti e potere sindacale ridotto allo zero, avrebbe risolto ogni problema di competitività, assolvendoli dal dovere di rischiare, investire, innovare, non contro ma grazie all’emancipazione dei lavoratori.
Converrà allora dire a costoro di interrompere l’ipocrita piagnisteo che spesso si risolve nella sola richiesta di quattrini allo Stato, per chiarire come stiano effettivamente le cose.
Ci dà una mano l’ottimo lavoro con il quale Marco Panara (Affari&Finanza ne la Repubblica di lunedì 10 giugno) racconta, con l’ausilio di una larga messe di dati, una storia interessante che lor signori cercano di occultare.
La verità nascosta è che la quota della ricchezza prodotta nel nostro paese e incamerata dai profitti è stata, fino a due anni fa, costantemente e significativamente superiore a quella tedesca e a quella francese. E tutto ciò – osserva Panara – “nonostante che lo Stato italiano in tutti questi anni si sia preso, con tasse e imposte di varia natura, una parte più rilevante di quanto abbiano fatto sia la Francia che la Germania”.
Questo per la manifattura, che possiamo considerare – soprattutto nelle imprese di dimensione media e grande – “la parte nobile dello spettro”. Nei servizi, la quota di valore aggiunto assorbita dal lavoro dal 1996 ad oggi è stata anche minore, non essendosi mai discostata molto dal 54 per cento. Guardando invece l’insieme del settore privato, negli stessi 15 anni siamo intorno al 61 per cento e, con riferimento all’intera economia nazionale, al 65 per cento.
Insomma, al lavoro, in Italia, vanno i due terzi del pil, meno dei paesi con i quali ogni giorno ci confrontiamo in termini di spread, di export, di produttività, di competitività, di attrazione degli investimenti.
Di più: se si guarda agli anni buoni (2004-2007) si scopre che in quei periodi al lavoro non arriva nulla della maggiore ricchezza prodotta. Quando poi arrivano gli anni bui, i lavoratori pagano due volte, in termini di caduta del salario e di disoccupazione crescente, a cui i padroni ricorrono per evitare di abbattere o contenere la riduzione del saggio di profitto. Con l’ulteriore differenza che quando il vento soffiava nelle vele gli imprenditori avevano accumulato e i lavoratori no. Se poi si guarda all’andamento del salario orario medio si scopre (è la Banca d’Italia a dircelo nella relazione pubblicata il 31 maggio scorso) che negli ultimi due anni esso è andato indietro, traiettoria a perdere che si prevede continuerà anche nel prossimo biennio.
La circostanza che il salario operaio in media non cresca da vent’anni, non dice poi tutta la realtà. Perché “si è creata, all’interno della classe lavoratrice, una nuova classe, o sottoclasse, ancora più povera e destinata a rimanere tale nel corso della sua intera vita”. E’ l’esercito (crescente) dei lavoratori precari, che hanno visto unirsi all’abbattimento generale del potere di contrattazione anche i misfatti a ripetizione provocati dalla legislazione sul mercato del lavoro e sul regime pensionistico. Quando arriverà – se mai arriverà – il tempo della pensione “ci si troverà con assegni mensili sensibilmente più bassi, non solo perché avendo percepito redditi inferiori sono stati versati meno contributi, ma anche perché le numerose riforme della previdenza hanno ridotto l’ammontare delle pensioni anche a parità di contributi versati da generazioni diverse di lavoratori”.
La morale di questa antica favola che ora abbiamo solo corroborato con qualche dato statistico fresco di stampa, è che i padroni, anche in questi anni di austerity, sono “ingrassati”, che la loro ricchezza privata, opportunamente patrimonializzata, è enorme (anche questo ci dice la Banca d’Italia, certo non obnubilata da propaganda bolscevica), nascosta attraverso le società “of shore”, custodita nei forzieri svizzeri, protetta da un regime fiscale feroce con i poveri diavoli, ma distratto e connivente con la grande proprietà.
Pagano per tutti il conto lavoratori, disoccupati, precari e pensionati poveri, da tempo privi di rappresentanza sociale e politica.
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