La crisi del 2008 fu
alimentata anche dall’improvvisa esplosione del prezzo del greggio fra
il 2005 e la metà del 2008, quando si sfiorarono i 160 dollari a barile.
Quella impennata produsse una serie di effetti a catena che fecero
esplodere il bubbone dei mutui subprime, che covava da tempo.
Conseguentemente, molti pensano oggi che la fase ribassista del prezzo
del petrolio, possa smorzare le forti spinte ad una terza ondata di
crisi, nel prossimo anno. Ma nei sistemi complessi i rapporti fra causa
ed effetto non sono mai lineari e non è infrequente che si determinino
dinamiche controintuitive.
In questo caso il rischio è che i
petrolio a buon mercato, pur dando qualche vantaggio momentaneo, finisca
per innescare effetti boomerang ben più pericolosi.
Partiamo da una semplice constatazione:
mentre la finanza spesso (ma non sempre) si giova di turbolenze nei
prezzi o nelle parità monetarie, l’economia reale non ama sbalzi né in
un senso né nell’altro ed ha bisogno di stabilità. La finanza punta al
realizzo nel breve periodo: ad un finanziere non interessa affatto
sapere se l’impresa, di cui sta acquistando le azioni, fra cinque anni
fallirà, lui vuol solo sapere se dopodomani mattina riuscirà a rivendere
quelle azioni a prezzo superiore a quello d’acquisto.
Vice versa, nell’economia reale,
l’ammortamento degli investimenti non può avvenire che in tempi molto
lunghi, nei quali sarebbe auspicabile che ci fossero meno sbalzi
possibili. Ad esempio: se produco maniglie, acquistare ottone a prezzi
ribassati è certamente un vantaggio, ma se poi questo si accompagna ad
una fase deflattiva, di contrazione dei consumi, quel vantaggio di breve
periodo non mi aiuta molto a superare il momento difficile. E, dunque,
inflazione e deflazione nuocciono in egual misura a quella stabilità di
cui l’azienda ha bisogno per pianificare i propri investimenti ed i
propri rientri.
Allo stesso modo: una moneta forte ed in
ascesa, permetterà condizioni più favorevoli di acquisto delle materie
prime o di tecnologie dall’estero, ma ostacolerà le esportazioni. Vice
versa, una moneta debole aiuta le esportazioni, ma penalizza
nell’acquisto di materie prime e tecnologie dall’estero.
Peraltro, ogni mutamento di parità
comporta costi di adeguamento, per cui, come mi insegnò 40 anni fa il
“Manuale di Economia Marxista” di Ernest Mandel, chi si muove perde ed
invece vince chi è relativamente più stabile degli altri. E, dunque,
l’economia reale non ama le capriole che sono roba da zompafossi ed
avventurieri, cioè da finanzieri.
Però, poi accade che l’economia reale si
“vendichi” dei giocolieri della finanza, con il suo rude richiamo al
principio di realtà, e manda i funamboli di Wall Street di sedere per
terra. Ed è esattamente quello che sta accadendo.
Non si capisce bene sulla base di quali
calcoli razionali, fra il 2011 e la metà del 2013, gli hedge fund hanno
investito cifre massicce nel settore delle commodities ripromettendosi
profitti da Mille e una notte. Solo che la “gelata” è arrivata molto
prima del previsto e la tendenziale caduta della domanda aggregata
mondiale ha innescato un processo di reazioni a catena per cui il Bloomberg Commodity Index
(riferito a 22 materie prime) è sceso del 10% in meno di un anno, fra
la fine del 2013 ed ottobre 2014 e, al posto di guadagni si sono
profilate perdite sanguinose. Poi ci si sono aggiunte le ulteriori
perdite per il capitombolo petrolifero (-30% in sei mesi).
Esemplare la vicenda della Brevan Howard
Asset Management (la più grande “hedge fund macro” nel mondo, forte di
una gestione per 40 miliardi di dollari, fondata nel 2002 da Alan Howard
ed alcuni banchieri del Credis Suisse) ci ha rimesso l’osso del collo,
ed ha dovuto liquidare il suo fondo da 630 milioni nel settore delle
commodities, dopo perdite del 4,2% nel 2013 e del 4,3 da gennaio a
ottobre. Ed il tracollo del petrolio è stato una delle ragioni
principali, causando una flessione del 10,3% del titolo solo nel mese di
settembre.
Si tenga conto che la Brevan nei due
anni precedenti aveva già smobilitato fondi specializzati in mercati
emergenti e valute. In settembre, la Hall Commodities, ha annunciato ai
clienti la chiusura anzitempo dopo due anni di attività con risultati
magrissimi. Nei primi sei mesi del 2014 si sono chiusi 461 fondi medio
piccoli o specializzati e, per fine anno si avvicineranno avvicinandosi
terribilmente alle 1.023 del 2009, nel cuore della crisi.
Gli hedge fund, fondi iperspeculativi
che per loro natura, devono assicurare rendimenti molto alti, ma in
questo anno non hanno potuto assicurare più del 2%, tornando, più o
meno, ai livelli del 2011. E il risultato è che i fondi devono metterci
del proprio per dare ai clienti gli interessi promessi.
Risultato: Woodbine Capital Advisors si è
arresa dopo che il suo asset è piombato a 400 milioni dai 3 miliardi
del 2010. Altri fondi lanciati dalla potentissima Goldman Sachs come
Global Macro e Kingsguard Advisors, hanno chiuso i battenti dopo meni di
tre anni dalla nascita. Ed il cahier de doleance prosegue con Perella
Weinberg Xerion Fund, Archipel Asset Management, e via sanguinando.
Va da sé che fasi di contrazione del
mercato, come queste, spingono alla concentrazione e, infatti, i
maggiori dieci gruppi mondiali stanno acquisendo una ventina dei circa
60 miliardi di dollari investiti nel settore, per reggere la pressione
del mercato ed a sparire, ovviamente, sono i più piccoli. I “grossi”
hanno certamente spalle robuste, ma i tempi non sono buoni per nessuno
e, se il prezzo del petrolio dovesse flettere ancora, la pressione
inizierebbe ad essere insostenibile e la nuova ondata di crisi, invece
di sgonfiarsi, si ingrosserebbe ancor di più.
Anche perché si profila un elevato rischio insolvenza nel settore dello shale gas, ma di questo parleremo in un articolo ad hoc.
Al solito, già lo sappiamo, la Fed farà
la solita doccia di miliardi ad interessi quasi zero per fluidificare
il mercato, e magari ancora una volta si riuscirà a metterci una pezza,
ma quanto ancora può durare questo giochino?
Aldo Giannuli
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