Quando si giunge alla prossimità di una crisi di sistema torna sempre a risuonare il coro variopinto della rivolta anticasta. La degenerazione del ceto politico è reale e preoccupante, ma questa viene enfatizzata per occultare alcuni nodi storici di fondo.
È più comodo sparare alla cieca sulla casta che riflettere sugli effetti perversi del potere personale di un capo d’azienda. Eppure c’è un qualche nesso tra il declino economico dell’Italia e il decadimento della realtà di partito. La Germania, l’ultima roccaforte della partitocrazia, ha prestazioni molto differenti da quelle dell’Italia departitizzata. L’Italia è una lumaca con un record poco invidiabile: negli ultimi 15 anni è l’economia che è cresciuta di meno nel mondo. Ha poi salari fermi al ventitreesimo posto tra quelli dei paesi Ocse. La decrescita è la sua ormai cronica specializzazione. La povertà sociale la sua triste prospettiva. La Germania è invece una locomotiva che cresce del 5 per cento, con salari (di per sé ben più cospicui di quelli della penisola) aumentati del 3,2 per cento, con servizi dignitosi e con il costo delle abitazioni nelle grandi città pari a quello di una decrepita periferia italiana. Germania e Italia, i due paesi che più hanno risentito degli eventi dell’89.
L’Italia dai partiti è passata alla caccia grossa contro la casta condotta con scaltrezza da un grande capitalista. La Germania è rimasta una patria dei partiti strutturati. E con uomini di partito ha gestito i costi della riunificazione, ha affrontato i traumi della globalizzazione senza cadere nell’antipolitica. L’Italia ha provato vergogna dei partiti. Parte della colpa è loro perché non sono stati capaci di rispondere alla crisi rinnovandosi. Ma mandarli in malora ha finito per affidare il potere all’azienda e ci ha fatto ritrovare senza classi dirigenti. Ed è presto precipitata in tutti gli indicatori di competitività, sviluppo, qualità della democrazia, eguaglianza sociale. Il cieco anatema contro la casta ha prodotto una regressione storica verso le forme del neopatrimonialismo. La contaminazione di pubblico e privato, la coincidenza di azienda e governo hanno sfidato la moderna separazione funzionale di Stato e società civile. Solo la forma partito e gli istituti della rappresentanza possono svolgere il delicato ruolo di mediazione tra economia e decisione, interesse e norma. Questa impalcatura del moderno è saltata e il partito personale aziendale ha sfasciato ogni ottica pubblica imponendo la immediata e antieconomica corrispondenza di interesse e legge. Concorrenza, mercato, poteri, norma sono stati visibilmente alterati e questo intreccio di potere economico, mediatico e politico ha ostacolato la competizione, l’innovazione, la giustizia sociale. I costi economico-sociali del partito personale sono enormi e spingono il paese verso una catastrofe. La facile caciara anticasta che accomuna Libero, Il Giornale e il Fatto cela che anche nella catastrofe provocata da un governo ormai acefalo c’è chi perde (il lavoro, come sempre) e chi rimane in posizione agiata e teme di scendere. L’ansia di un declassamento di status portò tra il 1992 e il 1994 all’invenzione di nuovi attori anticonvenzionali. La Lega e Forza Italia furono i referenti politici di ceti sociali ramificati che, persi i tradizionali veicoli di rappresentanza, temevano di dover pagare anch’essi i costi del risanamento economico-finanziario. La secessione territoriale si congiunse a una secessione sociale di forze economiche che intendevano restare fuori dallo sforzo di rientrare da un debito pubblico impazzito. La crisi sociale che ha colpito il reddito da lavoro (con nuovi sacrifici pluriennali senza alcuna prospettiva reale di crescita) oggi lambisce solo marginalmente la coalizione sociale della destra, mai sfiorata da una rigorosa lotta all’evasione fiscale (7 volte superiore a quella di Francia o Germania), da un impegno per il contrasto del lavoro nero, sommerso, irregolare, precario.
Questo mondo al cospetto di un capo in fuga ha due prospettive. Continuare con le consuete forme di alienazione politica gridando contro la casta. Oppure affidarsi, nella sua parte più responsabile, a una nuova alleanza per la crescita e l’equità sociale che solo la sinistra può architettare. A fianco del lavoro, è possibile un rilancio della funzione pubblica in aree strategiche indispensabili per lo sviluppo, un ruolo per l’impresa più innovativa. L’isteria anticasta celebrata a testate unificate intende ostacolare proprio la costruzione di una nuova razionalità della politica dopo che la pretesa funzione di controllo affidata al mercato o alle agenzie di valutazione si è rivelata una tragedia e un imprenditore al comando una sciagura.
L’Italia dai partiti è passata alla caccia grossa contro la casta condotta con scaltrezza da un grande capitalista. La Germania è rimasta una patria dei partiti strutturati. E con uomini di partito ha gestito i costi della riunificazione, ha affrontato i traumi della globalizzazione senza cadere nell’antipolitica. L’Italia ha provato vergogna dei partiti. Parte della colpa è loro perché non sono stati capaci di rispondere alla crisi rinnovandosi. Ma mandarli in malora ha finito per affidare il potere all’azienda e ci ha fatto ritrovare senza classi dirigenti. Ed è presto precipitata in tutti gli indicatori di competitività, sviluppo, qualità della democrazia, eguaglianza sociale. Il cieco anatema contro la casta ha prodotto una regressione storica verso le forme del neopatrimonialismo. La contaminazione di pubblico e privato, la coincidenza di azienda e governo hanno sfidato la moderna separazione funzionale di Stato e società civile. Solo la forma partito e gli istituti della rappresentanza possono svolgere il delicato ruolo di mediazione tra economia e decisione, interesse e norma. Questa impalcatura del moderno è saltata e il partito personale aziendale ha sfasciato ogni ottica pubblica imponendo la immediata e antieconomica corrispondenza di interesse e legge. Concorrenza, mercato, poteri, norma sono stati visibilmente alterati e questo intreccio di potere economico, mediatico e politico ha ostacolato la competizione, l’innovazione, la giustizia sociale. I costi economico-sociali del partito personale sono enormi e spingono il paese verso una catastrofe. La facile caciara anticasta che accomuna Libero, Il Giornale e il Fatto cela che anche nella catastrofe provocata da un governo ormai acefalo c’è chi perde (il lavoro, come sempre) e chi rimane in posizione agiata e teme di scendere. L’ansia di un declassamento di status portò tra il 1992 e il 1994 all’invenzione di nuovi attori anticonvenzionali. La Lega e Forza Italia furono i referenti politici di ceti sociali ramificati che, persi i tradizionali veicoli di rappresentanza, temevano di dover pagare anch’essi i costi del risanamento economico-finanziario. La secessione territoriale si congiunse a una secessione sociale di forze economiche che intendevano restare fuori dallo sforzo di rientrare da un debito pubblico impazzito. La crisi sociale che ha colpito il reddito da lavoro (con nuovi sacrifici pluriennali senza alcuna prospettiva reale di crescita) oggi lambisce solo marginalmente la coalizione sociale della destra, mai sfiorata da una rigorosa lotta all’evasione fiscale (7 volte superiore a quella di Francia o Germania), da un impegno per il contrasto del lavoro nero, sommerso, irregolare, precario.
Questo mondo al cospetto di un capo in fuga ha due prospettive. Continuare con le consuete forme di alienazione politica gridando contro la casta. Oppure affidarsi, nella sua parte più responsabile, a una nuova alleanza per la crescita e l’equità sociale che solo la sinistra può architettare. A fianco del lavoro, è possibile un rilancio della funzione pubblica in aree strategiche indispensabili per lo sviluppo, un ruolo per l’impresa più innovativa. L’isteria anticasta celebrata a testate unificate intende ostacolare proprio la costruzione di una nuova razionalità della politica dopo che la pretesa funzione di controllo affidata al mercato o alle agenzie di valutazione si è rivelata una tragedia e un imprenditore al comando una sciagura.
Michele Prospero, L'unita, 17 luglio 2011
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