Il caso greco mostra quanto la crisi economica sia ancora robusta, mentre nessuno ne affronta le cause strutturali. Dal 6 luglio è in libreria "Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi" di cui pubblichiamo la Prefazione.
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
A tre anni dall’esplosione della crisi economica e finanziaria che si è resa manifesta con il fallimento della banca Lehman Brothers alcune sirene annunciano che il peggio è passato, che la ripresa è alle porte, persino che quest’ultima starebbe diventando “robusta”, come sostenuto nel marzo 2011 dalla Banca centrale europea. Ma in tre anni nessuna delle cause strutturali della crisi è stata affrontata. Certo al biennio 2008-2009 non ha fatto seguito un periodo altrettanto deflagrante, ma gli squilibri economici e sociali sono rimasti tutti. Persino gli eccessi della finanza a così breve tempo dalla loro detonazione sono tornati alla ribalta. «Speculatori all’assalto» titolava significativamente in prima pagina il 20 maggio 2011 persino un giornale che non brilla certo per spirito critico come l’Avvenire, annunciando «bolle all’orizzonte come nel 2008». Ecco allora riemergere la preoccupazione per un ritorno dei titoli a rischio oppure per la crisi del debito a fronte degli ingenti interventi degli ultimi anni sul fronte finanziario, preoccupazione esemplificata il 18 aprile 2011 dal declassamento per la prima volta del debito americano da stabile a negativo da parte dell’agenzia Standard & Poor’s. Oppure ancora il pericolo di un effetto domino per un possibile default della Grecia. Per non parlare del ritorno della crisi nel Giappone colpito dalla catastrofe nucleare o del temuto rallentamento dell’economia cinese per quella globale. A ciò si aggiunga la crisi sociale che rappresenta la più grave eredità della crisi economico-finanziaria, una crisi che continua a mietere le sue vittime approfondendo la polarizzazione tra le classi sociali, senza far intravvedere una ripresa concreta per la gran parte delle popolazioni. Complessivamente si ha la percezione di un modesto equilibrio faticoso da raggiungere e ancor più difficile da mantenere. La sensazione è quella di camminare al bordo di un
precipizio e, nonostante dopo ogni scivolone si risalga sul sentiero, sempre più acciaccati, non si riesce ad allontanarsi da questo percorso troppo stretto per evitare il pericolo che incombe.
Spesso le analisi economiche assomigliano a un coro propagandistico che tenta di infondere la tanto agognata fiducia, piuttosto che a una disamina di limiti complessivi e strutturanti che permangono ben oltre la timida ripresa di un momento. Riteniamo che il capitalismo sia tossico ben oltre i suoi titoli, sia
inadeguato a risolvere i problemi che ha creato (dall’ambiente alle diseguaglianze) e, soprattutto, che abbia avviato negli ultimi trent’anni un meccanismo infernale basato sulla competizione totale di cui non si vede la fine.
Dalle considerazioni appena svolte nasce questo testo che riflette attorno alla crisi economica e sociale odierna. La quantità di materiale sull’argomento naturalmente non manca, anzi c’è il rischio che la riproposizione dell’ennesimo testo soffra di una certa ridondanza e persino pedanteria. Nonostante questo
abbiamo perseverato nel tentativo di dare una lettura della crisi in quanto quelle incontrate per lo più non ci convincono. Troppo spesso si attestano su un’interpretazione superficiale degli eventi, dando spiegazioni contingenti a processi che trovano le loro ragioni in movimenti profondi del regime economico vigente,
scambiando sovente le cause con gli effetti, oppure finendo per scomodare categorie metafisiche, quali i difetti della natura umana, per dare ragione di eccessi e scorribande affermatesi in questi anni. Ma la radicalità della crisi e la sua dimensione globale ci fanno ritenere che non sarebbe stato sufficiente prevenire
alcuni inconvenienti tecnici o individuare alcune regole più lungimiranti per evitarla, e neppure che si possa risolverla con generici appelli per raddrizzare il «legno storto dell’umanità» di cui parlava Isaiah Berlin. Entrambi i tentativi appaiono come vie di fuga, modi per aggirare i problemi che questa crisi ci ha
messo di fronte.
Va precisato però che la nostra impostazione non intende misurarsi con performance accademiche o con chi ha la pretesa di elevare/ridurre l’economia a disciplina scientifica applicata, basata sull’uso di complesse funzioni matematiche. Il nostro punto di vista appartiene a quelli che ritengono l’economia in ultima istanza una scienza umana, ove non si può prescindere da variabili imprevedibili, umane per l’appunto, di contesto sociale e, perché no, antropologico, psicologico e… politico. In definitiva un punto di vista esterno all’economia stessa, che la guarda da fuori, per provare a leggerne i limiti, un punto di vista non professionistico e neppure tecnico o istituzionale, che nasce dal basso, nella sfera sociale e dell’impegno militante. La ricerca di alternative possibili e la critica sociale che abbiamo condotto in tanti anni si è sempre imbattuta in un limite che veniva descritto come invalicabile: l’economico. Senza un confronto diretto con
tale dimensione sembrava impossibile avanzare proposte praticabili e credibili. In parte ciò era e resta vero e pertanto abbiamo deciso di cogliere questa crisi per misurarci con una disciplina che appare, piuttosto che triste, spesso astratta, incomprensibile e preclusa ai più, soprattutto se questi sono lavoratori e lavoratrici,
disoccupati e disoccupate, classi subalterne in genere.
Un’estraniazione che non esclude il piccolo investimento finanziario, magari per compensare la riduzione/assenza di reddito, ma che non consente la comprensione dei meccanismi di fondo e una visione d’insieme del senso di marcia della sfera economica.
Nel Talmud ebraico c’è un detto che sostiene che quando si dice che una cosa è impossibile a farsi generalmente si nasconde il fatto che non la si vuole. Di frequente la critica sociale si scontra con le ragioni dell’economia, con le sue impossibilità, avvolte in un alone di pragmatismo e realismo che funge da deterrente a qualsiasi rimando a relazioni umane differenti da quelle esistenti.
L’economico si è fatto natura, le sue leggi non sembrano più neppure frutto dell’emanazione umana, ogni scelta è obbligata e vincolata alle meta-leggi della concorrenza e della competizione su scala sempre più estesa e allargata, leggi che fagocitano in maniera crescente l’intero pianeta.
La crisi di questi anni, invece, apre una nuova prospettiva per leggere questi fenomeni, incrinando, almeno sul piano dell’efficacia e della resa, le leggi economiche dominanti. Paradossalmente, che ciò avvenga nella fase di strapotere del capitale affermatasi dopo il crollo del comunismo rafforza potenzialmente le istanze critiche. L’attuale crisi consente di reinventare un progetto di cambiamento adeguato, privo di quelle contraddizioni e zavorre che hanno contraddistinto i primi tentativi di superamento del capitalismo. Tentativi che sovente hanno prodotto sistemi disumani e, in definitiva, perdenti. Si tratta, dunque, di provare a misurarsi con questa sfida, con le difficoltà profonde che incontra l’andare oltre il capitalismo. Nessuna banalizzazione, nessun rimpianto. La trasformazione sociale non potrà che svilupparsi dentro le contraddizioni contemporanee e attraverso una risposta articolata di liberazione incentrata su un nuovo umanesimo.
precipizio e, nonostante dopo ogni scivolone si risalga sul sentiero, sempre più acciaccati, non si riesce ad allontanarsi da questo percorso troppo stretto per evitare il pericolo che incombe.
Spesso le analisi economiche assomigliano a un coro propagandistico che tenta di infondere la tanto agognata fiducia, piuttosto che a una disamina di limiti complessivi e strutturanti che permangono ben oltre la timida ripresa di un momento. Riteniamo che il capitalismo sia tossico ben oltre i suoi titoli, sia
inadeguato a risolvere i problemi che ha creato (dall’ambiente alle diseguaglianze) e, soprattutto, che abbia avviato negli ultimi trent’anni un meccanismo infernale basato sulla competizione totale di cui non si vede la fine.
Dalle considerazioni appena svolte nasce questo testo che riflette attorno alla crisi economica e sociale odierna. La quantità di materiale sull’argomento naturalmente non manca, anzi c’è il rischio che la riproposizione dell’ennesimo testo soffra di una certa ridondanza e persino pedanteria. Nonostante questo
abbiamo perseverato nel tentativo di dare una lettura della crisi in quanto quelle incontrate per lo più non ci convincono. Troppo spesso si attestano su un’interpretazione superficiale degli eventi, dando spiegazioni contingenti a processi che trovano le loro ragioni in movimenti profondi del regime economico vigente,
scambiando sovente le cause con gli effetti, oppure finendo per scomodare categorie metafisiche, quali i difetti della natura umana, per dare ragione di eccessi e scorribande affermatesi in questi anni. Ma la radicalità della crisi e la sua dimensione globale ci fanno ritenere che non sarebbe stato sufficiente prevenire
alcuni inconvenienti tecnici o individuare alcune regole più lungimiranti per evitarla, e neppure che si possa risolverla con generici appelli per raddrizzare il «legno storto dell’umanità» di cui parlava Isaiah Berlin. Entrambi i tentativi appaiono come vie di fuga, modi per aggirare i problemi che questa crisi ci ha
messo di fronte.
Va precisato però che la nostra impostazione non intende misurarsi con performance accademiche o con chi ha la pretesa di elevare/ridurre l’economia a disciplina scientifica applicata, basata sull’uso di complesse funzioni matematiche. Il nostro punto di vista appartiene a quelli che ritengono l’economia in ultima istanza una scienza umana, ove non si può prescindere da variabili imprevedibili, umane per l’appunto, di contesto sociale e, perché no, antropologico, psicologico e… politico. In definitiva un punto di vista esterno all’economia stessa, che la guarda da fuori, per provare a leggerne i limiti, un punto di vista non professionistico e neppure tecnico o istituzionale, che nasce dal basso, nella sfera sociale e dell’impegno militante. La ricerca di alternative possibili e la critica sociale che abbiamo condotto in tanti anni si è sempre imbattuta in un limite che veniva descritto come invalicabile: l’economico. Senza un confronto diretto con
tale dimensione sembrava impossibile avanzare proposte praticabili e credibili. In parte ciò era e resta vero e pertanto abbiamo deciso di cogliere questa crisi per misurarci con una disciplina che appare, piuttosto che triste, spesso astratta, incomprensibile e preclusa ai più, soprattutto se questi sono lavoratori e lavoratrici,
disoccupati e disoccupate, classi subalterne in genere.
Un’estraniazione che non esclude il piccolo investimento finanziario, magari per compensare la riduzione/assenza di reddito, ma che non consente la comprensione dei meccanismi di fondo e una visione d’insieme del senso di marcia della sfera economica.
Nel Talmud ebraico c’è un detto che sostiene che quando si dice che una cosa è impossibile a farsi generalmente si nasconde il fatto che non la si vuole. Di frequente la critica sociale si scontra con le ragioni dell’economia, con le sue impossibilità, avvolte in un alone di pragmatismo e realismo che funge da deterrente a qualsiasi rimando a relazioni umane differenti da quelle esistenti.
L’economico si è fatto natura, le sue leggi non sembrano più neppure frutto dell’emanazione umana, ogni scelta è obbligata e vincolata alle meta-leggi della concorrenza e della competizione su scala sempre più estesa e allargata, leggi che fagocitano in maniera crescente l’intero pianeta.
La crisi di questi anni, invece, apre una nuova prospettiva per leggere questi fenomeni, incrinando, almeno sul piano dell’efficacia e della resa, le leggi economiche dominanti. Paradossalmente, che ciò avvenga nella fase di strapotere del capitale affermatasi dopo il crollo del comunismo rafforza potenzialmente le istanze critiche. L’attuale crisi consente di reinventare un progetto di cambiamento adeguato, privo di quelle contraddizioni e zavorre che hanno contraddistinto i primi tentativi di superamento del capitalismo. Tentativi che sovente hanno prodotto sistemi disumani e, in definitiva, perdenti. Si tratta, dunque, di provare a misurarsi con questa sfida, con le difficoltà profonde che incontra l’andare oltre il capitalismo. Nessuna banalizzazione, nessun rimpianto. La trasformazione sociale non potrà che svilupparsi dentro le contraddizioni contemporanee e attraverso una risposta articolata di liberazione incentrata su un nuovo umanesimo.
Nessun commento:
Posta un commento