di Haidi Giuliani, Liberazione
E' davvero difficile riuscire a raccontare in poche parole la storia della rete degli invisibili. Quando è cominciata? Forse, per me, una cinquantina di anni fa, quando ho partecipato per la prima volta ad una manifestazione, indetta in seguito all'uccisione di un ragazzo, schiacciato contro un muro da una camionetta delle "forze dell'ordine"; si chiamava Giovanni Ardizzone. O forse dopo che è stato ucciso mio figlio, dopo aver letto sui giornali che l'assassino era lui, che voleva violentare una povera camionetta indifesa.
Più guardavo le fotografie, i filmati, le tante testimonianze, più pensavo: «La verità non si può nascondere. Non si potrà ottenere giustizia ma la verità, quella è impossibile negarla». Avevo dimenticato il passato: le tante vittime di Stato, le stragi, i depistaggi, le trame oscure. Era già successo tutto, avevano già ucciso i nostri figli tante altre volte: da Portella della Ginestra a piazza Fontana, dalla stazione di Bologna a oggi, non solo sono stati violati i più elementari diritti costituzionali ma, in seguito, si è taciuto, nascosto, imbrogliato; non si è fatta verità. Sapevo tutto ma avevo dimenticato. E' stato allora che ho lasciato piazza Alimonda per andare a cercare quegli altri figli, per mettere insieme le loro storie, tutte diverse, ma unite tutte dal filo della non verità, della mancata giustizia. A gennaio sono a Milano, all'Università Bocconi, dove si ricorda uno studente modello, a cui la Polizia aveva sparato alla nuca; si chiamava Roberto Franceschi. E di nuovo a febbraio per un giovane colpito a morte, "per sbaglio", da un agente fuori servizio; si chiamava Luca Rossi. E ancora a marzo, quando conosco la mamma di Fausto Tinelli e la sorella di Lorenzo Iannucci. Prima viene Bologna, con il padre e gli amici di uno studente mirato alla schiena da un carabiniere, e dicono che in Italia non c'è la pena di morte; si chiamava Francesco Lorusso. A Pisa arrivo in una bella giornata di maggio, in cui si ricorda un giovane "figlio di nessuno" ridotto in fin di vita dalle botte di agenti in divisa ai margini di una manifestazione e lasciato morire senza cure in una cella; si chiamava Franco Serantini. Anche in quella piazza conosco persone straordinarie, come Teresa Mattei, compagni e compagne che avrei incontrato molte altre volte nel corso di questi anni alle manifestazioni per la pace, a dibattiti e convegni… Insomma, il calendario non mi basta. Manlio Milani, presidente dell'Associazione Vittime di Piazza della Loggia, a Brescia, osserva che il nostro è il Paese dei Comitati. Così penso di collegare in rete tutte le realtà che ancora fanno memoria e mi metto al lavoro; al primo incontro qualcuno dice che non si possono confondere le "vittime innocenti" con quelle che, in un modo o nell'altro, "se la sono andata a cercare". D'altra parte, c'è anche chi dice che non si possono confondere le "vittime consapevoli" con quelle "morte per caso"… continueremo ad essere un Paese di Comitati. Riesco tuttavia ad arrivare ad un accordo, confermato in incontri successivi in diverse città: la creazione di un sito comune, che verrà tenuto in vita dal lavoro volontario di alcune persone generose; una "banca dati" per chi vuole sapere, per chi vuole informarsi; una "voce" che insieme alla memoria continui a fare denuncia. Da parte di alcune nostre realtà esiste la volontà di costruire insieme iniziative che contribuiscono indubbiamente a rendere più visibili sia i fatti che le reti in cui sono stati ingabbiati. Nel frattempo, nel mio "calendario" si aggiungono altre date, altri nomi di giovani: qualcuno più noto all'opinione pubblica, qualcuno quasi sconosciuto. Per non parlare degli "invisibili" in assoluto, quei migranti respinti in mare, scomparsi nelle campagne o nei cantieri, nel buio di una cella, vittime di leggi incivili, vittime di Stato, come i nostri figli. Non sapremo mai neppure come si chiamavano.
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