LA SCIA D'APERTURA
La borsa e la vita,
le due crisi si toccano
Galapagos, il manifesto
Il comunismo è morto, il capitalismo trionfa, si sosteneva alcuni anni fa. I più intelligenti aggiungevano: il capitalismo (o se preferite, il libero mercato) è il sistema economico meno imperfetto. Oggi abbiamo la certezza che questo sistema fa schifo.
Dal 2008 è avvitato in una crisi spaventosa generata da una speculazione selvaggia alla quale nessuna organizzazione internazionale o stati nazionali è riuscita a porre argini. Una crisi costata migliaia di miliardi che sembrava risolta: l'economia aveva ripreso a crescere e le previsioni erano ottimiste. Ma quello al quale stiamo assistendo smentisce ogni previsione.
Il sistema globale è nel vortice di una nuova crisi finanziaria che rischia di produrre effetti disastrosi, peggiori di quella iniziata oltre 3 anni fa alla quale sono state messe «toppe» gigantesche che hanno contribuito a destabilizzare i conti di molti stati. Il salvataggio delle grandi banche - troppo grandi per essere lasciate fallire - e il loro temporaneo passaggio alla proprietà pubblica non è servito a nulla. O meglio è servito unicamente a riarmare la speculazione a darle certezza dell'impunità e la convinzione che i profitti erano destinati a tornare privati e le perdite a essere socializzate.
Quella che abbiamo di fronte è una crisi fiscale degli stati: l'impossibilità di onorare i debiti sovrani. È una crisi che coinvolge il centro dell'impero (gli Usa), le medie potenze (Italia e Spagna) e soprattutto piccoli paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia. E su questi paesi si accaniscono le società di rating (sostanzialmente tre colossi statunitensi) che danno - non richieste - giudizi feroci su i paesi che sono nei guai. Mentre in passato avevano fatto finta di non vedere che banche e società di grido erano sull'orlo del fallimento e ne suggerivano acquisti di azioni e prestiti di capitali. Ma sarebbe assurdo ridurre questa crisi a un fatto unicamente finanziario. Da un punto di vista ideologico la crisi nasce dall'anarchia del capitalismo e, in pratica. dall'incapacità degli stati di eliminare, o quantomeno ridurre, le sperequazioni nella distribuzione dei redditi. Che, anzi, con l'ultima crisi sono peggiorate. Di più: stiamo assistendo a una crescita sempre più condizionata dalle lobby delle imprese produttrici di armi che sottraggono risorse, pubbliche, a una crescita diversa. Quello che è peggio che tutte le soluzioni per uscire dalla crisi puntano non su una distribuzione dei redditi, ma su un peggioramento delle condizioni del lavoro e di vita di chi è già strangolato. Degli indici di borsa ci interessa poco, ma le condizioni di vita, degli italiani come dei greci, non possono essere decise dagli apologeti del capitalismo.
Dal 2008 è avvitato in una crisi spaventosa generata da una speculazione selvaggia alla quale nessuna organizzazione internazionale o stati nazionali è riuscita a porre argini. Una crisi costata migliaia di miliardi che sembrava risolta: l'economia aveva ripreso a crescere e le previsioni erano ottimiste. Ma quello al quale stiamo assistendo smentisce ogni previsione.
Il sistema globale è nel vortice di una nuova crisi finanziaria che rischia di produrre effetti disastrosi, peggiori di quella iniziata oltre 3 anni fa alla quale sono state messe «toppe» gigantesche che hanno contribuito a destabilizzare i conti di molti stati. Il salvataggio delle grandi banche - troppo grandi per essere lasciate fallire - e il loro temporaneo passaggio alla proprietà pubblica non è servito a nulla. O meglio è servito unicamente a riarmare la speculazione a darle certezza dell'impunità e la convinzione che i profitti erano destinati a tornare privati e le perdite a essere socializzate.
Quella che abbiamo di fronte è una crisi fiscale degli stati: l'impossibilità di onorare i debiti sovrani. È una crisi che coinvolge il centro dell'impero (gli Usa), le medie potenze (Italia e Spagna) e soprattutto piccoli paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia. E su questi paesi si accaniscono le società di rating (sostanzialmente tre colossi statunitensi) che danno - non richieste - giudizi feroci su i paesi che sono nei guai. Mentre in passato avevano fatto finta di non vedere che banche e società di grido erano sull'orlo del fallimento e ne suggerivano acquisti di azioni e prestiti di capitali. Ma sarebbe assurdo ridurre questa crisi a un fatto unicamente finanziario. Da un punto di vista ideologico la crisi nasce dall'anarchia del capitalismo e, in pratica. dall'incapacità degli stati di eliminare, o quantomeno ridurre, le sperequazioni nella distribuzione dei redditi. Che, anzi, con l'ultima crisi sono peggiorate. Di più: stiamo assistendo a una crescita sempre più condizionata dalle lobby delle imprese produttrici di armi che sottraggono risorse, pubbliche, a una crescita diversa. Quello che è peggio che tutte le soluzioni per uscire dalla crisi puntano non su una distribuzione dei redditi, ma su un peggioramento delle condizioni del lavoro e di vita di chi è già strangolato. Degli indici di borsa ci interessa poco, ma le condizioni di vita, degli italiani come dei greci, non possono essere decise dagli apologeti del capitalismo.
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