di Francesco Piccioni
su il manifesto del 30/07/2011
«Non so se essere più contento o incazzato: l'abbiamo detto e ripetuto ogni giorno per almeno 10 anni». Il cassintegrato Alitalia bestemmia ascoltando la notizia che i parte dei vertici della compagnia, al comando tra il 2001 e il 2007, ha ricevuto l'avviso che precede il rinvio a giudizio. Per bancarotta, a seconda dei casi, «dissipativa» o «distrattiva».
Sette nomi in tutto. Alcuni molto noti, come Gianfranco Cimoli (presidente e amministratore delegato) e il successore Francesco Mengozzi (soltanto a.d., fino al 2007). Poi Gabriele Spazzadeschi (ex direttore generale dell'amministrazione e finanza), Pierluigi Ceschia (finanza straordinaria), Gennaro Tocci (acquisti per la flotta), fino a due funzionari (Giancarlo Zeni e Leopoldo Conforti).
Il due pm - Francesca Loy e Stefano Pesci - hanno ravvisato «dissipazione di beni aziendali, ingentissimi danni patrimoniali, pregiudizio per creditori e obbligazionisti». Il tutto «attraverso attività e operazioni abnormi sotto il profilo economico». Non basta. Oltre a sconquassare l'Alitalia, questi personaggi hanno anche «dissipato risorse pubbliche e private perché incidenti in maniera estremamente rilevante sul patrimonio sociale pur essendo inesistente la prospettiva di vantaggi per la società». Al solo Cimoli - di cui va ricordato anche l'analogo «risanamento» delle Ferrovie dello stato - vengono contestati anche due episodi di aggiottaggio (false comunicazioni al mercato; l'azienda era allora quotata in borsa) a proposito dello spinf off tra Alitalia Fly e Alitalia Servizi («privo di intrinseche giustificazioni economiche») e per la «manifestazione di interesse» per Volare Group.
Quest'ultima - compagnia con proprietà leghista, basata a Gallarate, ben presto andata a rotoli - fu poi acquisita da Alitalia per 38 milioni di euro, cifra ritenuta dai magistrati «incongrua e irragionevole» (AirOne, prima di finire «fusa» con la compagnia di bandiera al momento della «privatizzazione» del 2008, aveva offerto molto di meno). Ma bisognava garantire i 707 dipendenti per almeno 24 mesi, in modo da far fare una figura un po' meno barbina ai leghisti (Maroni era in quel momento ministro del lavoro; firmò a tempo di record il decreto per la cassa integrazione, quando per il settore aereo non era ancora prevista).
Tra le perle. il buco del settore Cargo (dove tenevano 135 piloti per 5 aerei); l'affitto per oltre 6 milioni di due aerei in precedenza venduti per 3; una consulenza per «ristrutturare l'azienda» pagata a McKinsey la bellezza di 50 milioni. Tutto veniva fatto «in perdita» per la compagnia. In pratica: un volontario e pianificato smantellamento di Alitalia per portarla passo passo all'esito finale: la privatizzazione, a prezzi stracciati, a una «cordata» di imprenditori che fanno soldi con le concessioni pubbliche. Magari in attesa di cederla definitivamente ad Air France.
L'unico motivo di soddisfazione (postumo) per i diecimila tra cassintegrati e licenziati è che «crolla il castello di carte che, con l'aiuto dei media padronali, accusava i dipendenti di avere così tanti 'privilegi' da esser loro i veri responsabili del dissesto». Magari con una class action potrebbe almeno puntare a un minimo di risarcimento...
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