di Stefania Corucci - Megachip.
Tra le motivazioni dello sciopero generale indetto il 6 maggio scorso dalla CGIL risaltava la difesa del contratto nazionale di lavoro. Tanti lavoratori e lavoratrici vi hanno aderito fiduciosi della necessità di condurre questa battaglia. A distanza di un mese è mezzo è arrivata la verità: quello sciopero era una finzione, come alcune voci critiche avevano già segnalato, e l’accordo sottoscritto il 28 giugno con Confindustria, CISL e UIL ne è la conferma.
Nella premessa dell’accordo l’intero sistema delle relazioni industriali è ridisegnato in funzione del criterio della competitività e della produttività. L’accenno al rafforzamento dell’occupazione e delle retribuzioni come il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone è pura facciata perché i fatti di questi anni hanno dimostrato che competitività, occupazione e diritti sono inconciliabili. Infatti, poche righe dopo la premessa, i diritti superstiti sono demoliti:-
sul contratto nazionale, si stabilisce il principio che solo chi ha più del 5% delle deleghe e dei voti nelle Rsu, può andare a trattare. Gli accordi aziendali sono validi se approvati dalla maggioranza della RSU (rappresentanza sindacale unitaria eletta dei lavoratori) e la minoranza ha l’obbligo di accettare l’accordo.
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Non si riconosce il voto dei lavoratori e delle lavoratrici se non quando in azienda vi sono le RSA (rappresentanza sindacale aziendale nominata direttamente dai sindacati) e per rimettere in discussione un contratto saranno necessarie il 30% di firme dei lavoratori dell’azienda al fine di indire un referendum che sarà valido solo con la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto.
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L’intesa prevede la derogabilità rispetto al contratto nazionale, su materie di primaria importanza come gli orari, l’organizzazione del lavoro e quindi l’aumento dei ritmi, la velocità della catena, la durata della giornata lavorativa.
Tutti gli osservatori (dai politologi ai sindacalisti) concordano su un punto: si tratta di una svolta storica. Il Sole 24 Ore commenta: «Una firma che apre un’era: un accordo che segna un passaggio storico nelle relazioni industriali e che riguarda la rappresentatività delle sigle sindacali e l’esigibilità dei contratti aziendali».
In cosa consista la storicità di questo passaggio lo ha spiegato con chiarezza Cremaschi: «questo accordo cambia la natura del sindacato, cambia la natura della Cgil, distrugge la libertà e l’autonomia della contrattazione ai vari livelli mentre stabilisce un sistema burocratico aziendalistico governato dalle imprese e dagli accordi corporativi con le grandi confederazioni».
Quello cui oggi assistiamo è un potere imprenditoriale che non tollera più alcuna forma di controllo o condizionamento: non tollera più la legalità e le sue regole, né mediazioni con le esigenze della vita delle persone, né limitazioni che salvaguardino i beni comuni (non a caso si vuole modificare l’art. 41 della Costituzione: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»).
Un potere imprenditoriale che attraverso la casta politica ha fatto terra bruciata di qualsiasi valore civile e sociale. I sindacati confederali, oggi, hanno apposto la loro firma a questo devastante progetto.
L’analisi di Cremaschi è giusta, ma le analisi si fanno per trarne le conseguenze, e anche i lavoratori devono trarne le conseguenze, in forma democratica. Tenere in tasca la tessera di uno di questi sindacati significa avallare e controfirmare questo accordo.
È un passaggio difficile, proprio perché storico: non si può continuare a giocare una partita truccata. Il mondo del lavoro dovrà esprimere nuove forme di rappresentanza e aprire davvero una nuova era, quella del lavoro inteso come bene comune.
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