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Mentre
sul fronte delle politiche economiche si muove in sostanziale
continuità con Monti, è sul terreno delle riforme costituzionali che il
governo delle "larghe intese" dimostra un’insolita - e originale -
determinazione. Del resto invocare l’istituzione di regimi presidenziali
in tempi di crisi, fino all’attribuzione di poteri dittatoriali al
mitico “uomo forte”, non è una novità, come ben sappiamo, nella nostra
Europa (patria del diritto, ma anche delle peggiori nefandezze e
mostruosità).
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Mentre
il nuovo segretario del Pd Guglielmo Epifani incassa l’assenso della
Direzione del suo partito con soli sei astenuti, sulla base della
dichiarazione che la discussione sulle riforme costituzionali va fatta
in Parlamento e che bisogna tenere fuori sia il governo che la
Presidenza della Repubblica, accade esattamente il contrario. Un caso di
mala informazione? Non credo è che ormai le parole hanno perso di
significato. In effetti il Pd aveva già votato, assieme al Pdl e
approvato una mozione che impegnava il governo a presentare una modifica
dell’articolo 138 per affrettare il dibattito parlamentare sulle
riforme. Dal canto suo Napolitano aveva già dettato i tempi e i ritmi
della discussione parlamentare, mentre Enrico Letta procedeva alla
nomina di 35 esperti, con qualche presenza di sinistra per dividere il
fronte, al fine di “confortare” il governo durante l’iter della riforma
della seconda parte della Costituzione e della legge elettorale.
Se
sul terreno delle riforme costituzionali il governo Letta mostra
un’insolita determinazione, su quello delle politiche economiche la
continuità è indubbiamente il tratto caratteristico che lo unisce al
governo Monti. Se ne vedevano i segnali ante litteram: infatti non era
difficile, per come si stavano predisponendo le cose, scommettere su una
ultrattività del programma montiano al di là delle vicende e delle
sorti politico-elettorali non travolgenti del suo alfiere.
La
ragione di fondo sta nel fatto che tanto Monti quanto Letta si sono
mossi e si muovono dichiaratamente entro il perimetro programmatico
stabilito dalla nuova governance europea fin dalla famosa lettera della
Bce al morente governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011. Da
allora il percorso è segnato, con binari molto rigidi, al punto che la
frase pronunciata dal Presidente della Banca centrale europea, a
proposito della inessenzialità dell’ultimo esito elettorale italiano, è
diventata paradigmatica per descrivere l’assenza di autonomia
decisionale dei governi degli stati nazionali europei. Vi è comunque un
“pilota automatico”, costituito dal sistema di decisioni assunte in sede
Ue, che va sempre più precisandosi di condizioni, di vincoli, di
“paletti”, di obiettivi da raggiungere inderogabilmente, tali da
espropriare la facoltà programmatoria di qualunque governo europeo,
senza che a questa se ne sostituisca un’altra democraticamente
determinata e agita in sede comunitaria.
Al micidiale fiscal compact si è aggiunto il Two Pack
che affida agli organi di governo della Ue un intervento preventivo
sulla formazione dei bilanci dei singoli paesi membri dell’Eurozona,
ovvero sulle cosiddette leggi di stabilità, esautorando completamente i
parlamenti nazionali, ma anche i rispettivi esecutivi, della potestà in
materia di bilancio, uno dei terreni principali su cui si esercita la
capacità di governo. Leggendo le dichiarazioni programmatiche del nuovo
Presidente del Consiglio, le interviste rilasciare dal ministro
dell’economia Saccomanni, nonché le Considerazioni finali di Ignazio
Visco all’assemblea annuale di Bankitalia, non si può non condividere
l’amara considerazione che Giorgio La Malfa ha consegnato al Sole 24 Ore:
“le nostre autorità di politica economica pensano che non ci sia nulla
da fare nell’immediato tranne che mettere a posto i conti”. Il che
equivale a condannare il paese alla recessione in corso da diversi
trimestri, al punto da doversi chiamare più propriamente depressione.
Bruxelles non fa regali
D’altro
canto, anche la sospirata chiusura della procedura di infrazione per
deficit eccessivo, aperta contro l’Italia nel 2009, che avrebbe dovuto
essere l’unica vera carta nella manica del neonato governo Letta per
ridare fiato a una certa capacità di spesa, avviene con una serie di
condizioni, precisamente sei, che entrano nel vivo delle scelte di
politica economica del nostro paese, senza peraltro che ci sia alcun
margine di flessibilità di bilancio per attuare investimenti
“strutturali” se non forse nel 2014.
Intanto l’Ocse taglia le
stime per l’Italia, giudicando che la frenata del 2013 sarà superiore
alle previsioni: -1,8% anziché –1% stimata solo pochi mesi fa. Sono solo
tre paesi dell’Eurozona fare peggio di noi, naturalmente la povera
Grecia (- 4,8%), il Portogallo (-2,7%) e la sempre più traballante
Slovenia (-2,3%). Conseguentemente il tasso di disoccupazione italiano
(al netto dei cassintegrati senza ritorno e degli scoraggiati a cercare
lavoro) dovrebbe passare dall’11,9% al 12,5% ( ma la disoccupazione
giovanile, secondo Eurostat, ha superato il 40%, tanto da essere
definita “drammatica” dal Presidente della Confindustria); mentre la
crescita del debito continuerebbe inesorabile, attestandosi al 131,7%
del rapporto debito/Pil per raggiungere il 134,3% nel 2014 (le
previsioni della Commissione europea su quest’ultimo punto sono
inferiori e si fermano al 132,2%, considerando solo il pagamento dei
debiti pregressi della Pubblica Amministrazione). Le previsioni
contenute in un recente studio della Cgil sono ancora più fosche, poiché
prevedono che si possano recuperare i livelli antecrisi solo fra 63
anni!
Ovvero i vincoli sono rispettati, ma l’economia e
l’occupazione sono in picchiata e quindi il paese sta morendo.
Previsione del resto non difficile da fare. Un economista come Paolo
Savona, di solito non particolarmente critico, si domanda su quali basi
la Commissione europea possa giungere a conclusioni così “folli” quali
quelle di pretendere che il nostro paese rientri dal crescente debito
destinando ad esso tutti gli avanzi di bilancio, su cui l’Italia,
assieme alla Germania - la cui economia reale è però in ben altre
condizioni -, è il paese più stupidamente virtuoso nell’Eurozona. Il
nostro avanzo primario si aggira infatti sul 2,5% e ultimamente i tassi
di interesse sui titoli di Stato sono scesi al minimo degli ultimi dieci
anni. Ma se non si approfitta di questo per rilanciare gli investimenti
in settori innovativi e la domanda interna di nuove tipologie di
consumo, la situazione andrà di male in peggio.
Tra le sei
raccomandazioni che accompagnano la cassazione della procedura per
disavanzo eccessivo, ve ne sono due che entrano nel vivo del dibattito
politico ed economico del nostro paese e che sono esplicitamente volte a
condizionare le soluzioni da dare ad alcune questioni ancora aperte.
La
prima riguarda il tema del mercato del lavoro. Il Consiglio europeo
raccomanda naturalmente di “dare attuazione effettiva alle riforme del
mercato del lavoro … per permettere un migliore allineamento dei salari
alla produttività”. Come è noto sostenere questo obiettivo significa
spostare la contrattazione salariale là dove si determinerebbe
l’incremento di produttività, ovvero a livello aziendale. Il che
comporta un’ulteriore spinta alla liquidazione del contratto collettivo
nazionale di lavoro.
La seconda raccomandazione che può avere
un’immediata incidenza su imminenti scelte che il nostro governo è
chiamato fare, concerne la questione fiscale. Nel documento del
Consiglio si legge che bisogna “trasferire il carico fiscale da lavoro e
capitale a consumi, beni immobili e ambiente” quindi “rivedere l’ambito
di applicazione delle esenzioni e aliquote ridotte dell’Iva e delle
agevolazioni fiscali dirette”. In altre parole il Consiglio fa
pressione sul governo italiano affinché sciolga le sue perplessità, vere
o di facciata che siano, a proposito dell’aumento dell’Iva, il che
contraddice ogni proposito di rilancio della domanda interna. Si va
quindi verso l’aumento già previsto per luglio, malgrado che
l’esperienza passata sia sufficientemente chiara al riguardo. La Cgia di
Mestre ci ricorda infatti che con l’ultimo aumento dell’aliquota
ordinaria dell’Iva (quella che insiste su consumi di larga diffusione),
passata dal 20 al 21% nel 2011, il gettito fiscale è diminuito di 3,5
miliardi a causa della contrazione della spesa. Come dovrebbe essere
ovvio l’incremento della tassazione sui consumi ottiene un effetto
opposto a quello desiderato, cioè diminuisce le entrate fiscali dello
stato e nel contempo deprime l’economia reale.
Un governo forte o debole?
I
margini di manovra del governo sul fronte della politica economica sono
quindi assai stretti per non dire inesistenti. Non vi è neppure
l’illusione di un qualche tesoretto cui potere attingere. La continuità
nella politica economica fra Monti e Letta, sancita dal “bollino” della
Ue è quindi garantita, ma in una situazione che vede un peggioramento
del condizioni dell’economia reale a fronte di un miglioramento, dovuto
principalmente a fattori esogeni, del quadro contabile.
Ci si
può porre allora la stessa domanda che ci eravamo posti con il governo
Monti. Dove sta la loro forza? La risposta è più o meno analoga. In
primo luogo risiede nell’essere entrambi i governi niente altro che
un’articolazione del nuovo sistema di governance europea. In secondo
luogo dal non incontrare un’opposizione politica in grado di costruire
ad essi un’alternativa. In terzo luogo dal fatto che l’opposizione
sociale fatica ad assumere quelle caratteristiche di un largo, diffuso,
articolato e determinato movimento di massa in grado di mettere in
pericolo la sopravvivenza di questo governo.
La sua fragilità è
tutta interna, ossia determinata dalla litigiosità delle sue componenti,
che potrebbe essere ulteriormente alimentata, fino all’implosione,
dalle prossime decisioni della Magistratura in merito ai processi in
corso contro il Cavaliere. Ma, al netto delle pesanti e peculiari
vicende giudiziarie, questo è un pericolo implicito in tutti i governi
di coalizione. Più questa è larga, più aumentano le possibilità di
frizioni e conflitti tra i vari componenti. Casomai si può notare che in
questo caso la conflittualità si sviluppa con particolare astiosità più
all’interno dei singoli partiti della coalizione che non fra di loro.
Quanto
avviene nel Pd in particolare lo dimostra appieno. Ormai questo partito
è un congresso permanente a cielo aperto, ove i ruoli dei singoli
leader di correnti si intersecano con le loro posizioni all’interno del
governo. Prova ne sia l’incertezza che pare avere nuovamente assalito
Matteo Renzi: è meglio puntare a diventare il prossimo Presidente del
Consiglio o il prossimo segretario del Partito democratico?
La volontà degli elettori è stata tradita, ma l’esito era già prevedibile
Essendo
la questione europea quella prevalente nel motivare e sorreggere questo
governo, molto dipenderà anche dall’andamento delle elezioni tedesche
del 22 settembre. Ma è difficile aspettarsi da queste una svolta
significativa. Sia perché la posizione della Merkel non appare
particolarmente minacciata, sia perché il suo avversario - il candidato
socialdemocratico alla carica di cancelliere Peer Steinbruck, che fu
ministro nel governo di coalizione presieduto dalla stessa Merkel - non
intende avanzare grandi alternative alla politica fin qui seguita dalla
Germania. E’ possibile quindi che anche in questo paese ritorni la
Grosse Koalition che governò tra il 2005 e il 2009, consolidando
ulteriormente la tendenza a convergenze tra le più grandi forze
partitiche, presente in più parti nella Ue, con conseguente tentativo di
assoluta marginalizzazione delle opposizioni. E’ vero che Hollande,
preoccupato per la caduta verticale del proprio appeal all’interno e
all’esterno del paese, sta ultimamente rilanciando il discorso di
un’Europa politica e solidale, capace di promuovere una “convergenza
sociale”, ma, a parte il carattere fumoso della sua proposta (il che non
ha evitato una certa irritazione a Berlino), la sua credibilità non è
alta, dopo avere trangugiato il fiscal compact dimenticandosi quanto
detto in campagna elettorale.
Diversi commentatori hanno messo in
luce il fatto che il governo di larghe intese, ovvero l’inciucio con
Berlusconi per dirla più volgarmente, sia stato un tradimento delle
esplicite volontà espresse attraverso il voto dal corpo elettorale
dell’uno e dell’altro partito. In effetti se l’atteggiamento nei
confronti del centro montiano è stato ambiguo su entrambi i fronti, la
campagna elettorale ha campato sulla contrapposizione al berlusconismo,
soprattutto quando è apparso chiaro che il rientro in campo di Silvio
Berlusconi avrebbe potuto, come infatti è puntualmente accaduto,
rivitalizzare in modo determinante il suo avvizzito schieramento. Come
non c’è dubbio che questa nuova “miracolosa” rimonta è avvenuta
risfoderando i temi classici di un anticomunismo che sopravvive a sé
stesso, mischiato con un marcato populismo di destra antiausterity.
Per
cui si coglie certamente una parte della verità, quando si dice che la
Grosse Koalition delude buona parte delle aspettative dei rispettivi
elettorati. Cosa probabilmente manifestatasi anche nell’aumento
impressionante delle astensioni nelle elezioni amministrative del 26 e
27 maggio. Ma un’analisi fondata solo su questo non coglierebbe le
tendenze di fondo del quadro europeo che da tempo spingono in molti
paesi verso soluzioni di ampie coalizioni nella speranza di soffocare
ogni espressione di diversità e di opposizione e al fine di insediare
governi che siano più funzionali a gestire una politica etero diretta e
antipopolare che viene data per l’unica possibile. Da questo punto di
vista l’esecutivo “tecnico” di Mario Monti, con l’appoggio “esterno” di
Pd e Pdl ha rappresentato la prova generale per un più organico
coinvolgimento delle maggiori forze in un governo di larghe intese. E si
deve anche aggiungere che Giorgio Napolitano ha lavorato con grande e
determinazione e lucidità, sebbene mal riposte, a un simile esito fin
dal suo inizio.
In cosa differiscono i governi Monti e Letta
Una
volta messa in luce la sostanziale continuità fra Monti e Letta, dentro
un percorso che come abbiamo visto non è stagnante, non bisogna però
sottovalutare anche la differenza fra i due governi e fra le stesse
figure dei Presidenti del Consiglio, uniti però dalla comune presenza
nel board europeo della Trilateral Commission.
La
diversità fra i due governi non sta nella politica perseguita ma nella
loro composizione. Per quanto al lato pratico il carattere tecnico del
governo Monti sia stato solo una finzione, una foglia di fico per
coprire politiche con alto tasso di impopolarità, è pur vero che un
conto è l’appoggio delle due principali forze politiche a un Esecutivo
di figure strappate al mondo delle Università o della Pubblica
Amministrazione e un altro è la partecipazione diretta e in prima
persona delle principali figure politiche di spicco dei partiti a capo
dei ministeri.
Questa condizione rende il governo Letta più
ambizioso del precedente nei suoi progetti programmatici e realizzativi.
Insomma un governo veramente costituente, per usare quasi le stesse
parole del suo relativamente giovane Presidente. Se il governo Monti si
era assunto, purtroppo con successo, il compito di introdurre nel nostro
ordinamento legislativo e nella Costituzione le nuove norme in materia
di bilancio dettate dalla governance europea, oltre quello di
disarticolare il quadro politico esistente, l’attuale governo si propone
di attaccare il corpo grosso della Costituzione stessa. L’accento
posto, in piena e totale intesa con Napolitano, sulla riforma della
seconda parte della carta costituzionale lo dimostra ampiamente.
La
stessa durata del governo, diciotto mesi a partire dall’ inizio del
percorso legislativo di revisione costituzionale, viene traguardata ad
una verifica degli esiti di quel singolare e incostituzionale percorso
di riforma della Costituzione che è stato avviato con la mozione
presentata dai partiti della maggioranza e approvata nello stesso testo
da entrambe le camere. Ma nulla vieta, al di là delle attuali
schermaglie, che, se l’esito di un simile percorso verrà giudicato
positivo, il governo prolunghi ancora la sua esistenza. Il carattere a
termine del governo è insomma più virtuale che reale, dal momento che la
sua soglia temporale è fluttuante e condizionata all’ottenimento o meno
di determinati risultati.
Diventa quindi persino interessante
tenere conto della diversità delle biografie delle due figure
presidenziali, in quanto indicativa delle diverse potenzialità delle
operazioni politiche da queste guidate.
Il mito della “pacificazione culturale”
Di
Letta si sottolinea sempre la parentela con il fin qui più famoso
Gianni Letta. Ma non è certo questo l’elemento interessante, quanto
invece lo è l’internità della carriera politica di Enrico Letta ad una
Democrazia Cristiana che cominciava il suo storico e irreversibile
declino. Nel corso di questa carriera, Letta ha saputo costruire una
mirabile reti di rapporti politici e di relazioni personali, sul piano
interno, ma anche su quello internazionale, caratterizzate da una
marcata trasversalità e da un’attenzione privilegiata nei confronti dei
centri studi e dei think tank del capitalismo nostrano e internazionale.
Della sua partecipazione alla Trilateral ho già detto, ma
altrettanto significativa e costante è la sua attenzione verso centri
studi sia domestici che internazionali, tutti piuttosto prestigiosi.
Letta dirige la Agenzia di Ricerche e Legislazione (Arel) fondata da Nino Andreatta; è il vice di Giulio Tremonti nella direzione dell’Aspen Institute Italia, un’articolazione di un autorevole network internazionale nato negli Usa nel 1950; è co-chairman del British Council,
potente motore di iniziative culturali in tutto il mondo fondato nel
Regno Unito nel 1934; naturalmente è anche membro del Consiglio di
Amministrazione della Fondazione ItalianiEuropei fondata da Massimo
D’Alema e Giuliano Amato. Non contento di tutto questo sistema di fitte
relazioni, Letta ha dato vita a due proprie creature: Vedrò, una sorta di mini think tank bipartisan, nato nel 2005 a Drò in Trentino e l’Associazione Trecentosessanta gradi, nata nel 2007 sull’onda delle primarie del Pd.
L’immagine
di Enrico Letta è dunque quella di un politico puro che ben conosce la
necessità di stabilire un’egemonia culturale su cui porre le basi delle
proprie fortune politiche ben al di là dei confini slabbrati
dell’attuale sistema partitico e ben oltre il territorio nazionale. Di
lui ha parlato diffusamente Filippo Andreatta, figlio di Beniamino,
qualche settimana fa al Foglio, cogliendo un tratto
caratteristico della figura di Letta, di cui è coetaneo. Entrambi, come
pure Giulio Napolitano, il giurista figlio del capo dello Stato, sono
“ragazzi degli anni sessanta”, ovvero persone che non hanno vissuto né i
sommovimenti utopici del sessantotto, né le lacerazioni del ’77 e
sarebbero così rimasti estranei a ogni infatuazione ideologica.
Secondo
Filippo Andreatta il fatto che la sua generazione “sia arrivata al
governo” costituisce “una grande chance per imporre un regime di
pacificazione culturale”, in quanto “il quarantenne di oggi è davvero il
simbolo della prima vera generazione post-ideologica”. Naturalmente in
queste parole vi è tutta la sottovalutazione, fino all’incomprensione,
dell’influenza del “pensiero unico”, propalato nella fase montante della
globalizzazione capitalistica, sulla formazione di quelle generazioni
oggi quarantenni, ma indubbiamente la figura di Letta risponde bene a
una sorta di impasto tra la vecchia tradizione democristiana, intesa
solo come tecnica di governo e di relazioni e deprivata di ogni tensione
sociale e ansia del futuro - che fu presente nella corrente morotea cui
apparteneva Nino Andreatta – ed un certo cinismo ideologico e
pragmatismo politico, che lo rende funzionale alla gestione
dell’esistente.
La “pacificazione culturale” di cui Andreatta
jr. parla va intesa in senso tacitiano, ovvero come desertificazione di
ogni spirito conflittuale e persino riformatore. Pare trovare però più
adepti a sinistra che a destra, visto che su questo secondo versante si
sta addirittura costruendo “l’esercito di Silvio”, un corpo di
fedelissimi berlusconiani, dai compiti poco chiari ma dal torvo
linguaggio militaresco. La “pacificazione culturale” di cui si parla è
piuttosto una “amnesia indotta”, per dirla con le parole di Gustavo
Zagrebelsky. Nello stesso tempo costituisce l’elemento necessario, il background
culturale per dare fondamento e stabilità, almeno nelle intenzioni, ad
un’operazione come quella della Grosse Koalition all’italiana. Un primo
effetto di questa ricerca della pacificazione è l’enfasi posta
sull’accordo tra le parti sociali in materia di rappresentanza sindacale
– il cui merito certamente controverso qui non posso approfondire –
definito come una svolta storica attesa da più di sessant’anni.
Il presidenzialismo
Si
può dire che nell’accordo trovato tra le parti sociali il governo
c’entri relativamente o solo indirettamente. Mentre è certamente il
protagonista della modifica della seconda parte della Costituzione che
costituisce l’hard core della sua missione. Le mozioni
approvate in testo identico nei due rami del parlamento non lasciano
dubbi al riguardo. Esse impegnano il governo a presentare alle camere
entro il mese di giugno di quest’anno un disegno di legge costituzionale
di modifica dell’articolo 138, che stabilisce le modalità per le
modifiche della Costituzione, al fine di attuare una procedura “più
snella” per l’approvazione delle proposte di riforma.
Le novità
che verranno introdotte riguardano essenzialmente la costituzione di un
“bicameralina”, costituita da venti deputati e altrettanti senatori,
scelti dai gruppi tra i facenti parte le rispettive Commissioni Affari
costituzionali; questo organismo avrà il compito di avanzare progetti
compiuti di riforma dei Titoli I, II, III e V della parte seconda della
Costituzione che afferiscono alla forma dello Stato, a quella del
Governo, e all’assetto bicamerale del Parlamento; dovrà altresì fornire
proposte di riforma dei sistemi elettorali. Le Assemblee di Camera e
Senato esamineranno i testi varati dalla bicameralina, con possibilità
di emendamento, ma entro tempi definiti in modo da non sforare la durata
complessiva di 18 mesi; la facoltà di chiedere un referendum
confermativo delle leggi di revisione costituzionale verrà garantita
anche in caso di approvazione delle stesse con una maggioranza superiore
ai due terzi. Il lavoro della bicameralina verrà affiancato da un non
meglio precisato comitato di esperti, istituito dal governo, sia sulle
materie di riforma costituzionale che di riforma elettorale.
E’
la prima volta che viene delineato un così ampio e organico disegno di
revisione costituzionale. D’altro canto, come hanno sottolineato molti
costituzionalisti, toccare la seconda parte della Costituzione non
significa affatto lasciare inalterata la prima, poiché i diritti
contenuti in quest’ultima per trovare applicazione necessitano degli
istituti definiti nella seconda. Se, per fare l’esempio più semplice,
vengono mutati la composizione, il ruolo e il peso del Parlamento
nell’equilibrio con gli altri poteri, cambia anche la valenza dei
diritti politici dei cittadini previsti nel Titolo IV della parte prima
della Costituzione.
Nel merito l’obiettivo è abbastanza chiaro:
trasformare il nostro sistema in presidenziale o semipresidenziale che
dir si voglia, ridurre il ruolo del potere legislativo a favore di
quello esecutivo, incrementando i poteri del governo a scapito di quelli
del Parlamento, curvare in senso ancora più marcatamente maggioritario
la legge elettorale. Fin troppo rivelatrice è stata la dichiarazione di
Enrico Letta sulla impossibilità di continuare a eleggere il capo dello
Stato nello stesso modo con cui si è arrivati alla seconda elezione di
Napolitano. Il clamoroso fallimento della politica e dei partiti,
incapaci di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, viene presa
come giustificazione per l’introduzione dell’elezione diretta del capo
dello stato, con grande gioia di Alfano, buona disponibilità di
Epifani e con la benedizione di Romano Prodi.
La tendenza a
invocare l’istituzione di regimi presidenziali in tempi di crisi, fino
all’attribuzione di poteri dittatoriali al mitico “uomo forte”, non è
una novità, come ben sappiamo, nella nostra Europa, patria del diritto,
ma anche delle peggiori nefandezze e mostruosità. Ormai le forze di
governo, senza apprezzabili differenziazioni interne, si muovono con
decisione per unire l’ideologia del maggioritario con quella del
presidenzialismo, per creare a livello di opinione pubblica la
convinzione – già criticata migliaia di anni fa a cominciare da Platone e
Aristotetele – che il governo degli uomini sia meglio di quello delle
leggi. I primi possono essere puri politici o tecnici, purché
tendenzialmente si riducano a uno solo.
Come ci ricordava Luigi
Ferrajoli qualche anno fa, ai tempi della prima Bicamerale presieduta da
Massimo D’Alema, questo argomento fu oggetto di una famosa polemica,
all’inizio degli anni Trenta dello scorso secolo, fra Hans Kelsen, il
più grande giurista del Novecento e Carl Schmitt, il filosofo della
politica che finì per aderire al nazismo. Quest’ultimo sosteneva
apertamente tesi antiparlamentari e presidenzialistiche, contrapponendo
allo “smembramento politico” del corpo sociale espresso dal parlamento,
il carattere unitario ed organico che la rappresentanza potrebbe
assumere ad opera di un Presidente eletto direttamente dal popolo.
Kelsen replicava che un organo monocratico, per di più svincolato da un
rapporto permanente con la sua base elettorale, non può intrinsecamente
rappresentare la pluralità delle forze e degli interessi in conflitto
nella società, ma al massimo solo la parte vincente nelle elezioni.
Ovvero implementare e codificare una dittatura della maggioranza, potrei
aggiungere, la quale peraltro potrebbe divenire tale anche
semplicemente approfittando dell’elevata astensione vista la crescente
disaffezione popolare verso una simile politica. Per Kelsen “l’idea di
democrazia implica assenza di capi”.
Opporsi a questo disegno è necessario e possibile
Parole
lontane e dai più dimenticate. Così come si cerca di sprofondare
nell’oblio l’esito del referendum costituzionale tenutosi il 25 e il 26
maggio del 2006, quando la maggioranza effettiva degli italiani – pur
non essendo in questo caso previsto il quorum votò la maggioranza degli
aventi diritto – respinse la corposa revisione costituzionale votata dal
centrodestra che prevedeva una enorme estensione di poteri del
Presidente del Consiglio, il cosiddetto “premierato”. Quando si tratta
di esiti referendari l’italica ipocrisia raggiunge vette impensabili. In
sostanza si ricorda solo ciò che fa comodo, come l’esito del referendum
sul finanziamento ai partiti, mentre quello ben più importante del 2006
sul mantenimento del testo dell’attuale Costituzione, viene posto in un
cono d’ombra.
Questa volta la maggioranza si sente talmente
forte da pensare di non dovere temere un referendum, al punto dal
prevederlo indipendentemente dalla soglia dei due terzi nella votazione
alle camere del progetto di riforma costituzionale. Sulla carta è così,
ma non è affatto detto che questo corrisponda alla realtà, vista che
l’elevata astensione dal voto indebolisce il carattere di effettiva
rappresentanza dell’attuale parlamento. D’altra canto la sinistra
d’alternativa ha fin qui dimostrato di perdere per distacco ogni
elezione politica, ma di sapere vincere referendum di grandissimo
significato, ultimo dei quali, importante più che per i numeri coinvolti
per il significato costituzionale della materia, quello di Bologna sul
carattere pubblico della scuola. Non a caso questo è stato ricordato con
molta forza nella riuscitissima manifestazione di Libertà e Giustizia
nella stessa Bologna il 2 giugno.
Da qui a quel referendum ci
sono di mezzo altri appuntamenti elettorali, come le importantissime
elezioni europee del 2014. Ma se intanto le forze della opposizione
politica e sociale, che, per quanto prive di adeguata rappresentanza,
non hanno per questo cessato di esistere e persino si allargarsi,
cominciassero, nel pensiero e nella pratica, a legare insieme i grandi
temi che concernono la trasformazione dell’attuale Unione europea in
un’Europa sociale e solidale, con quelli dell’uscita dalla crisi senza
un massacro sociale e senza uno spaventoso arretramento della
democrazia che una simile modifica costituzionale provocherebbe,
darebbero un contributo decisivo alla ricostruzione della sinistra.
E’
una sfida non impossibile, per la quale comunque vale la pena di
combattere. La misera fine del centrosinistra, materializzata da ultimo
nell’abbraccio mortale con quello che era il suo nemico storico, il
berlusconismo, di per sé non libera forze, piuttosto le deprime e le
imprigiona. Le elezioni amministrative non hanno invertito questa
tendenza, se non in modo illusorio, poiché in ogni caso il “sorpasso”
del centrosinistra avviene sulla base di un numero di consensi effettivi
molto inferiori a tutte le precedenti tornate elettorali. O si crea al
suo esterno e alla sua sinistra un punto – plurale fin che si vuole, ma
riconoscibile – di energia e di attrazione o l’inevitabile protesta
popolare può assumere derive distruttive. Altrimenti, come al solito, è
il morto che trascina il vivo, non viceversa.
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