Qualcuno forse si domanderà perché non si possa parlare di piano per
il lavoro e si debba ricorrere invece a un espressione pomposa e assieme
ridicola come Job Act. La spiegazione è apparentemente semplice e
banale: perché il provincialismo italiano si nutre di anglicismi per
simulare la modernità o l’efficienza oppure semplicemente per nascondere
la realtà, facendo dell’inglese il nuovo latinorum del manzoniano
Azzeccagarbugli. E non c’è dubbio che Renzi sia un triplo concentrato di
tutti questi elementi: così dare un nome “merricano” a un polpettone
fatto con gli avanzi di cucina del berlusconismo, le bucce del
modernismo cislino marchionnesco e ingredienti per i quali non ci sono
le risorse, è sembrata un’ottima idea per trasformare una polpetta
avvelenata in un manicaretto.
L’idea centrale è quella che meno diritti sul lavoro significhi più
lavoro, cosa smentita dalla scienza economica e che per superare la
crisi occorra lavorare sull’offerta e non sulla domanda: pura robacccia
di modernariato che gli intestini di questo Paese stanno ancora
incubando, ma il cui risultato finale è inevitabilmente destinato ai
rotoloni più o meno lunghi. Tutto questo in realtà serve la causa del
regresso sociale visto che dal punto di vista delle dinamiche economiche
non ha senso (vedi qui )
ma ad insaputa degli autori di questo minestrone e degli italiani a cui
è propinato, proprio il nome di Job Act ne rivela l’intimo significato.
Il lavoro come noi lo intendiamo in inglese si dice work, mentre job ha
un significato più limitato di compito, incarico, cottimo, mansione,
affare, esecuzione, insomma fa riferimento ad attività specifiche e
circoscritte come del resto era nel significato originale del termine
nato in periodo elisabettiano proprio per distinguere le attività
temporanee da quelle continuative. E infatti job è sempre accompagnato
dall’articolo indeterminativo, mai da quello determinativo a
testimonianza della sua natura concettuale ristretta. E’ insomma una
parola che non ha nulla a che vedere con la natura generale del lavoro
in sé, delle sue determinazioni costituzionali e del suo impatto
sociale.
Esprime in realtà proprio quell’isolamento individuale che si
vorrebbe portare a compimento con l’eliminazione dei contratti
collettivi, lasciando ognuno in balia del ricatto occupazionale e
salariale, vittima di capacità contrattuali incomparabilmente superiori
alle sue. E’ insomma la parola che più esprime la precarietà. E sebbene
il suo etimo sia incerto è molto probabile, visto anche il suo uso
secolare nelle attività illegali, che derivi dall’antico germanico gabban che ha portato all’italiano gabbare o nei dialetti dell’italia settentrionale anche a giobbare con il medesimo significato.
Inconsapevolmente ogni lingua si porta dietro una cultura, un modo di
vedere il mondo e a volte operazioni di pura facciata, come quelle
degli anglismi di maniera, finiscono per scoprire proprio le intenzioni,
gli orientamenti, gli inganni che vorrebbero nascondere. E in questo
caso basta davvero poco per ristabilire la verità: basta chiamarlo Giob
Act.
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