Introduzione
In un intervento del 1973 dedicato a rintracciare le origini de il manifesto – il gruppo di comunisti eretici che per qualche anno seppe dar luogo ad una delle ‘rotture’ da sinistra più interessanti rispetto alla tradizione dei partiti comunisti di discendenza stalinista e leninista, che furono nella loro prima fase critici della stessa esperienza togliattiana – Lucio Magri risaliva sino ad Antonio Gramsci. Per il comunista sardo il capitalismo italiano era sì un capitalismo ‘straccione’, per molti versi arretrato produttivamente, ma questi limiti non derivavano affatto da una mancata rivoluzione borghese. Al contrario, l’Italia era il paese che aveva dato vita alla rivoluzione borghese, dove erano nate le banche e i primi centri del potere finanziario europeo. Ha patito però l’assenza del formarsi tempestivo di uno stato nazionale, un ritardo sul terreno dello sviluppo scientifico e tecnologico, la limitatezza del mercato interno, il procrastinato accumulo dei capitali, e il lento costituirsi di un autentico mercato della forzalavoro. Tutti fattori che hanno determinato il prevalere di aree di parassitismo e rendita.
Sono questi, osserva Magri, elementi che tornano nel capitalismo italiano successivo, quando esso finalmente decolla. Una eccezione, dunque, che si rivela però esemplare. Abbiamo infatti a che fare con caratteri che finiscono con il permeare di sé lo stesso capitalismo avanzato del Novecento. Ciò impone alle lotte dei lavoratori di porsi al centro delle lotte di un vasto arco di forze sociali, fuori da una pura e semplice logica dualistica del capitale ‘puro’. E ciò costringe anche a trasformare la lotta per il potere in una battaglia per l’egemonia. La rottura rivoluzionaria ne viene ridefinita come qualcosa che deve andare ben al di là della mera questione della proprietà o della distribuzione: deve investire la qualità stessa del lavoro e della conoscenza, della ricchezza e dello sviluppo. Il come, cosa, quanto produrre. Paradossalmente, come sostengono le Tesi del manifesto del 1970, l’arretratezza del capitalismo italiano si rivela una chiave di lettura privilegiata del capitalismo maturo e delle sue contraddizioni in quella che poi è stata chiamata (inappropriatamente) l’Età dell’Oro, la Golden Age.
Controintuitivamente, l’intreccio tra rendita e profitto si sarebbe rivelato, nel capitalismo italiano e non solo, condizione di uno sviluppo continuo e accelerato delle forze produttive, come anche di una vivace valorizzazione del capitale: mettendo in scacco quella tendenza ‘stagnazionistica’ che parrebbe insita nel diffondersi di aree di improduttività nel capitalismo monopolistico. D’altra parte, l’estrazione di plusvalore e l’accumulazione del capitale, invece di dare forza a potenzialità riformistiche, rinchiudevano sempre più la società in forme neo-autoritarie, in una tendenza totalitaria. Il gruppo del manifesto ne derivava l’urgenza di una frattura rivoluzionaria, di cui segnalava tutta la difficoltà,. Le Tesi parlavano di ‘maturità del comunismo’: di una forma alternativa di economia e società che vivesse già, qui ed ora, in una politicità delle lotte operaie e sociali, dove doveva sbiadire sempre più la separazione tra mezzi e fini. Una maturità che era annunciata dalla crisi finale del mondo keynesiano: come lo stesso Magri aveva lucidamente anticipato in un breve ma fulminante articolo del 1971, intitolato “Breve la vita felice di John Maynard Keynes”.
La crisi capitalistica era irriducibile al meccanico dispiegarsi di una tendenza oggettiva al crollo o un qualche comportamento soggettivo, fossero le lotte sul salario o una resistenza capitalistica al cambiamento. Era, puramente e semplicemente, il riproporsi della ricorrente tendenza alla crisi generale del modo di produzione capitalistico. Il manifesto fu in grado di cogliere, prima di altri, la radicalità della crisi come fine di un mondo: peccò, d’altra parte, nel non vedere in essa anche il lato, complementare e necessario, di ristrutturazione del capitale, di transizione da una forma all’altra della valorizzazione. E’ quest’ultimo un tema che fu disertato da quasi tutti i gruppi della sinistra estrema, tranne alcuni filoni minoritari dell’operaismo italiano estranei alla discendenza trontiana o negriana. Il riferimento positivo è qui all’analisi di una parte della redazione della rivista Primo Maggio.
Il neoliberismo come ‘keynesismo privatizzato’
Così quasi cinquant’anni fa. Mutatis mutandis, il carattere paradigmatico dell’esperienza italiana, il suo configurarsi come una eccezione esemplare, si conferma anche nella grande crisi di questi anni, e ancora prima nelle caratteristiche che ha assunto quel capitalismo cosiddetto neoliberista che ha preso il posto del capitalismo ‘fordista’ che lo aveva preceduto. Prima di tornare al caso italiano, è bene allora dire qualcosa, innanzi tutto, della crisi globale, e poi della crisi europea.
La crisi scoppia nel 2007 in un segmento del mercato finanziario statunitense, quello dei subprime. Si viveva l’apogeo del ‘neoliberismo’. Cosa era, al di là dei miti, il neoliberismo? All’inizio degli anni Ottanta, reagendo alla Grande Inflazione degli anni Settanta, venivano messe in vigore, prima dal governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, e poi da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, politiche economiche ‘monetariste’. Controllando rigidamente l’offerta di moneta, e facendo dunque schizzare verso l’alto i tassi di interesse nominali e reali (depurati dal tasso d’inflazione), si pensava di porre un freno all’aumento dei prezzi. Il risultato venne raggiunto, ma l’alto prezzo del danaro fece sì che crollassero gli investimenti privati. Intanto, la spesa pubblica, soprattutto sociale, veniva compressa, le condizioni del lavoro peggioravano, sprofondava l’occupazione, cadevano salari e domanda di consumi. Tornava lo spettro di una grande crisi per insufficienza di domanda effettiva, come negli anni Trenta, in quello che John Kenneth Galbraith aveva definito il Grande Crollo. Gli alti tassi di interesse contribuivano a far esplodere l’indebitamento pubblico, visto che i governi erano ora costretti a trovare i fondi per la propria spesa in disavanzo emettendo titoli sul mercato, e non più finanziandosi direttamente dalle Banche Centrali.
Ciò che bisogna intendere bene è che questa fase monetaristica del neoliberismo è durata abbastanza poco, e non costituisce l’essenza della nuova fase. Lo stesso Reagan, nel secondo mandato della sua presidenza, provvide a bloccare la inevitabile deriva verso la stagnazione, fornendo domanda all’interno degli Stati Uniti, grazie soprattutto a un balzo verso l’alto della spesa militare, il che produsse un aumento del deficit dello Stato. Intanto, anche la bilancia commerciale degli Stati Uniti andava in passivo nei confronti del resto del mondo, il che si traduceva in un afflusso di domanda a quei paesi ‘neomercantilisti’ che -come il Giappone, l’Est Asiatico, la Germania e il Centro-Nord Europa ottenevano profitti grazie ad esportazioni di merci in eccesso rispetto alle importazioni (a questi paesi si è oggi aggiunta la Cina, che ha però un modello relativamente originale). Il monetarismo duro dei primi tempi stava mutando in una sorta di weaponized Keynesianism – come lo ha ha recentemente definito Paul Krugman.
Pochi anni più tardi, a partire dal 1987, la svolta decisiva. Alan Greenspan sostituisce Volcker alla testa della Federal Reserve. La sua ideologia è estremamente liberista (discendente più da Hayek che da Friedman, e più da Ayn Rand che da Hayek). Ciò nonostante, egli darà una ulteriore accelerazione alla costituzione di un paradossale ‘keynesismo privatizzato’ a dominante finanziaria, quel modello che reggerà per vent’anni. Greenspan deve subito affrontare la più grave crisi borsistica dal 1929. Reagisce inondando i mercati di liquidità. La finanza si convince che, nel caso di caduta repentina e disordinata dei corsi borsistici, godrà della rete di salvataggio del c.d. Greenspan put, ovvero di un ‘pavimento’ alla caduta del prezzo delle attività finanziarie, le cui quotazioni iniziano una lunga corsa verso l’alto. L’inflazione del prezzo dei capital asset è dovuta, tra l’altro, al costituirsi di un ‘capitalismo dei fondi’ – un vero e proprio money manager capitalism, come lo ha appropriatamente chiamato Hyman P. Minsky. Le famiglie venivano così incorporate, in modo subordinato, nel corpo dei mercati finanziari, e i loro risparmi consegnati ai gestori dei ‘soldi degli altri’. Questi ultimi a loro volta imponevano alle imprese non finanziarie l’obiettivo di rendimenti elevati nel breve termine. La corporate governance era orientata ad una ristrutturazione continua.
In questo quadro, le condizioni di forza nel mercato e nel processo del lavoro non potevano che volgere a danno dei venditori di forza-lavoro. Si costituiva così la figura del ‘lavoratore traumatizzato’, termine che l’anedottica attribuisce allo stesso Greenspan. Forme originali di finanziamento accompagnavano il sorgere di nuove imprese nei settori innovativi, mentre la grande impresa verticalmente integrata veniva sostituita da unità produttive connesse in rete. L’investimento privato non era però in grado di chiudere il circuito monetario, data la caduta relativa del prezzo dei beni capitali conseguente alla stessa innovazione, neanche nel capitalismo della new economy. I risparmiatori vedevano intanto crescere, apparentemente senza limiti, il valore della loro ricchezza finanziaria. E’ proprio questa fase ‘maniacale’ del risparmiatore che ha permesso alle famiglie di indebitarsi sempre più con le banche. La figura del consumatore ‘indebitato’ spiega molto della crescita del capitalismo anglosassone degli anni Novanta e degli anni Duemila dal lato della domanda: mentre la ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza’ creava consenso e subalternità, e la centralizzazione del capitale (ormai separata dalla concentrazione), frammentava il lavoro. Se non fosse stato così, il capitalismo neoliberista sarebbe stato bloccato da una sorta di carenza originaria di domanda. La politica monetaria, attraverso il sostegno speculativo alla bolla finanziaria prima, e immobiliare poi, ha invece spinto verso l’alto la domanda privata di consumi, grazie ad una sorta di ‘effetto ricchezza’. Fu questa gestione politica della domanda effettiva -sull’asse attività finanziarie/indebitamento => consumi autonomi (cioè indipendenti dal reddito, e dai salari) -la ragione del termine keynesismo privatizzato.
L’Europa capitalisticamente più dinamica (di cui, come vedremo, fanno parte anche alcune regioni italiane, e alcuni settori industriali della penisola) procedeva secondo un diverso modello. La Germania e i suoi ‘satelliti’ (essenzialmente, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Finlandia) godevano di esportazioni nette significative, nella gran parte dirette al Sud Europa. E’ questo saldo attivo nei conti commerciali con l’estero che ha consentito alla Germania di compensare il crescente disavanzo strutturale nei confronti della Cina, e il ridursi relativo degli sbocchi negli Stati Uniti e in altre aree (Russia, America Latina) in alcune fasi. Il funzionamento del modello neomercantilista ha avuto successo anche grazie al fatto che i paesi della periferia sono stati ‘legati’ prima da un accordo di cambio che impedisse svalutazioni competitive (il Sistema Monetario Europeo, SME), poi dalla partecipazione alla moneta unica (l’Unione Monetaria Europea, UME). Per sostenere il reddito, l’occupazione, e la profittabilità della produzione interna, le aree del Sud-Europa dovevano ricorrere a disavanzi nel bilancio dello Stato. Intanto, l’industria tedesca attraversava un lungo processo di ristrutturazione in conseguenza della riunificazione, spalmando la loro filiera di produzione nei paesi vicini, e il mercato del lavoro era sottoposto a ripetute riforme. L’allargamento all’Est europeo dell’UME dava la possibilità di godere di un bacino di forza-lavoro anche qualificata.
La crisi globale
Tornerò tra poco sulla situazione europea. Osserviamo soltanto, per adesso, che la crescita trainata dalle bolle finanziarie si è rivelata insostenibile, facendo scoppiare la Grande Recessione. Inaspettatamente, per una lunga fase (la cosiddetta Grande Moderazione), proprio gli squilibri finanziari e nelle bilance di parte correnti (i cosiddetti global imbalances) avevano contribuito a dare una parvenza di stabilità e resilienza al sistema: le bolle finanziarie, contribuendo a fornire domanda effettiva; la mobilità dei fondi speculativi, raddrizzando dal lato dei movimenti dei capitali le bilance dei pagamenti. Qualcosa del genere si è ripetuto nell’area dell’euro dal 1999 al 2007. Una prima grave crisi globale , per la verità, era già scoppiata nel 2000, con lo sgonfiamento della dotcom economy, e c’erano voluti tre anni ad uscirne, appunto con la bolla immobiliare dei subprime che scoppia nel 2007. La crisi finanziaria si trasmette immediatamente al resto del globo, e segnatamente all’Europa: Germania, Francia, Inghilterra, Irlanda, Spagna, lo stesso Est Europa, ne vengono investite in pieno. La crisi reale colpisce dapprima solo alcuni paesi, quelli dove più grave era stata la bolla finanziaria. Lì frana l’attività produttiva, e da lì partono le scosse. Lo tsunami della caduta della domanda si trasferisce dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania all’Italia, e così via. Lo spettro del Grande Crollo degli anni Trenta consiglia dapprima delle politiche ‘keynesiane’. Le banche centrali inondano le economie di liquidità, a salvataggio innanzi tutto di banche e finanza; quasi ovunque i bilanci dello Stato vanno sempre più in rosso, per questo ma anche per sostenere l’economia (la manovra più rigorosamente keynesiana sarà peraltro quella della Cina, in questo stesso arco di mesi, fine 2008-inizio 2009). Questa seconda fase della crisi termina a metà 2009, quando si intravedono ‘germogli di ripresa’. La priorità diviene ora la stretta fiscale, le politiche restrittive. E’ una scelta suicida. Anche perché il risparmiatore sta passando dalla fase ‘maniacale’ a quella ‘depressiva’: è costretto a spendere meno per uscire dal debito. Lo stesso fanno le imprese, che si sono trovate all’improvviso indebitate e a cui mancano gli sbocchi. E’ la deflazione da debiti: nessuno spende, dunque i redditi cadono, e l’atteso risparmio non si materializza. Lo Stato potrebbe evitare questo destino, ma invece di stimolare l’economia con disavanzi ‘buoni’ che producono valori d’uso per la collettività e aumento del salario reale (diretto o indiretto), contribuisce alla depressione con l’austerità.
Qual è la natura di questa crisi? In Italia, come altrove, si sono riprodotte le medesime interpretazioni. Tralascio qui quelle più marcatamente mainstream: colpa dello Stato predatore, dell’eccesso o della mancanza di regolazione, e così via. Lascio pure sullo sfondo quelle letture, alla Stiglitz o Krugman, che ritengono la Grande Recessione una ‘eccezione’ di così grave portata da dover indurre a riesumare il tradizionale armamentario keynesiano, almeno per un po’. A sinistra, le visioni più diffuse sono state due. Minoritaria, la lettura marxista ortodossa, che riconduce la crisi globale alla caduta tendenziale del saggio di profitto nella sua versione tradizionale: l’aumento della composizione di capitale farebbe cadere a un certo punto la massa, oltre che il saggio del profitto. Più diffusa la lettura sottoconsumista: in un mondo di bassi salari non vi sarebbe sufficiente domanda per poter realizzare il plusvalore potenziale. Mettiamo da parte alcune considerazioni ovvie, sul terreno teorico ed empirico. Teoricamente, non pare proprio che le critiche alla necessità della caduta del saggio di profitto siano mai state controbattute efficacemente. Né si capisce come sia possibile distinguere sul piano dei ‘fatti’ le diverse forme di crisi. Se la domanda aggregata è insufficiente, o se si verificano lotte nella distribuzione o nella produzione che comprimono il saggio di plusvalore, ciò non può che far aumentare il rapporto stock di capitale/reddito nazionale, dunque il rapporto capitale costante/neovalore (ovvero una delle misure della composizione del capitale). Quello che è certo è che il neoliberismo, a dispetto della distribuzione massimamente inegualitaria, la domanda se la è saputa procurare da sé. E’ stata piuttosto una era di sovra-consumo per rispondere al vero problema che lo affligge, quello del sottoinvestimento.
A me pare sia futile il gioco di voler opporre alle cause finanziarie della crisi le cause reali: come se nel capitalismo, sempre, le due cose non fossero strettamente intrecciate; e come se nel capitalismo neoliberista, in particolare, la ragione della sua capacità di sfuggire alla tendenza alla stagnazione non stesse proprio nella finanza ‘perversa’. Serissima è invece, a me pare, la necessità di ricostruire una lettura marxiana della crisi corrente. Essa va però proposta in una ottica di lungo periodo, attenta alle diverse configurazioni che ha assunto storicamente il capitalismo. E va fondata su una rilettura della caduta tendenziale del saggio di profitto come una ‘meta-teoria’ che include in sé le altre tendenze alla crisi. Vediamo in breve. Se la Lunga Depressione di fine ottocento può essere ricondotta all’aumento della composizione in valore del capitale, la risposta capitalistica in termini dell’intreccio di innovazione tecnologica e organizzativa (fordismo e taylorismo) creò il contesto di una crisi da insufficiente realizzazione del plusvalore, il Grande Crollo. Non poteva infatti valere su scala globale la soluzione di Rosa Luxemburg, battere il sotto-investimento con esportazioni nette verso l’area non capitalistica (quella via d’uscita che, mutatis mutandis e interamente dentro il capitalismo, si ripropone nel neomercantilismo). Si uscì da quella grande crisi solo con il secondo conflitto mondiale, e poi con la capacità del ‘keynesismo’ storicamente realizzato di attivare sistematicamente quelle che Kalecki chiamò ‘esportazioni interne’. Qui l’assorbitore esterno del plusvalore è la spesa pubblica in disavanzo, che può essere finanziata con nuova moneta; e il contenuto primo di quella spesa è, ancora seguendo la Luxemburg, la spesa per armamenti, Nello stesso solco di ragionamento si può introdurre lo ‘spreco’ alla Baran e Sweezy.
Non aveva, peraltro, torto Paul Mattick a rilevare come buona parte della produzione indotta dalla spesa pubblica keynesiana non fosse affatto produzione di capitale, ma produzione tout court. La soluzione alla crisi andava allargando l’area della improduttività. La pressione sul lavoro capitalisticamente produttivo per estrarre plusvalore su scala sistematicamente crescente permaneva e si aggravava. Fu per questo che, rese possibili dalla tendenza alla piena occupazione, le lotte operaie sulla prestazione lavorativa contribuirono crucialmente a mettere in crisi il ‘fordismo’ tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Anche se non fu certo questa l’unica contraddizione di quella forma della valorizzazione, quelle lotte impedivano l’aumento del saggio di plusvalore richiesto dalle esigenze della valorizzazione. E’ su questo sfondo che si comprende meglio il neoliberismo: la sussunzione reale del lavoro alla finanza e la centralizzazione senza concentrazione sono funzionali a consentire la costituzione del neoliberismo come money manager capitalism e come privatised Keynesianism. Si costituisce così la forma originale della accoppiata finanziarizzazione-precarizzazione nel ‘nuovo’ capitalismo: un capitalismo nient’affatto asfittico, che crollerà per le contraddizioni interne ai propri fattori di forza.
Rimane da dire dell’Europa, e dell’Italia nel contesto europeo, prima di passare a considerazioni più specifiche su quest’ultimo paese. L’Europa è nel mezzo di una tormenta, economica e sociale. La crisi, sia chiaro, è venuta da fuori: ciò non significa che non sia proprio il continente europeo a poter essere all’origine non solo, come già è, di un secondo tuffo nella recessione, ma nel trasformare la Grande Recessione in uno nuovo Grande Crollo. Ed è chiaro che in ciò ha un ruolo primario il fallimentare disegno istituzionale della moneta unica, come anche è significativa la frattura neomercantilista dell’Europa. Di nuovo, però, questo fa parte della koiné interpretativa degli economisti di sinistra, anche in Italia, dopo una lunga fase in cui la spiegazione sottoconsumista si prolungava nell’idea che il problema dell’Europa fosse invece il Patto di stabilità e sviluppo – un dispositivo il cui contenuto autentico era un tentativo di disciplinamento della periferia, e che non ha mai avuto duratura applicazione.
Quando la crisi scoppia, l’onda della finanza tossica colpisce subito l’Europa, a partire dalle Landesbanken, e il collasso delle relazione interbancarie ha un impatto negativo su squilibri di lunga data. Il modello neo-mercantilista data almeno dalla fine degli anni Quaranta del Novecento. Allora il persistente avanzo commerciale tedesco era riciclato per il tramite della Unione Europea dei Pagamenti (1949-59). Negli anni Sessanta, invece, prevale la ricerca di un attivo della bilancia commerciale, in Germania come in Francia ed Italia. E’ chiaro che, allora come oggi, l’obiettivo di un avanzo per l’area europea nel suo complesso era illusorio, e che l’aggiustamento dei paesi in disavanzo (che, in assenza un meccanismo di compensazione, non poteva avvenire che per il tramite di politiche recessive) retroagiva sulle esportazioni e occupazioni degli stessi paesi in avanzo. L’alternativa per i paesi in disavanzo come l’Italia era, ovviamente, quella di svalutare: una alternativa, con poche eccezioni, impraticabile nel sistema a cambi fissi, sia pure aggiustabili, nato a Bretton Woods; sottoposta a molti vincoli nel Sistema Monetario Europeo (1979-1992); del tutto impossibile, oggi, nell’Unione Monetaria Europea.
La svalutazione fu invece praticata pienamente, e con successo, nel corso degli anni Settanta, quando l’Italia agganciò la propria valuta al dollaro facendola deprezzare rispetto al marco: la svalutazione più che compensava il deterioramento della competitività dovuto alla più elevata inflazione, tamponando l’aumento dei costi dal lato delle importazioni. Successivamente, fino alla metà degli anni Ottanta, nonostante la banda larga che le era stata assegnata e i periodici aggiustamenti al ribasso della parità della lira nello SME, la svalutazione non compensava la più alta inflazione, e ciò faceva cadere le esportazioni nette. Una tendenza che fu rinforzata nella seconda metà degli anni Ottanta, soprattutto dopo il 1987, quando lo SME divenne, di fatto, un sistema a cambi fissi senza cambiamenti nei rapporti di cambio. La posizione con l’estero fu equilibrata dalla politica della Banca d’Italia che manteneva i tassi di interesse elevati (e in particolare, più elevati di quanto necessario al finanziamento del debito pubblico), in modo da incoraggiare importazione di capitali – e, beninteso, di mantenere elevata la pressione sulle imprese e sui sindacati per spingere la ristrutturazione e la compressione dei salari. Una politica che ha contribuito a far lievitare il pagamento degli interessi sul debito pubblico, e a rendere quest’ultimo crescente a dispetto dell’ottenimento di sostanziosi avanzi primari nel bilancio dello stato.
La crisi europea
Come la Germania, anche l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, l’Austria e la Scandinavia (in particolare, Finlandia e Svezia) guadagnano avanzi commerciali nell’area europea, mentre incorrono in un disavanzo commerciale con la stessa Germania -l’unica eccezione è l’Olanda, che fornisce all’economia tedesca servizi e finanza. Il modello è il medesimo: ottenere esportazioni nette grazie a crescita della forza produttiva del lavoro, prezzi stabili e bilanci dello Stato sotto controllo. Nel periodo dello SME, e sino alla riunificazione delle due Germanie, la Repubblica Federale di Germania realizzò una quota molto elevata di esportazioni nette sul PIL, una percentuale che fu recuperata e superata solo dopo il 2007-2008. E’ così che le politiche neo-mercantiliste del Centro-Nord Europa hanno spaccato l’Europa in due, dal punto di vista della bilancia di conto corrente con l’estero. Prima l’area dello SME e ancora oggi quella dell’euro, è il luogo primario delle esportazioni nette tedesche, nonostante il successo dell’espansione in nuovi mercati. Visto il ruolo cruciale che nella sua economia ha sempre più avuto il settore finanziario, la Francia ha stretto un’alleanza con la Germania e i suoi satelliti all’insegna di una posizione anti-inflazionistica, cercando (e riuscendovi sempre meno) di incrementare le esportazioni nette riducendo le importazioni. Insieme all’Italia, anche Portogallo, Spagna e Grecia stanno ormai sitematicamente dal lato dei conti in rosso.
Nonostante i suoi sforzi la Francia si è trovata sempre più nel club dei paesi in disavanzo. Questo scivolamento ha spinto le élite francesi a cercare di condividere i benefici della stabilità monetaria condividendo con la Germania il comando sulla moneta in una moneta unica. Il Trattato di Maastricht è il termine di un processo lungo, a egemonia francese: la Germania era considerato nano politico; la Gran Bretagna gigante finanziario; l’una e l’altra, si sperava, potevano essere sussunte sotto la centralità politica e militare della Francia. Un progetto nato dentro una Europa divisa in due dal Muro di Berlino, e dalla Cortina di Ferro: un progetto destinato al con le ore contate per la riunificazione tedesca e il crollo dell’URSS. La Bundesbank si oppose alla ‘Reaganomics sul Reno’ di Kohl – finanziare i disavanzi del bilancio pubblico con debito estero invece che tramite incrementi nelle tasse. Il confronto interno con Kohl, assieme al desiderio di mettere in riga l’Italia e altri membri dello SME, indusse la Banca Centrale tedesca a far impennare il tasso d’interesse a breve nel 1991-92. La conseguenza fu di spingere verso l’alto il cambio del marco. Dal 1992 al 2000 il conto corrente della Germania nella sua interezza si deteriorò sino a divenire negativo, nonostante rimanesse lievemente positivo nel conto relativo ai beni tangibili esportati e importati, e nonostante la Germania dell’Ovest continuasse a realizzare un enorme surplus (a fronte del deficit colossale dell’Est). Questo non significò tanto la fine dell’orientamento neomercantilista, e neppure che la capacità di finanziarsi sui mercati internazionali si andasse riducendo. Ciò che stava avvenendo era l’inizio di più di un decennio di ristrutturazione capitalistica nel mercato e nel processo di lavoro, nel quadro di una grossa spinta verso la transnazionalizzazione di molte conglomerate industriali tedesche, e di un mutamento di strategia del capitale tedesco: dall’automazione alla delocalizzazione delle attività a monte verso l’Est Europa, ma anche verso aree come l’Italia del Nord. E’ a queste politiche, oltre che all’aver bloccato i paesi partecipanti all’UME in cambi irrevocabilmente fissi, che si deve il boom dell’export tedesco negli anni Duemila.
L’euro è nato con un peccato originale: la sua struttura istituzionale incarna una permanente tendenza recessiva per l’intera area, aggrava le divergenze competitive tra i membri, impone la deflazione salariale e la ristrutturazione nei luoghi di lavoro. Sono difetti che potrebbero essere contrastati solo attraverso, da un lato, una comune politica fiscale e dei trasferimenti che governi una redistribuzione delle risorse tra regioni, e dall’altro lato, politiche industriali e strutturali che contribuiscano a superare l’arretratezza di alcune aree. Viceversa, il bilancio europeo è ridicolmente basso, la regola è la competizione fiscale tra stati, e (a dispetto talora dei comportamenti effettivi) viene promossa una politica di deregolamentazione e privatizzazioni. A cui va aggiunto l’ ‘esperimento’ di una moneta senza potere statuale alle sue spalle, e di una banca centrale cui sulla carta viene impedito di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza ai governi.
Il vero quesito a cui va allora data una risposta è come mai una fragile costruzione come questa (Mario Draghi l’ha qualificata ‘un calabrone’) sia stata, prima, capace di prendere il volo alla fine degli anni Novanta e poi, per vari anni, di apparire come un successo. Il progetto della moneta unica, come ho detto, era subito franato con il crollo del socialismo reale. La Francia però pretese l’euro quale prezzo del dar via libera alla riunificazione delle due Germanie. Negli anni Novanta la new economy statunitense, e la tendenziale riduzione dei tassi di interesse, agevolarono una qualche convergenza nominale (anche per quel che riguarda i parametri relativi alla finanza pubblica). Ciò impose alla Germania, in difficoltà, di superare il proprio desiderio di costruire semmai una unione monetaria più ristretta, e le imposero di aderire alla ripresa del progetto: come sempre esigendo qualcosa in cambio. Come il Trattato di Maastricht imponeva dei parametri di convergenza, così l’introduzione dell’euro si accompagnò al Patto di stabilità e di sviluppo a Dublino e Amsterdam. La Germania ottenne anche che la BCE si configurasse persino più rigida della Bundesbank nel suo orientamento ‘monetarista’.
Nei primi anni dell’euro la Germania, che usciva dallo shock della riunificazione, come anche i suoi ‘satelliti’ beneficiavano di uno sviluppo meno veloce della periferia. La bolla immobiliare, che investiva anche l’area dell’euro, in particolare Irlanda e Spagna, spingeva verso l’alto il tasso di crescita di questi paesi, sicché non solo i loro conti pubblici apparivano virtuosi, ma essi fornivano anche domandai all’Europa del Centro-Nord. La Grecia e il Portogallo erano paesi che dovevano compensare con disavanzi nel bilancio dello Stato la (sempre più cronica) caduta delle esportazioni nette, per sostenere reddito e occupazione. Ma ciò di nuovo provvedeva sbocchi ai paesi più forti dell’area. L’annullamento del rischio di cambio, e l’(inatteso) abbattimento del premio di rischio sui prestiti ai membri dell’euro, facevano sì che il capitale dei paesi del Centro-Nord (in primis francese, tedesco e britannico) fluissero alla periferia, così come si rivolgessero alla gestione dell’ingente debito pubblico italiano. Per garantirsi rendimenti adeguati la finanza europea assumeva caratteri non troppo distanti da quella d’oltreoceano, con rilevanti investimenti nei titoli ‘tossici’; e il mercato dei titoli di stato della periferia svolgeva un ruolo simile al mercato dei subprime. Grazie alla ‘debolezza’ macroeconomica dell’area periferica i paesi forti dell’area dell’euro godevano verso l’esterno dell’equivalente di una relativa svalutazione nominale (rispetto a quello che altrimenti sarebbe stato il cambio di un euro ristretto al ‘centro’); e grazie alla deflazione competitiva fruivano anche di una svalutazione reale all’interno dell’area dell’euro. La forza strutturale della specializzazione produttiva e tecnologica tedesca, in macchine avanzate e in manifatture di alta qualità, ne veniva ulteriormente esaltata.
Quanto precede chiarisce bene perché, prima della Grande Recessione, gli squilibri commerciali in Europa non fossero considerati un problema particolarmente serio. La stessa finanza pubblica non destava particolari preoccupazioni. Tanto più che a violare le regole sono state, per ben tre volte, Germania e Francia. Anche oggi la drammatizzazione del cosiddetto debito sovrano pare malposta. Se si guarda alla eurozona nel suo complesso, il rapporto debito pubblico/PIL è comparabile o inferiore a quello di altre nazioni (US; Giappone; lo stesso Regno Unito se si computa nelle spese statali l’aiuto al sistema bancario). Ad uno sguardo non superficiale la crisi dell’eurozona si rivela tutto meno che endogena: essa è venuta dall’esterno, è stata una sorta di ‘rimbalzo’ del collasso del keynesismo privatizzato. Ciò non assolve, evidentemente, la tecnocrazia e la politica europee, né rende esente da colpe la struttura istituzionale della moneta unica. La crisi ha colpito una Europa che era già fragile per la bassa crescita precedente. I canali di trasmissione li abbiamo già accennati: la diffusione della crisi finanziaria made in USA e lo scoppio delle bolle immobiliari,, la compressione della domanda che i paesi interni all’area fornivano agli altri, la caduta delle esportazioni nel resto del mondo. Agli inizi, si deve dire, la crisi fu tamponata in vari paesi (non in Italia) grazie ad una politica economica che smentiva la retorica anti-keynesiana. Non si ebbe solo l’operare di stabilizzatori automatici, ma anche un interventismo attivo (come la settimana corta di lavoro in Germania). Quando l’emergenza cessò, si passò ad un orientamento restrittivo delle politiche economico che ha cambiato il quadro drammaticamente. A partire dalla crisi greca.
Trattare la propria moneta (come è, in effetti, l’euro per la Grecia) come se fosse una valuta straniera regolata da poteri esterni (quale fu il caso dell’Argentina), o pretendere che tra le regioni di una medesima area monetaria (dove gli squilibri commerciali non possono che essere la norma) non vigano trasferimenti compensativi, non può che preludere al disastro. Ma la crisi in Europa non è dovuta alla Grecia, come non è dovuta alla finanza pubblica. Non è, a rigore, dovuta neppure agli squilibri interni di bilancia commerciale: non solo essi sono inevitabili all’interno di qualsiasi regione; essi non pongono di per sé un rischio diretto all’unione monetaria, visto che non vi è limite alle passività che una banca centrale nazionale può registrare nei conti della BCE. Contano molto di più le contraddizioni reali sottostanti.
L’esistenza della moneta unica è in dubbio, e la sua sopravvivenza rischia di essere conquistata nel segno di una stagnazione permanente, a seguito di queste contraddizioni, esse sì endogene. D’altra parte, sarebbe sbagliato non vedere che sotto la coperta della crisi stanno procedendo mutamenti politici, economici e sociali di grande significato. Vero è che l’eurozona non può sopravvivere senza una grande trasformazione istituzionale, una trasformazione che può muovere i suoi passi solo per il tramite di una successione di crisi e drammatizzazioni. Per fare un esempio, la BCE non ha affatto seguito alla lettera le sue prescrizioni monetariste negli ultimi anni, e sta riscrivendo di fatto la sua costituzione materiale. Non solo ha agito sempre più come prestatore di ultima istanza per le banche, essa ha poi agito come finanziatore dei governi sul mercato secondario quale che fosse la retorica di facciata. Ultimamente, con Mario Draghi, ha persino promesso un acquisto ‘illimitato’ di titoli di stato di paesi dell’area oggetto di attacchi speculativi, se necessario, condizionandolo alla garanzia che le ‘riforme strutturali’ procedano.
E’ sempre più chiaro che dietro questi cambiamenti sta la costruzione esplicita di un governo, anche politico, del capitale europeo: un progetto che per realizzarsi deve muoversi prudentemente e superare strada facendo le resistenze di frazioni della classe dominante. Una austerità che tenga sotto pressione i governi, e una successione di crisi che allentino le opposizioni, sono un complemento fatale di questa strategia, la quale d’altra parte è costretta a scommettere che una qualche ripresa ci sia: ripresa che, ancora una volta, non può che venire dall’esterno della eurozona. Una ipotesi i cui margini di incertezza sono elevatissimi. Intanto, la crisi procede ‘oggettivamente’ con svalorizzazione della forza-lavoro, centralizzazione dei capitali, ristrutturazione dei processi produttivi, ‘snellimento’ del pubblico. Che così la crisi non divenga permanente è tutto da dimostrare. Una inversione di rotta potrebbe essere imposta solo dalla politica e dalla società. Richiede però di riconoscere la posta in gioco, e i mutamenti del capitale.
Il caso italiano
Veniamo ora più specificamente al caso italiano. L’Italia è spesso, e con molte ragioni, raffigurata come il malato d’Europa. Le ragioni principali che vengono addotte riguardano quattro dimensioni. La prima è la finanza pubblica. La seconda è l’andamento del reddito pro-capite e della produttività per addetto. Il terzo è il declino produttivo. Il quarto la perdita di competitività e il rosso nei conti con l’estero.
Vale la pena di guardare più in dettaglio. L’Italia ha vissuto una rilevante crescita del debito pubblico. I suoi inizi possono essere collocati alla metà degli anni Sessanta (quando, a fronte di un blocco dell’investimento privato, l’operatore pubblico effettuò investimenti compensativi, in particolare nel Mezzogiorno), e all’inizio degli anni Settanta (quando vennero introdotte delle riforme sociali, senza che vi fosse allora un contemporaneo aumento delle entrate, per un ritardo nella messa in atto della prevista riforma fiscale). L’aumento del rapporto disavanzo/PIL, e dunque del rapporto debito/PIL, era comunque estremamente modesto. Lo Stato intervenne significativamente anche a fine anni Settanta, con una spesa pubblica direttamente (sussidi alle imprese) o indirettamente (trasferimenti alle famiglie) funzionale alla ristrutturazione produttiva. Ma in quel caso l’aumento della spesa pubblica fu pressoché interamente coperto dalla crescita delle entrate fiscale. La ragione stava principalmente nel fatto che l’aumento dei salari, allora indicizzati all’inflazione via il meccanismo della scala mobile, comportava l’aumento dei redditi nominali, che venivano di conseguenza colpiti da un aumento delle aliquote fiscali in conseguenza della natura progressiva del nuovo sistema fiscale (il cosiddetto drenaggio fiscale).
In Italia, come e più che altrove, i problemi della finanza pubblica emergono davvero soltanto con la svolta neoliberista, a inizio anni Ottanta, e il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. I disavanzi nel bilancio statale vengono finanziati collocando presso i risparmiatori titoli a tassi di interesse crescenti. E’ però anche vero che quel decennio fu caratterizzato da ciò che Marcello De Cecco ha definito un ‘keynesismo criminale’, ovvero dall’espansione di una spesa pubblica segnata da improduttività e corruzione (sino all’inchiesta Mani Pulite che porrà un termine alla Prima Repubblica). Inoltre, come abbiamo già ricordato, dal 1987 la Banca d’Italia tiene i tassi di interesse elevati per scelta politica. In quel decennio il debito pubblico italiano esplode tanto in termini assoluti, quanto relativamente al PIL. Non si deve peraltro dimenticare che quest’ultimo indicatore dipende dalla dinamica del denominatore, e quindi patisce la diminuzione dei tassi di crescita, che si abbassano continuamente un decennio dopo l’altro. Gli anni Novanta, caratterizzati dall’accumulo costante di un avanzo primario, vedono in effetti prevalere questi due fattori: il crescere del debito pubblico per il gonfiamento continuo della spesa per interessi pregressi, e la caduta del PIL. Una situazione che fu presa a pretesto per una ondata di privatizzazioni che non ha avuto eguali negli altri paesi avanzati. I miglioramenti delle condizioni della finanza pubblica sono quasi sempre stati dovuti, oltre al succedersi di manovre di controllo della spesa e aumento delle imposte (in condizioni di larga evasione fiscale), a fattori esterni: come - dalla metà degli anni Novanta e sino alla crisi della dotcom economy, e come nel quinquennio prima della crisi del 2008 - la caduta esogena dei tassi di interesse, o una crescita anch’essa trainata dall’esterno.
Questo è però vero anche dei recenti peggioramenti, e qui sta una singolarità della crisi attuale. L’Italia, fino a metà del 2011, non dava particolari preoccupazioni sul fronte della finanza pubblica. E’ senz’altro il paese europeo che meno di altri si è impegnato in politiche attive anticicliche durante la crisi, e che meno di altri ha visto crescere i disavanzi. Ed è il paese che nel mondo, da vent’anni, ha maturato il più alto avanzo primario cumulato nel bilancio dello stato. Eppure, ciò non è bastato a impedire di finire nella tormenta della speculazione. In questo caso, non ha senso prendersela con le agenzie di rating, o con i ‘mercati’. Il punto è che, come l’Europa è entrata in crisi per una crisi importata, lo stesso si può dire per l’Italia. L’incapacità europea di gestire la crisi greca - una iniziale remissione del debito avrebbe avuto costi ridotti anche se avrebbe comportato un problema serio, ma gestibile, di contagio; invece l’atteggiamento punitivo ha incancrenito le difficoltà greche e propagato le difficoltà dall’Irlanda al Portogallo, dalla Spagna all’Italia - e la svolta verso una generalizzata politica di austerità hanno condotto all’abbattimento ovunque del tasso di crescita del reddito nazionale, sino a toccare la stessa Germania. Nonostante la compressione della dinamica dei disavanzi, il rapporto debito/PIL è aumentato nettamente per la caduta del denominatore, sfondando il 120% e andando sempre più oltre. Se è vero che dal lato dei flussi il bilancio pubblico italiano non destava preoccupazioni, lo stock rimaneva significativo. Le aspettative di deterioramento dell’intero scenario europeo hanno spinto verso l’alto lo spread dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico, dunque anche quelli dei BOT rispetto ai Bund. Ciò era a sua volta aggravato dalla fuga dei capitali e dei depositi bancari, che abbandonavano le aree periferiche per quelle centrali dell’eurozona, in primis la Germania. Riappariva per questa via il rischio di convertibilità, nel caso di una dissoluzione dell’unione monetaria, che ormai non era possibile escludere. Con tassi di interesse che minacciavano di superare il 7%, diveniva del tutto comprensibile il calcolo che nel giro di un paio d’anni (con uno scarto enorme tra tasso di interesse e tasso di crescita, e con la necessità di rifinanziare ingenti ammontare di titoli nelle aste successive) il debito pubblico italiano divenisse insostenibile. In questi casi, come è noto, l’evento futuro viene anticipato dai mercati, e il pericolo si concretizza nell’immediato.
Ne consegue che i veri problemi italiani stanno nella bassa crescita, più che nella finanza pubblica. Semmai, le politiche per abbattere il debito pubblico si rivelano controproducenti. Negli ultimi due anni la crisi italiana si presenta di particolare gravità nel contesto europeo perché è l’Italia il paese che -con l’ultimissima fase del governo Berlusconi, prima, e il governo di Mario Monti, poi -ha fatto uno sforzo di restrizione fiscale tra i più drastici in Europa, frenando la domanda interna, e affidandosi esclusivamente (nel bel mezzo di una crisi generale) al contributo della domanda estera netta. Se guardiamo al primo decennio degli anni Duemila, vediamo che la dinamica del PIL italiano è stata praticamente nulla, a fronte di una bassa crescita francese e tedesca (salvo negli ultimissimi anni, prima di una ricaduta della stessa Germania nella recessione), e di una crescita ben più sostenuta della ‘periferia’ prima della crisi. La crescita italiana aveva iniziato a essere più bassa della media europea già dagli anni Novanta; media europea che a sua volta era sopravanzata nettamente dalla velocità di sviluppo degli Stati Uniti (per non dire della Cina e di gran parte dei paesi asiatici). Un destino di stagnazione che accomuna l’Italia al Giappone. Ancora peggio vanno le cose per quel che riguarda la produttività per addetto, che sempre nel primo decennio del nuovo millennio è stata addirittura negativa. I fattori che hanno condotto a questo esito sono noti. L’Italia ha vissuto una tendenza di lungo periodo alla riduzione dell’occupazione nell’industria manifatturiera, con un crollo in particolare nelle imprese di grandi dimensioni. La grande industria è quasi scomparsa, a parte la Fiat, in crisi sul mercato interno ed europeo. Ciò ha significato l’abbandono, o la marginalizzazione, di numerosi settori (elettronica, telecomunicazioni, chimica e petrolchimica, farmaceutica, macchine per uffici, mezzi di trasporto). L’ondata di privatizzazioni ha trasformato molte concentrazioni pubbliche in imprese private collettrici di rendite. Predomina la dimensione piccola e piccolissima delle unità produttive, il cosiddetto ‘nanismo’. I ‘distretti industriali’, una volta fiorenti, sono in molte zone in crisi. La specializzazione dei produttori italiani è per lo più in settori tradizionali. Basso è l’impegno nella ricerca e sviluppo o nell’innovazione di prodotto. Gli investimenti sono stati adattivi, e la domanda di nuovi beni capitali si traduce sovente nell’importazione di macchinari dall’estero.
Tutto ciò non stupisce. Non stupisce perché (come si è ricordato) la bassa produttività è la naturale conseguenza, innanzi tutto, di una massiccia ondata di privatizzazioni. Non stupisce, poi, perché alla carenza di innovazione e politiche industriali si è sopperito con un’altra eccezionalità esemplare, cioè una continua deregolamentazione del mercato del lavoro, quale che fosse il colore dei governi, che pretendendo di aumentare la flessibilità del lavoro ne produceva invece una vistosa precarizzazione. Non stupisce, infine, perché quanto precede si traduceva in una dinamica ridotta dei salari unitari (anche se il costo del lavoro per unità di prodotto poteva nondimeno aumentare, vista appunto la bassa produttività per lavoratore). Diveniva quindi possibile ottenere profitti o sopravvivere sui mercati senza rinnovare gli impianti, ma sfruttando di più la forza-lavoro, lungo la via bassa di una più intensa e lunga durata del tempo di lavoro. Sono i bassi salari e la precarizzazione del lavoro a dare conto di un dato che altrimenti potrebbe stupire: che questa realtà produttiva declinante si sia accompagnata a una significativa riduzione della disoccupazione. Se è vero che in Italia, al di là dei problemi cronici del Mezzogiorno, i tassi di attività sono più bassi della media europea (e ciò è ancor più vero per le donne), prima della crisi si potrebbe quasi parlare di piena occupazione: si trattava però una piena sottooccupazione di una forza-lavoro spesso precaria e malpagata.
A questo punto pare trovare spiegazione il crescente disavanzo della bilancia di conto corrente. In un contesto di investimenti non particolarmente dinamici, di bassi salari, di disavanzi pubblici tenuti sotto controllo, la spinta a trovare domanda nei mercati esteri si è scontrata con il problema della ridotta competitività (dovuta alla bassa innovazione, alla precarietà, alla dimensione d’impresa, alla specializzazione settoriale). Ciò si è accoppiato al fatto che nell’UME l’Italia ha subito il cambio ormai irrevocabilmente fisso: la sua inflazione più elevata e la sua produttività azzerata hanno determinato l’ascesa relativa del costo del lavoro per unità di prodotto. Dentro l’area dell’euro, la possibilità della svalutazione competitiva è stata cancellata, e si è rimasti disarmati rispetto alla deflazione competitiva. Le difficoltà sempre più gravi nella bilancia delle partite correnti si riflettevano in un forte indebitamento con l’estero, e in una crescente quota del capitale straniero nel rifinanziamento del debito pubblico -quest’ultima circostanza, se all’inizio ne riduceva i costi, nel lungo periodo accresceva la vulnerabilità dell’Italia alle fughe dei fondi e agli attacchi della speculazione.
Il sistema bancario italiano, che è andato soggetto dagli anni Novanta a un sostenuto processo di centralizzazione, è parso nel complesso relativamente solido nel mezzo della crisi, almeno sino a tempi recenti. Ciò è stato dovuto alla natura ancora fortemente banco-centrica del finanziamento dell’industria, alla cautela delle strategie di prestito degli istituti di credito, alla presenza di molti titoli di stato nell’attivo del loro bilancio. L’indebitamento delle famiglie, seppure crescente, si situa in Italia al di sotto dei livelli del capitalismo anglosassone; ed è relativamente elevata la ricchezza detenuta dalle famiglie (più benestanti) rispetto al reddito. In effetti, se, invece che il rapporto debito/PIL, si volge lo sguardo al rapporto debito pubblico/ricchezza finanziaria netta delle famiglie o al rapporto debito pubblico /patrimonio (inclusivo delle abitazioni), l’Italia passa dalle economie ‘malate’ a quelle più ‘sane’. Questi elementi contraddittoriamente positivi si sono ultimamente rovesciati in un problema da quando l’Italia è stata investita con violenza dalla crisi del debito sovrano, e da quando le famiglie hanno dovuto iniziare a ricorrere al decumulo del loro risparmio per sostenere il consumo a fronte dell’austerità praticata dalla politica economica.
Il quadro negativo sulla produttività e sulla bilancia commerciale va peraltro qualificato. Per quanto riguarda la produttività, il suo basso livello è dovuto, oltre che alle carenze strutturali che ho ricordato, alla bassa produzione legata alla bassa domanda. Prima della crisi, l’Italia cresceva sì poco, ma più della Germania; e le aree che crescevano di più lo facevano sulla spinta del debito privato, che si è rivelato insostenibile. Per quanto riguarda la bilancia commerciale, basti segnalare che l’Italia è il secondo esportatore manifatturiero d’Europa, e che il suo passivo scompare se si escludono le importazioni legate alla dipendenza energetica. In particolare, si riscontra un surplus manifatturiero in settori come l’abbigliamento, la moda, il vino, l’automazione e la meccanica non elettronica: ovvero il made in Italy di qualità, e la subfornitura dell’apparato produttivo del centro-Europa. Già nella crisi del 2000-2003 l’Italia ha visto una sorta di selezione forzata all’interno dell’universo delle piccole e medie industrie: da un lato, vedendo andare in crisi o esternalizzare ad Est i segmenti più poveri; e, dall’altro lato, vedendo ridurre le quantità prodotte ma crescere la qualità e il valore aggiunto per quel che riguarda le imprese più dinamiche. In questa parte dell’apparato industriale italiano la produttività oraria è significativa (e certo i salari non ne tengono il passo). Il declino dei vecchi distretti industriali si accompagna al parto di quello che viene chiamato il ‘quarto capitalismo’: le ‘multinazionali tascabili’, forti nell’innovazione e nel marketing, capaci di penetrare i mercati d’oltrefrontiera e di effettuare investimenti diretti all’estero. Il limite di questo fenomeno, come già era stato nel caso dei distretti, è che non può esaurirsi in queste imprese la presenza industriale di un paese avanzato come l’Italia. E’ una configurazione fragile: le piccole e medie imprese sono incapaci di raggiungere autonomamente una massa critica nella ricerca e sviluppo; la crescita dipende dalle alterne vicende della domanda estera; non si costruisce una coerenza e completezza della struttura intersettoriale dell’economia. Ciò obbliga, per sopravvivere, a una ristrutturazione continua e, in molti casi, a un peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro, quanto più migliora la qualità della concorrenza della Cina e dei paesi emergenti.
Una crisi che viene da lontano
Se si vuole comprendere i fattori specifici di crisi dell’economia italiana, bisogna risalire molto indietro. La frattura è da collocare a metà degli anni Sessanta del Novecento, a separare la fase del miracolo economico, da quella della successiva crisi e incertezza che si prolunga sino agli anni Ottanta, sino al successivo declino relativo. L’Italia era uscita dalla guerra con una situazione di apparente debolezza. Una elevatissima disoccupazione (ufficiale e nascosta), la presenza di una dose significativa di capitalismo di stato (come eredità degli interventi del fascismo nella crisi degli anni Trenta), un ritardo tecnologico delle grandi imprese (frutto anche della precedente politica di autarchia), la presenza significativa di aree non capitalistiche, il dualismo territoriale tra Nord più avanzato e Sud arretrato. Nondimeno, tra il 1950 e il 1962 l’Italia seppe trasformare in risorse molte di queste caratteristiche, e fu tra le economie a crescita più veloce, anche in forza della scelta lungimirante di aprirsi al commercio internazionale e di partecipare da protagonista all’integrazione europea. I bassi salari garantivano elevati profitti, che venivano reinvestiti per l’ammodernamento tecnologico, in beni capitali dal progresso tecnico incorporato che elevavano la produttività. Il settore pubblico ebbe un ruolo trainante nella prima metà degli anni Cinquanta, mentre fu il settore privato a dominare gli anni successivi sino all’inizio del successivo decennio. Le esportazioni crescevano velocemente. Come nel resto del mondo capitalistico, furono l’elevata spesa pubblica, le esportazioni, e l’investimento privato a trascinare dal lato della domanda una economia capitalistica che godeva dell’elevata distruzione di capitale dovuta alla guerra, e del keynesismo militarizzato statunitense. Una peculiarità italiana fu l’elevata presenza di aree di rendita e di improduttività: grazie al ruolo del consumo puro che veniva da questi strati sociali si poteva chiudere il circuito della riproduzione capitalistica. In tal modo, peraltro, si riproduceva in Italia, sia pure in forma caricaturale, il ruolo che lo spreco e la spesa del plusvalore come reddito (e non come capitale) giocavano nel capitale monopolistico.
Questo modello andò precocemente in crisi all’inizio degli anni Sessanta. Nel triangolo industriale si raggiunse la ‘piena occupazione’, e ciò dette luogo a lotte salariali molto vivaci. Intanto, l’apertura della Democrazia Cristiana ai socialisti e le prime riforme del centro-sinistra spaventavano il capitale italiano, che reagiva con la fuga dei capitali. La Banca d’Italia rispose ai due eventi in sequenza, prima favorendo il recupero dei profitti per la via inflazionistica (il che, nel sistema a cambi fissi di Bretton Woods, si traduceva in una bilancia commerciale negativa), e poi con la deflazione, restringendo l’offerta di moneta per comprimere produzione e occupazione. La posizione estera del paese migliorò, e i salari crollarono. Il punto è che alla metà degli anni Sessanta il capitale ‘produttivo’ accompagnò questi eventi e politiche con uno sciopero degli investimenti, e scelse di riguadagnare profittabilità per la sola via della compressione salariale e della maggiore intensità del lavoro, e non grazie ad un aumento della forza produttiva del lavoro. Ciò spiega la radicalità delle lotte operaie della fine degli anni Sessanta e primi Settanta, pur in un contesto che non era più di piena occupazione (ma di segmentazione della domanda di lavoro delle imprese). Il conflitto si estese dal salario alla condizione di lavoro. Le lotte operaie erano state precedute e contaminate dalle lotte studentesche, e seppero estendersi al resto della società – il lungo ‘autunno caldo’ italiano, che terminò davvero solo alla fine del decennio.
Al nuovo round dei conflitti di lavoro, interni allo stesso processo di valorizzazione, il capitale italiano reagì subito con il decentramento produttivo, poi dal 1973 con la svalutazione (per consentire una maggiore corsa dell’inflazione italiana rispetto a quella dei paesi concorrenti), infine dalla metà degli anni Settanta con una innovazione tecnologica nella grande impresa. Ciò, insieme al ricordato sostegno dello Stato alla ristrutturazione capitalistica via sussidi alle imprese e trasferimenti alle famiglie, seppe rimettere in corsa il capitalismo italiano, ma su una traiettoria debole e reattiva. La svolta nei rapporti di classe fu sanzionata dalla sconfitta alla Fiat nell’ottobre del 1980. Il keynesismo criminale e la estesa corruzione degli anni Ottanta furono la cappa sotto la quale si muoveva con difficoltà un capitalismo con sempre meno grandi imprese e in via di deindustrializzazione, salvo l’innegabile vitalità dei distretti industriali in quella che venne allora battezzata Terza Italia (il Centro Italia e il Nord-Est). L’investimento delle imprese italiane, che negli anni del miracolo era quantitativamente superiore a quello dei concorrenti, si riduceva rispetto alla media europea: mentre, prima come dopo, latitava l’investimento in conoscenza. La crescita capitalistica finiva sempre più col dipendere da un traino esterno, dalla spesa improduttiva, dalle aree di rendita.
E’ per queste ragioni che l’economia italiana si affaccia debole alla frantumazione dello SME conseguente alla riunificazione tedesca. Riesce ancora per qualche anno il vecchio gioco della svalutazione competitiva, facilitato dalla deindicizzazione del salario e dal peggioramento delle condizioni della contrattazione sindacale. Il salario nominale segue a malapena e in ritardo l’inflazione, depurata degli aumenti del prezzo delle materie prime e delle tariffe, e viene ulteriormente falcidiato dal drenaggio fiscale. Inizia la stagione delle ‘riforme’, tra le più radicali in Europa. In primo luogo, la riforma delle pensioni, che passano dal sistema a ripartizione a quello contributivo. Una riforma ingiustificata: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali (al netto delle ritenute fiscali) continua ad essere positivo, nonostante l’invecchiamento della popolazione, ed è anzi sempre più rilevante, andando in realtà a migliorare le condizioni della finanza pubblica. La stessa quota della spesa pensionistica sul PIL, a dispetto degli allarmismi, è nella norma europea, se non inferiore: le statistiche usualmente addotte per sostenere il contrario erroneamente computano forme di salario differito (come il Trattamento di Fine Rapporto) come prestazioni previdenziali, e non tengono conto del differente trattamento fiscale. Poi le riforme del mercato del lavoro, in nome di una maggiore pretesa flessibilità, che hanno invece diffuso incertezza e precarietà, rallentando l’investimento innovativo. Ancora, le riforme che hanno introdotto liberalizzazioni e privatizzazioni radicali, privando l’Italia di pezzi significativi dell’apparato industriale. E si potrebbe continuare. Una storia in cui il fallimento di una riforma è la ragione che giustifica un ulteriore, più massiccia, dose della medesima medicina.
Per capire la politica economica degli ultimi vent’anni occorre introdurre una distinzione che in Italia, in forma estrema, anticipa e chiarisce quanto avviene anche altrove. Quella tra neoliberismo e socialliberismo: due ideal-tipi, sicuramente, ma che aiutano a comprendere. Il neoliberismo del centrodestra è stato davvero liberista sul mercato del lavoro (in cui si chiede di smantellare garanzie e diritti) e sul welfare (in cui si chiede una minore tutela). Non lo è stato affatto sul mercato dei beni e dei servizi (basti ricordare come due campioni del neoliberismo, come Bush jr e Berlusconi, incarnino la tipica figura del monopolista, e non abbiano affatto operato per una autentica apertura dei mercati). Il neoliberismo non è liberista, a ben vedere, neanche sul terreno del bilancio pubblico: alla retorica in favore della riduzione dei disavanzi corrisponde una pratica che li ha fomentati (i governi Berlusconi, sin quasi alla loro fine, si sono caratterizzati per una polemica contro i vincoli europei alla finanza pubblica). D’altronde, accrescere il rosso nei conti pubblici configura un aspetto paradossale della strategia neoliberista di ‘ammazzare la Bestia’ (il disavanzo di oggi costringe il prossimo governo a politiche di compressione dell’intervento statale).
Per certi versi, il social-liberismo del centrosinistra è ben più liberista del neo-liberismo. E’ davvero per la accresciuta concorrenzialità dei mercati (un mercato più libero sarebbe il miglior regolatore del capitale: la mitologia dell’antitrust). Ed è, il social-liberismo, il più convinto sostenitore di una finanza pubblica controllata: in Italia, ciò corrisponde all’adesione del centro-sinistra ai vari vincoli che, in successione, l’Europa ha imposto (sostenendo che così si combatteva la rendita e si accresceva l’efficienza). Il social-liberismo, al contrario, non è liberista sul mercato del lavoro e sul welfare. Nel primo caso, il lavoro, dichiara di non vedere il lavoratore come ‘merce’, e dunque propugna la flessibilità invece della precarietà. Nel secondo caso, il welfare, si dichiara propenso a una riforma di segno universalistico, che allontani da uno stato assistenziale lavoristico, per proteggere il lavoratore invece del posto di lavoro, e si spinge sino a immaginare forme di reddito garantito. Un esempio statunitense è probabilmente il governo Clinton (o magari, idealmente, il francese Jospin; più pallido ancora è stato il social-liberismo del britannico Blair, al punto da stingersi in un neoliberismo moderato). In Italia, il riferimento è ai governi Prodi-D’Alema-Amato che hanno due volte interrotto il lungo dominio dei governi Berlusconi.
Lo strano e sventurato, ma non casuale, paradosso è che, nel caso italiano, i governi social-liberisti (appoggiati persino, per una certa fase, da partiti neocomunisti), una volta al governo, hanno dovuto rimandare a tempi migliori la loro anima sociale e redistributiva, in forza dello stato disastrato del bilancio pubblico, delle ricorrenti crisi globali, o dei diktat europei. A questo punto, le riforme per la flessibilità sul mercato del lavoro non potevano che degradarsi in una ulteriore precarizzazione del lavoro, e le misure per il contenimento dei disavanzi non potevano che deprimere uno sviluppo in fondo demandato al miracolo delle sole liberalizzazioni, un miracolo che non si è mai concretizzato. L’unico autentico governo liberista sinora è stato quello di Mario Monti che, al di là delle parole, sta coniugando il versante liberista del neoliberismo e del social-liberismo. E che sta aggravando la crisi italiana nel mezzo della crisi globale ed europea.
Grand Hotel Abisso
Vale per l’Italia quello che vale per l’Europa. Parafrasando le osservazioni di György Lukács sulla intelligentsia tedesca del suo tempo, i politici e i tecnocrati e gli intellettuali della eurozona, come quelli italiani, appaiono abitare un Grand Hotel Abisso. Un hotel di lusso, equipaggiato di ogni comfort, sul ciglio di un abisso che sporge sul nulla e sull’assurdo. Lo contemplano, mentre cenano in modo eccellente, o godono di arte sovraffina. Nel nostro caso, questi soggetti sembrano incapaci di impedire lo scivolamento nell’abisso – per l’Europa, e forse per l’economia mondiale.
Il caso italiano mantiene una sua eccezionalità esemplare, anche dopo l’esaurirsi, prima dello sviluppo economico dentro la c.d. golden age del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta e primi Sessanta), poi la crisi capitalistica della fine dei Sessanta e Settanta. Dagli anni Ottanta, il declino relativo dell’economia italiana ha assunto caratteri contraddittori, presentandosi progressivamente come il negativo fotografico della dinamica capitalistica mondiale nell’era del neoliberismo, e come paradigmatico del possibile destino della stagnazione europea esito del neomercantilismo.
Anche su un terreno propositivo, il caso italiano avrebbe da insegnare. Qui, come altrove, una possibile via di uscita sarebbe possibile solo a condizione di procedere a una socializzazione industriale e della struttura produttiva, una socializzazione della banca e della finanza, una socializzazione dell’occupazione. Solo riproponendo una rimessa in questione del che cosa, quanto e come produrre. In mancanza di ciò, e pure scontando che l’austerità abbia un suo termine, l’orizzonte pare essere dominato dal procedere di una lunga ristrutturazione del capitale. Ancora una volta, per quanto possa apparire singolare, il riformismo si rivela impossibile, e riforme serie sono condizionate dal prodursi di una capacità di rimessa in discussione radicale dell’ordine esistente delle cose. Non c’è da essere ottimisti.
In un intervento del 1973 dedicato a rintracciare le origini de il manifesto – il gruppo di comunisti eretici che per qualche anno seppe dar luogo ad una delle ‘rotture’ da sinistra più interessanti rispetto alla tradizione dei partiti comunisti di discendenza stalinista e leninista, che furono nella loro prima fase critici della stessa esperienza togliattiana – Lucio Magri risaliva sino ad Antonio Gramsci. Per il comunista sardo il capitalismo italiano era sì un capitalismo ‘straccione’, per molti versi arretrato produttivamente, ma questi limiti non derivavano affatto da una mancata rivoluzione borghese. Al contrario, l’Italia era il paese che aveva dato vita alla rivoluzione borghese, dove erano nate le banche e i primi centri del potere finanziario europeo. Ha patito però l’assenza del formarsi tempestivo di uno stato nazionale, un ritardo sul terreno dello sviluppo scientifico e tecnologico, la limitatezza del mercato interno, il procrastinato accumulo dei capitali, e il lento costituirsi di un autentico mercato della forzalavoro. Tutti fattori che hanno determinato il prevalere di aree di parassitismo e rendita.
Sono questi, osserva Magri, elementi che tornano nel capitalismo italiano successivo, quando esso finalmente decolla. Una eccezione, dunque, che si rivela però esemplare. Abbiamo infatti a che fare con caratteri che finiscono con il permeare di sé lo stesso capitalismo avanzato del Novecento. Ciò impone alle lotte dei lavoratori di porsi al centro delle lotte di un vasto arco di forze sociali, fuori da una pura e semplice logica dualistica del capitale ‘puro’. E ciò costringe anche a trasformare la lotta per il potere in una battaglia per l’egemonia. La rottura rivoluzionaria ne viene ridefinita come qualcosa che deve andare ben al di là della mera questione della proprietà o della distribuzione: deve investire la qualità stessa del lavoro e della conoscenza, della ricchezza e dello sviluppo. Il come, cosa, quanto produrre. Paradossalmente, come sostengono le Tesi del manifesto del 1970, l’arretratezza del capitalismo italiano si rivela una chiave di lettura privilegiata del capitalismo maturo e delle sue contraddizioni in quella che poi è stata chiamata (inappropriatamente) l’Età dell’Oro, la Golden Age.
Controintuitivamente, l’intreccio tra rendita e profitto si sarebbe rivelato, nel capitalismo italiano e non solo, condizione di uno sviluppo continuo e accelerato delle forze produttive, come anche di una vivace valorizzazione del capitale: mettendo in scacco quella tendenza ‘stagnazionistica’ che parrebbe insita nel diffondersi di aree di improduttività nel capitalismo monopolistico. D’altra parte, l’estrazione di plusvalore e l’accumulazione del capitale, invece di dare forza a potenzialità riformistiche, rinchiudevano sempre più la società in forme neo-autoritarie, in una tendenza totalitaria. Il gruppo del manifesto ne derivava l’urgenza di una frattura rivoluzionaria, di cui segnalava tutta la difficoltà,. Le Tesi parlavano di ‘maturità del comunismo’: di una forma alternativa di economia e società che vivesse già, qui ed ora, in una politicità delle lotte operaie e sociali, dove doveva sbiadire sempre più la separazione tra mezzi e fini. Una maturità che era annunciata dalla crisi finale del mondo keynesiano: come lo stesso Magri aveva lucidamente anticipato in un breve ma fulminante articolo del 1971, intitolato “Breve la vita felice di John Maynard Keynes”.
La crisi capitalistica era irriducibile al meccanico dispiegarsi di una tendenza oggettiva al crollo o un qualche comportamento soggettivo, fossero le lotte sul salario o una resistenza capitalistica al cambiamento. Era, puramente e semplicemente, il riproporsi della ricorrente tendenza alla crisi generale del modo di produzione capitalistico. Il manifesto fu in grado di cogliere, prima di altri, la radicalità della crisi come fine di un mondo: peccò, d’altra parte, nel non vedere in essa anche il lato, complementare e necessario, di ristrutturazione del capitale, di transizione da una forma all’altra della valorizzazione. E’ quest’ultimo un tema che fu disertato da quasi tutti i gruppi della sinistra estrema, tranne alcuni filoni minoritari dell’operaismo italiano estranei alla discendenza trontiana o negriana. Il riferimento positivo è qui all’analisi di una parte della redazione della rivista Primo Maggio.
Il neoliberismo come ‘keynesismo privatizzato’
Così quasi cinquant’anni fa. Mutatis mutandis, il carattere paradigmatico dell’esperienza italiana, il suo configurarsi come una eccezione esemplare, si conferma anche nella grande crisi di questi anni, e ancora prima nelle caratteristiche che ha assunto quel capitalismo cosiddetto neoliberista che ha preso il posto del capitalismo ‘fordista’ che lo aveva preceduto. Prima di tornare al caso italiano, è bene allora dire qualcosa, innanzi tutto, della crisi globale, e poi della crisi europea.
La crisi scoppia nel 2007 in un segmento del mercato finanziario statunitense, quello dei subprime. Si viveva l’apogeo del ‘neoliberismo’. Cosa era, al di là dei miti, il neoliberismo? All’inizio degli anni Ottanta, reagendo alla Grande Inflazione degli anni Settanta, venivano messe in vigore, prima dal governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, e poi da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, politiche economiche ‘monetariste’. Controllando rigidamente l’offerta di moneta, e facendo dunque schizzare verso l’alto i tassi di interesse nominali e reali (depurati dal tasso d’inflazione), si pensava di porre un freno all’aumento dei prezzi. Il risultato venne raggiunto, ma l’alto prezzo del danaro fece sì che crollassero gli investimenti privati. Intanto, la spesa pubblica, soprattutto sociale, veniva compressa, le condizioni del lavoro peggioravano, sprofondava l’occupazione, cadevano salari e domanda di consumi. Tornava lo spettro di una grande crisi per insufficienza di domanda effettiva, come negli anni Trenta, in quello che John Kenneth Galbraith aveva definito il Grande Crollo. Gli alti tassi di interesse contribuivano a far esplodere l’indebitamento pubblico, visto che i governi erano ora costretti a trovare i fondi per la propria spesa in disavanzo emettendo titoli sul mercato, e non più finanziandosi direttamente dalle Banche Centrali.
Ciò che bisogna intendere bene è che questa fase monetaristica del neoliberismo è durata abbastanza poco, e non costituisce l’essenza della nuova fase. Lo stesso Reagan, nel secondo mandato della sua presidenza, provvide a bloccare la inevitabile deriva verso la stagnazione, fornendo domanda all’interno degli Stati Uniti, grazie soprattutto a un balzo verso l’alto della spesa militare, il che produsse un aumento del deficit dello Stato. Intanto, anche la bilancia commerciale degli Stati Uniti andava in passivo nei confronti del resto del mondo, il che si traduceva in un afflusso di domanda a quei paesi ‘neomercantilisti’ che -come il Giappone, l’Est Asiatico, la Germania e il Centro-Nord Europa ottenevano profitti grazie ad esportazioni di merci in eccesso rispetto alle importazioni (a questi paesi si è oggi aggiunta la Cina, che ha però un modello relativamente originale). Il monetarismo duro dei primi tempi stava mutando in una sorta di weaponized Keynesianism – come lo ha ha recentemente definito Paul Krugman.
Pochi anni più tardi, a partire dal 1987, la svolta decisiva. Alan Greenspan sostituisce Volcker alla testa della Federal Reserve. La sua ideologia è estremamente liberista (discendente più da Hayek che da Friedman, e più da Ayn Rand che da Hayek). Ciò nonostante, egli darà una ulteriore accelerazione alla costituzione di un paradossale ‘keynesismo privatizzato’ a dominante finanziaria, quel modello che reggerà per vent’anni. Greenspan deve subito affrontare la più grave crisi borsistica dal 1929. Reagisce inondando i mercati di liquidità. La finanza si convince che, nel caso di caduta repentina e disordinata dei corsi borsistici, godrà della rete di salvataggio del c.d. Greenspan put, ovvero di un ‘pavimento’ alla caduta del prezzo delle attività finanziarie, le cui quotazioni iniziano una lunga corsa verso l’alto. L’inflazione del prezzo dei capital asset è dovuta, tra l’altro, al costituirsi di un ‘capitalismo dei fondi’ – un vero e proprio money manager capitalism, come lo ha appropriatamente chiamato Hyman P. Minsky. Le famiglie venivano così incorporate, in modo subordinato, nel corpo dei mercati finanziari, e i loro risparmi consegnati ai gestori dei ‘soldi degli altri’. Questi ultimi a loro volta imponevano alle imprese non finanziarie l’obiettivo di rendimenti elevati nel breve termine. La corporate governance era orientata ad una ristrutturazione continua.
In questo quadro, le condizioni di forza nel mercato e nel processo del lavoro non potevano che volgere a danno dei venditori di forza-lavoro. Si costituiva così la figura del ‘lavoratore traumatizzato’, termine che l’anedottica attribuisce allo stesso Greenspan. Forme originali di finanziamento accompagnavano il sorgere di nuove imprese nei settori innovativi, mentre la grande impresa verticalmente integrata veniva sostituita da unità produttive connesse in rete. L’investimento privato non era però in grado di chiudere il circuito monetario, data la caduta relativa del prezzo dei beni capitali conseguente alla stessa innovazione, neanche nel capitalismo della new economy. I risparmiatori vedevano intanto crescere, apparentemente senza limiti, il valore della loro ricchezza finanziaria. E’ proprio questa fase ‘maniacale’ del risparmiatore che ha permesso alle famiglie di indebitarsi sempre più con le banche. La figura del consumatore ‘indebitato’ spiega molto della crescita del capitalismo anglosassone degli anni Novanta e degli anni Duemila dal lato della domanda: mentre la ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza’ creava consenso e subalternità, e la centralizzazione del capitale (ormai separata dalla concentrazione), frammentava il lavoro. Se non fosse stato così, il capitalismo neoliberista sarebbe stato bloccato da una sorta di carenza originaria di domanda. La politica monetaria, attraverso il sostegno speculativo alla bolla finanziaria prima, e immobiliare poi, ha invece spinto verso l’alto la domanda privata di consumi, grazie ad una sorta di ‘effetto ricchezza’. Fu questa gestione politica della domanda effettiva -sull’asse attività finanziarie/indebitamento => consumi autonomi (cioè indipendenti dal reddito, e dai salari) -la ragione del termine keynesismo privatizzato.
L’Europa capitalisticamente più dinamica (di cui, come vedremo, fanno parte anche alcune regioni italiane, e alcuni settori industriali della penisola) procedeva secondo un diverso modello. La Germania e i suoi ‘satelliti’ (essenzialmente, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Finlandia) godevano di esportazioni nette significative, nella gran parte dirette al Sud Europa. E’ questo saldo attivo nei conti commerciali con l’estero che ha consentito alla Germania di compensare il crescente disavanzo strutturale nei confronti della Cina, e il ridursi relativo degli sbocchi negli Stati Uniti e in altre aree (Russia, America Latina) in alcune fasi. Il funzionamento del modello neomercantilista ha avuto successo anche grazie al fatto che i paesi della periferia sono stati ‘legati’ prima da un accordo di cambio che impedisse svalutazioni competitive (il Sistema Monetario Europeo, SME), poi dalla partecipazione alla moneta unica (l’Unione Monetaria Europea, UME). Per sostenere il reddito, l’occupazione, e la profittabilità della produzione interna, le aree del Sud-Europa dovevano ricorrere a disavanzi nel bilancio dello Stato. Intanto, l’industria tedesca attraversava un lungo processo di ristrutturazione in conseguenza della riunificazione, spalmando la loro filiera di produzione nei paesi vicini, e il mercato del lavoro era sottoposto a ripetute riforme. L’allargamento all’Est europeo dell’UME dava la possibilità di godere di un bacino di forza-lavoro anche qualificata.
La crisi globale
Tornerò tra poco sulla situazione europea. Osserviamo soltanto, per adesso, che la crescita trainata dalle bolle finanziarie si è rivelata insostenibile, facendo scoppiare la Grande Recessione. Inaspettatamente, per una lunga fase (la cosiddetta Grande Moderazione), proprio gli squilibri finanziari e nelle bilance di parte correnti (i cosiddetti global imbalances) avevano contribuito a dare una parvenza di stabilità e resilienza al sistema: le bolle finanziarie, contribuendo a fornire domanda effettiva; la mobilità dei fondi speculativi, raddrizzando dal lato dei movimenti dei capitali le bilance dei pagamenti. Qualcosa del genere si è ripetuto nell’area dell’euro dal 1999 al 2007. Una prima grave crisi globale , per la verità, era già scoppiata nel 2000, con lo sgonfiamento della dotcom economy, e c’erano voluti tre anni ad uscirne, appunto con la bolla immobiliare dei subprime che scoppia nel 2007. La crisi finanziaria si trasmette immediatamente al resto del globo, e segnatamente all’Europa: Germania, Francia, Inghilterra, Irlanda, Spagna, lo stesso Est Europa, ne vengono investite in pieno. La crisi reale colpisce dapprima solo alcuni paesi, quelli dove più grave era stata la bolla finanziaria. Lì frana l’attività produttiva, e da lì partono le scosse. Lo tsunami della caduta della domanda si trasferisce dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania all’Italia, e così via. Lo spettro del Grande Crollo degli anni Trenta consiglia dapprima delle politiche ‘keynesiane’. Le banche centrali inondano le economie di liquidità, a salvataggio innanzi tutto di banche e finanza; quasi ovunque i bilanci dello Stato vanno sempre più in rosso, per questo ma anche per sostenere l’economia (la manovra più rigorosamente keynesiana sarà peraltro quella della Cina, in questo stesso arco di mesi, fine 2008-inizio 2009). Questa seconda fase della crisi termina a metà 2009, quando si intravedono ‘germogli di ripresa’. La priorità diviene ora la stretta fiscale, le politiche restrittive. E’ una scelta suicida. Anche perché il risparmiatore sta passando dalla fase ‘maniacale’ a quella ‘depressiva’: è costretto a spendere meno per uscire dal debito. Lo stesso fanno le imprese, che si sono trovate all’improvviso indebitate e a cui mancano gli sbocchi. E’ la deflazione da debiti: nessuno spende, dunque i redditi cadono, e l’atteso risparmio non si materializza. Lo Stato potrebbe evitare questo destino, ma invece di stimolare l’economia con disavanzi ‘buoni’ che producono valori d’uso per la collettività e aumento del salario reale (diretto o indiretto), contribuisce alla depressione con l’austerità.
Qual è la natura di questa crisi? In Italia, come altrove, si sono riprodotte le medesime interpretazioni. Tralascio qui quelle più marcatamente mainstream: colpa dello Stato predatore, dell’eccesso o della mancanza di regolazione, e così via. Lascio pure sullo sfondo quelle letture, alla Stiglitz o Krugman, che ritengono la Grande Recessione una ‘eccezione’ di così grave portata da dover indurre a riesumare il tradizionale armamentario keynesiano, almeno per un po’. A sinistra, le visioni più diffuse sono state due. Minoritaria, la lettura marxista ortodossa, che riconduce la crisi globale alla caduta tendenziale del saggio di profitto nella sua versione tradizionale: l’aumento della composizione di capitale farebbe cadere a un certo punto la massa, oltre che il saggio del profitto. Più diffusa la lettura sottoconsumista: in un mondo di bassi salari non vi sarebbe sufficiente domanda per poter realizzare il plusvalore potenziale. Mettiamo da parte alcune considerazioni ovvie, sul terreno teorico ed empirico. Teoricamente, non pare proprio che le critiche alla necessità della caduta del saggio di profitto siano mai state controbattute efficacemente. Né si capisce come sia possibile distinguere sul piano dei ‘fatti’ le diverse forme di crisi. Se la domanda aggregata è insufficiente, o se si verificano lotte nella distribuzione o nella produzione che comprimono il saggio di plusvalore, ciò non può che far aumentare il rapporto stock di capitale/reddito nazionale, dunque il rapporto capitale costante/neovalore (ovvero una delle misure della composizione del capitale). Quello che è certo è che il neoliberismo, a dispetto della distribuzione massimamente inegualitaria, la domanda se la è saputa procurare da sé. E’ stata piuttosto una era di sovra-consumo per rispondere al vero problema che lo affligge, quello del sottoinvestimento.
A me pare sia futile il gioco di voler opporre alle cause finanziarie della crisi le cause reali: come se nel capitalismo, sempre, le due cose non fossero strettamente intrecciate; e come se nel capitalismo neoliberista, in particolare, la ragione della sua capacità di sfuggire alla tendenza alla stagnazione non stesse proprio nella finanza ‘perversa’. Serissima è invece, a me pare, la necessità di ricostruire una lettura marxiana della crisi corrente. Essa va però proposta in una ottica di lungo periodo, attenta alle diverse configurazioni che ha assunto storicamente il capitalismo. E va fondata su una rilettura della caduta tendenziale del saggio di profitto come una ‘meta-teoria’ che include in sé le altre tendenze alla crisi. Vediamo in breve. Se la Lunga Depressione di fine ottocento può essere ricondotta all’aumento della composizione in valore del capitale, la risposta capitalistica in termini dell’intreccio di innovazione tecnologica e organizzativa (fordismo e taylorismo) creò il contesto di una crisi da insufficiente realizzazione del plusvalore, il Grande Crollo. Non poteva infatti valere su scala globale la soluzione di Rosa Luxemburg, battere il sotto-investimento con esportazioni nette verso l’area non capitalistica (quella via d’uscita che, mutatis mutandis e interamente dentro il capitalismo, si ripropone nel neomercantilismo). Si uscì da quella grande crisi solo con il secondo conflitto mondiale, e poi con la capacità del ‘keynesismo’ storicamente realizzato di attivare sistematicamente quelle che Kalecki chiamò ‘esportazioni interne’. Qui l’assorbitore esterno del plusvalore è la spesa pubblica in disavanzo, che può essere finanziata con nuova moneta; e il contenuto primo di quella spesa è, ancora seguendo la Luxemburg, la spesa per armamenti, Nello stesso solco di ragionamento si può introdurre lo ‘spreco’ alla Baran e Sweezy.
Non aveva, peraltro, torto Paul Mattick a rilevare come buona parte della produzione indotta dalla spesa pubblica keynesiana non fosse affatto produzione di capitale, ma produzione tout court. La soluzione alla crisi andava allargando l’area della improduttività. La pressione sul lavoro capitalisticamente produttivo per estrarre plusvalore su scala sistematicamente crescente permaneva e si aggravava. Fu per questo che, rese possibili dalla tendenza alla piena occupazione, le lotte operaie sulla prestazione lavorativa contribuirono crucialmente a mettere in crisi il ‘fordismo’ tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Anche se non fu certo questa l’unica contraddizione di quella forma della valorizzazione, quelle lotte impedivano l’aumento del saggio di plusvalore richiesto dalle esigenze della valorizzazione. E’ su questo sfondo che si comprende meglio il neoliberismo: la sussunzione reale del lavoro alla finanza e la centralizzazione senza concentrazione sono funzionali a consentire la costituzione del neoliberismo come money manager capitalism e come privatised Keynesianism. Si costituisce così la forma originale della accoppiata finanziarizzazione-precarizzazione nel ‘nuovo’ capitalismo: un capitalismo nient’affatto asfittico, che crollerà per le contraddizioni interne ai propri fattori di forza.
Rimane da dire dell’Europa, e dell’Italia nel contesto europeo, prima di passare a considerazioni più specifiche su quest’ultimo paese. L’Europa è nel mezzo di una tormenta, economica e sociale. La crisi, sia chiaro, è venuta da fuori: ciò non significa che non sia proprio il continente europeo a poter essere all’origine non solo, come già è, di un secondo tuffo nella recessione, ma nel trasformare la Grande Recessione in uno nuovo Grande Crollo. Ed è chiaro che in ciò ha un ruolo primario il fallimentare disegno istituzionale della moneta unica, come anche è significativa la frattura neomercantilista dell’Europa. Di nuovo, però, questo fa parte della koiné interpretativa degli economisti di sinistra, anche in Italia, dopo una lunga fase in cui la spiegazione sottoconsumista si prolungava nell’idea che il problema dell’Europa fosse invece il Patto di stabilità e sviluppo – un dispositivo il cui contenuto autentico era un tentativo di disciplinamento della periferia, e che non ha mai avuto duratura applicazione.
Quando la crisi scoppia, l’onda della finanza tossica colpisce subito l’Europa, a partire dalle Landesbanken, e il collasso delle relazione interbancarie ha un impatto negativo su squilibri di lunga data. Il modello neo-mercantilista data almeno dalla fine degli anni Quaranta del Novecento. Allora il persistente avanzo commerciale tedesco era riciclato per il tramite della Unione Europea dei Pagamenti (1949-59). Negli anni Sessanta, invece, prevale la ricerca di un attivo della bilancia commerciale, in Germania come in Francia ed Italia. E’ chiaro che, allora come oggi, l’obiettivo di un avanzo per l’area europea nel suo complesso era illusorio, e che l’aggiustamento dei paesi in disavanzo (che, in assenza un meccanismo di compensazione, non poteva avvenire che per il tramite di politiche recessive) retroagiva sulle esportazioni e occupazioni degli stessi paesi in avanzo. L’alternativa per i paesi in disavanzo come l’Italia era, ovviamente, quella di svalutare: una alternativa, con poche eccezioni, impraticabile nel sistema a cambi fissi, sia pure aggiustabili, nato a Bretton Woods; sottoposta a molti vincoli nel Sistema Monetario Europeo (1979-1992); del tutto impossibile, oggi, nell’Unione Monetaria Europea.
La svalutazione fu invece praticata pienamente, e con successo, nel corso degli anni Settanta, quando l’Italia agganciò la propria valuta al dollaro facendola deprezzare rispetto al marco: la svalutazione più che compensava il deterioramento della competitività dovuto alla più elevata inflazione, tamponando l’aumento dei costi dal lato delle importazioni. Successivamente, fino alla metà degli anni Ottanta, nonostante la banda larga che le era stata assegnata e i periodici aggiustamenti al ribasso della parità della lira nello SME, la svalutazione non compensava la più alta inflazione, e ciò faceva cadere le esportazioni nette. Una tendenza che fu rinforzata nella seconda metà degli anni Ottanta, soprattutto dopo il 1987, quando lo SME divenne, di fatto, un sistema a cambi fissi senza cambiamenti nei rapporti di cambio. La posizione con l’estero fu equilibrata dalla politica della Banca d’Italia che manteneva i tassi di interesse elevati (e in particolare, più elevati di quanto necessario al finanziamento del debito pubblico), in modo da incoraggiare importazione di capitali – e, beninteso, di mantenere elevata la pressione sulle imprese e sui sindacati per spingere la ristrutturazione e la compressione dei salari. Una politica che ha contribuito a far lievitare il pagamento degli interessi sul debito pubblico, e a rendere quest’ultimo crescente a dispetto dell’ottenimento di sostanziosi avanzi primari nel bilancio dello stato.
La crisi europea
Come la Germania, anche l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, l’Austria e la Scandinavia (in particolare, Finlandia e Svezia) guadagnano avanzi commerciali nell’area europea, mentre incorrono in un disavanzo commerciale con la stessa Germania -l’unica eccezione è l’Olanda, che fornisce all’economia tedesca servizi e finanza. Il modello è il medesimo: ottenere esportazioni nette grazie a crescita della forza produttiva del lavoro, prezzi stabili e bilanci dello Stato sotto controllo. Nel periodo dello SME, e sino alla riunificazione delle due Germanie, la Repubblica Federale di Germania realizzò una quota molto elevata di esportazioni nette sul PIL, una percentuale che fu recuperata e superata solo dopo il 2007-2008. E’ così che le politiche neo-mercantiliste del Centro-Nord Europa hanno spaccato l’Europa in due, dal punto di vista della bilancia di conto corrente con l’estero. Prima l’area dello SME e ancora oggi quella dell’euro, è il luogo primario delle esportazioni nette tedesche, nonostante il successo dell’espansione in nuovi mercati. Visto il ruolo cruciale che nella sua economia ha sempre più avuto il settore finanziario, la Francia ha stretto un’alleanza con la Germania e i suoi satelliti all’insegna di una posizione anti-inflazionistica, cercando (e riuscendovi sempre meno) di incrementare le esportazioni nette riducendo le importazioni. Insieme all’Italia, anche Portogallo, Spagna e Grecia stanno ormai sitematicamente dal lato dei conti in rosso.
Nonostante i suoi sforzi la Francia si è trovata sempre più nel club dei paesi in disavanzo. Questo scivolamento ha spinto le élite francesi a cercare di condividere i benefici della stabilità monetaria condividendo con la Germania il comando sulla moneta in una moneta unica. Il Trattato di Maastricht è il termine di un processo lungo, a egemonia francese: la Germania era considerato nano politico; la Gran Bretagna gigante finanziario; l’una e l’altra, si sperava, potevano essere sussunte sotto la centralità politica e militare della Francia. Un progetto nato dentro una Europa divisa in due dal Muro di Berlino, e dalla Cortina di Ferro: un progetto destinato al con le ore contate per la riunificazione tedesca e il crollo dell’URSS. La Bundesbank si oppose alla ‘Reaganomics sul Reno’ di Kohl – finanziare i disavanzi del bilancio pubblico con debito estero invece che tramite incrementi nelle tasse. Il confronto interno con Kohl, assieme al desiderio di mettere in riga l’Italia e altri membri dello SME, indusse la Banca Centrale tedesca a far impennare il tasso d’interesse a breve nel 1991-92. La conseguenza fu di spingere verso l’alto il cambio del marco. Dal 1992 al 2000 il conto corrente della Germania nella sua interezza si deteriorò sino a divenire negativo, nonostante rimanesse lievemente positivo nel conto relativo ai beni tangibili esportati e importati, e nonostante la Germania dell’Ovest continuasse a realizzare un enorme surplus (a fronte del deficit colossale dell’Est). Questo non significò tanto la fine dell’orientamento neomercantilista, e neppure che la capacità di finanziarsi sui mercati internazionali si andasse riducendo. Ciò che stava avvenendo era l’inizio di più di un decennio di ristrutturazione capitalistica nel mercato e nel processo di lavoro, nel quadro di una grossa spinta verso la transnazionalizzazione di molte conglomerate industriali tedesche, e di un mutamento di strategia del capitale tedesco: dall’automazione alla delocalizzazione delle attività a monte verso l’Est Europa, ma anche verso aree come l’Italia del Nord. E’ a queste politiche, oltre che all’aver bloccato i paesi partecipanti all’UME in cambi irrevocabilmente fissi, che si deve il boom dell’export tedesco negli anni Duemila.
L’euro è nato con un peccato originale: la sua struttura istituzionale incarna una permanente tendenza recessiva per l’intera area, aggrava le divergenze competitive tra i membri, impone la deflazione salariale e la ristrutturazione nei luoghi di lavoro. Sono difetti che potrebbero essere contrastati solo attraverso, da un lato, una comune politica fiscale e dei trasferimenti che governi una redistribuzione delle risorse tra regioni, e dall’altro lato, politiche industriali e strutturali che contribuiscano a superare l’arretratezza di alcune aree. Viceversa, il bilancio europeo è ridicolmente basso, la regola è la competizione fiscale tra stati, e (a dispetto talora dei comportamenti effettivi) viene promossa una politica di deregolamentazione e privatizzazioni. A cui va aggiunto l’ ‘esperimento’ di una moneta senza potere statuale alle sue spalle, e di una banca centrale cui sulla carta viene impedito di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza ai governi.
Il vero quesito a cui va allora data una risposta è come mai una fragile costruzione come questa (Mario Draghi l’ha qualificata ‘un calabrone’) sia stata, prima, capace di prendere il volo alla fine degli anni Novanta e poi, per vari anni, di apparire come un successo. Il progetto della moneta unica, come ho detto, era subito franato con il crollo del socialismo reale. La Francia però pretese l’euro quale prezzo del dar via libera alla riunificazione delle due Germanie. Negli anni Novanta la new economy statunitense, e la tendenziale riduzione dei tassi di interesse, agevolarono una qualche convergenza nominale (anche per quel che riguarda i parametri relativi alla finanza pubblica). Ciò impose alla Germania, in difficoltà, di superare il proprio desiderio di costruire semmai una unione monetaria più ristretta, e le imposero di aderire alla ripresa del progetto: come sempre esigendo qualcosa in cambio. Come il Trattato di Maastricht imponeva dei parametri di convergenza, così l’introduzione dell’euro si accompagnò al Patto di stabilità e di sviluppo a Dublino e Amsterdam. La Germania ottenne anche che la BCE si configurasse persino più rigida della Bundesbank nel suo orientamento ‘monetarista’.
Nei primi anni dell’euro la Germania, che usciva dallo shock della riunificazione, come anche i suoi ‘satelliti’ beneficiavano di uno sviluppo meno veloce della periferia. La bolla immobiliare, che investiva anche l’area dell’euro, in particolare Irlanda e Spagna, spingeva verso l’alto il tasso di crescita di questi paesi, sicché non solo i loro conti pubblici apparivano virtuosi, ma essi fornivano anche domandai all’Europa del Centro-Nord. La Grecia e il Portogallo erano paesi che dovevano compensare con disavanzi nel bilancio dello Stato la (sempre più cronica) caduta delle esportazioni nette, per sostenere reddito e occupazione. Ma ciò di nuovo provvedeva sbocchi ai paesi più forti dell’area. L’annullamento del rischio di cambio, e l’(inatteso) abbattimento del premio di rischio sui prestiti ai membri dell’euro, facevano sì che il capitale dei paesi del Centro-Nord (in primis francese, tedesco e britannico) fluissero alla periferia, così come si rivolgessero alla gestione dell’ingente debito pubblico italiano. Per garantirsi rendimenti adeguati la finanza europea assumeva caratteri non troppo distanti da quella d’oltreoceano, con rilevanti investimenti nei titoli ‘tossici’; e il mercato dei titoli di stato della periferia svolgeva un ruolo simile al mercato dei subprime. Grazie alla ‘debolezza’ macroeconomica dell’area periferica i paesi forti dell’area dell’euro godevano verso l’esterno dell’equivalente di una relativa svalutazione nominale (rispetto a quello che altrimenti sarebbe stato il cambio di un euro ristretto al ‘centro’); e grazie alla deflazione competitiva fruivano anche di una svalutazione reale all’interno dell’area dell’euro. La forza strutturale della specializzazione produttiva e tecnologica tedesca, in macchine avanzate e in manifatture di alta qualità, ne veniva ulteriormente esaltata.
Quanto precede chiarisce bene perché, prima della Grande Recessione, gli squilibri commerciali in Europa non fossero considerati un problema particolarmente serio. La stessa finanza pubblica non destava particolari preoccupazioni. Tanto più che a violare le regole sono state, per ben tre volte, Germania e Francia. Anche oggi la drammatizzazione del cosiddetto debito sovrano pare malposta. Se si guarda alla eurozona nel suo complesso, il rapporto debito pubblico/PIL è comparabile o inferiore a quello di altre nazioni (US; Giappone; lo stesso Regno Unito se si computa nelle spese statali l’aiuto al sistema bancario). Ad uno sguardo non superficiale la crisi dell’eurozona si rivela tutto meno che endogena: essa è venuta dall’esterno, è stata una sorta di ‘rimbalzo’ del collasso del keynesismo privatizzato. Ciò non assolve, evidentemente, la tecnocrazia e la politica europee, né rende esente da colpe la struttura istituzionale della moneta unica. La crisi ha colpito una Europa che era già fragile per la bassa crescita precedente. I canali di trasmissione li abbiamo già accennati: la diffusione della crisi finanziaria made in USA e lo scoppio delle bolle immobiliari,, la compressione della domanda che i paesi interni all’area fornivano agli altri, la caduta delle esportazioni nel resto del mondo. Agli inizi, si deve dire, la crisi fu tamponata in vari paesi (non in Italia) grazie ad una politica economica che smentiva la retorica anti-keynesiana. Non si ebbe solo l’operare di stabilizzatori automatici, ma anche un interventismo attivo (come la settimana corta di lavoro in Germania). Quando l’emergenza cessò, si passò ad un orientamento restrittivo delle politiche economico che ha cambiato il quadro drammaticamente. A partire dalla crisi greca.
Trattare la propria moneta (come è, in effetti, l’euro per la Grecia) come se fosse una valuta straniera regolata da poteri esterni (quale fu il caso dell’Argentina), o pretendere che tra le regioni di una medesima area monetaria (dove gli squilibri commerciali non possono che essere la norma) non vigano trasferimenti compensativi, non può che preludere al disastro. Ma la crisi in Europa non è dovuta alla Grecia, come non è dovuta alla finanza pubblica. Non è, a rigore, dovuta neppure agli squilibri interni di bilancia commerciale: non solo essi sono inevitabili all’interno di qualsiasi regione; essi non pongono di per sé un rischio diretto all’unione monetaria, visto che non vi è limite alle passività che una banca centrale nazionale può registrare nei conti della BCE. Contano molto di più le contraddizioni reali sottostanti.
L’esistenza della moneta unica è in dubbio, e la sua sopravvivenza rischia di essere conquistata nel segno di una stagnazione permanente, a seguito di queste contraddizioni, esse sì endogene. D’altra parte, sarebbe sbagliato non vedere che sotto la coperta della crisi stanno procedendo mutamenti politici, economici e sociali di grande significato. Vero è che l’eurozona non può sopravvivere senza una grande trasformazione istituzionale, una trasformazione che può muovere i suoi passi solo per il tramite di una successione di crisi e drammatizzazioni. Per fare un esempio, la BCE non ha affatto seguito alla lettera le sue prescrizioni monetariste negli ultimi anni, e sta riscrivendo di fatto la sua costituzione materiale. Non solo ha agito sempre più come prestatore di ultima istanza per le banche, essa ha poi agito come finanziatore dei governi sul mercato secondario quale che fosse la retorica di facciata. Ultimamente, con Mario Draghi, ha persino promesso un acquisto ‘illimitato’ di titoli di stato di paesi dell’area oggetto di attacchi speculativi, se necessario, condizionandolo alla garanzia che le ‘riforme strutturali’ procedano.
E’ sempre più chiaro che dietro questi cambiamenti sta la costruzione esplicita di un governo, anche politico, del capitale europeo: un progetto che per realizzarsi deve muoversi prudentemente e superare strada facendo le resistenze di frazioni della classe dominante. Una austerità che tenga sotto pressione i governi, e una successione di crisi che allentino le opposizioni, sono un complemento fatale di questa strategia, la quale d’altra parte è costretta a scommettere che una qualche ripresa ci sia: ripresa che, ancora una volta, non può che venire dall’esterno della eurozona. Una ipotesi i cui margini di incertezza sono elevatissimi. Intanto, la crisi procede ‘oggettivamente’ con svalorizzazione della forza-lavoro, centralizzazione dei capitali, ristrutturazione dei processi produttivi, ‘snellimento’ del pubblico. Che così la crisi non divenga permanente è tutto da dimostrare. Una inversione di rotta potrebbe essere imposta solo dalla politica e dalla società. Richiede però di riconoscere la posta in gioco, e i mutamenti del capitale.
Il caso italiano
Veniamo ora più specificamente al caso italiano. L’Italia è spesso, e con molte ragioni, raffigurata come il malato d’Europa. Le ragioni principali che vengono addotte riguardano quattro dimensioni. La prima è la finanza pubblica. La seconda è l’andamento del reddito pro-capite e della produttività per addetto. Il terzo è il declino produttivo. Il quarto la perdita di competitività e il rosso nei conti con l’estero.
Vale la pena di guardare più in dettaglio. L’Italia ha vissuto una rilevante crescita del debito pubblico. I suoi inizi possono essere collocati alla metà degli anni Sessanta (quando, a fronte di un blocco dell’investimento privato, l’operatore pubblico effettuò investimenti compensativi, in particolare nel Mezzogiorno), e all’inizio degli anni Settanta (quando vennero introdotte delle riforme sociali, senza che vi fosse allora un contemporaneo aumento delle entrate, per un ritardo nella messa in atto della prevista riforma fiscale). L’aumento del rapporto disavanzo/PIL, e dunque del rapporto debito/PIL, era comunque estremamente modesto. Lo Stato intervenne significativamente anche a fine anni Settanta, con una spesa pubblica direttamente (sussidi alle imprese) o indirettamente (trasferimenti alle famiglie) funzionale alla ristrutturazione produttiva. Ma in quel caso l’aumento della spesa pubblica fu pressoché interamente coperto dalla crescita delle entrate fiscale. La ragione stava principalmente nel fatto che l’aumento dei salari, allora indicizzati all’inflazione via il meccanismo della scala mobile, comportava l’aumento dei redditi nominali, che venivano di conseguenza colpiti da un aumento delle aliquote fiscali in conseguenza della natura progressiva del nuovo sistema fiscale (il cosiddetto drenaggio fiscale).
In Italia, come e più che altrove, i problemi della finanza pubblica emergono davvero soltanto con la svolta neoliberista, a inizio anni Ottanta, e il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. I disavanzi nel bilancio statale vengono finanziati collocando presso i risparmiatori titoli a tassi di interesse crescenti. E’ però anche vero che quel decennio fu caratterizzato da ciò che Marcello De Cecco ha definito un ‘keynesismo criminale’, ovvero dall’espansione di una spesa pubblica segnata da improduttività e corruzione (sino all’inchiesta Mani Pulite che porrà un termine alla Prima Repubblica). Inoltre, come abbiamo già ricordato, dal 1987 la Banca d’Italia tiene i tassi di interesse elevati per scelta politica. In quel decennio il debito pubblico italiano esplode tanto in termini assoluti, quanto relativamente al PIL. Non si deve peraltro dimenticare che quest’ultimo indicatore dipende dalla dinamica del denominatore, e quindi patisce la diminuzione dei tassi di crescita, che si abbassano continuamente un decennio dopo l’altro. Gli anni Novanta, caratterizzati dall’accumulo costante di un avanzo primario, vedono in effetti prevalere questi due fattori: il crescere del debito pubblico per il gonfiamento continuo della spesa per interessi pregressi, e la caduta del PIL. Una situazione che fu presa a pretesto per una ondata di privatizzazioni che non ha avuto eguali negli altri paesi avanzati. I miglioramenti delle condizioni della finanza pubblica sono quasi sempre stati dovuti, oltre al succedersi di manovre di controllo della spesa e aumento delle imposte (in condizioni di larga evasione fiscale), a fattori esterni: come - dalla metà degli anni Novanta e sino alla crisi della dotcom economy, e come nel quinquennio prima della crisi del 2008 - la caduta esogena dei tassi di interesse, o una crescita anch’essa trainata dall’esterno.
Questo è però vero anche dei recenti peggioramenti, e qui sta una singolarità della crisi attuale. L’Italia, fino a metà del 2011, non dava particolari preoccupazioni sul fronte della finanza pubblica. E’ senz’altro il paese europeo che meno di altri si è impegnato in politiche attive anticicliche durante la crisi, e che meno di altri ha visto crescere i disavanzi. Ed è il paese che nel mondo, da vent’anni, ha maturato il più alto avanzo primario cumulato nel bilancio dello stato. Eppure, ciò non è bastato a impedire di finire nella tormenta della speculazione. In questo caso, non ha senso prendersela con le agenzie di rating, o con i ‘mercati’. Il punto è che, come l’Europa è entrata in crisi per una crisi importata, lo stesso si può dire per l’Italia. L’incapacità europea di gestire la crisi greca - una iniziale remissione del debito avrebbe avuto costi ridotti anche se avrebbe comportato un problema serio, ma gestibile, di contagio; invece l’atteggiamento punitivo ha incancrenito le difficoltà greche e propagato le difficoltà dall’Irlanda al Portogallo, dalla Spagna all’Italia - e la svolta verso una generalizzata politica di austerità hanno condotto all’abbattimento ovunque del tasso di crescita del reddito nazionale, sino a toccare la stessa Germania. Nonostante la compressione della dinamica dei disavanzi, il rapporto debito/PIL è aumentato nettamente per la caduta del denominatore, sfondando il 120% e andando sempre più oltre. Se è vero che dal lato dei flussi il bilancio pubblico italiano non destava preoccupazioni, lo stock rimaneva significativo. Le aspettative di deterioramento dell’intero scenario europeo hanno spinto verso l’alto lo spread dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico, dunque anche quelli dei BOT rispetto ai Bund. Ciò era a sua volta aggravato dalla fuga dei capitali e dei depositi bancari, che abbandonavano le aree periferiche per quelle centrali dell’eurozona, in primis la Germania. Riappariva per questa via il rischio di convertibilità, nel caso di una dissoluzione dell’unione monetaria, che ormai non era possibile escludere. Con tassi di interesse che minacciavano di superare il 7%, diveniva del tutto comprensibile il calcolo che nel giro di un paio d’anni (con uno scarto enorme tra tasso di interesse e tasso di crescita, e con la necessità di rifinanziare ingenti ammontare di titoli nelle aste successive) il debito pubblico italiano divenisse insostenibile. In questi casi, come è noto, l’evento futuro viene anticipato dai mercati, e il pericolo si concretizza nell’immediato.
Ne consegue che i veri problemi italiani stanno nella bassa crescita, più che nella finanza pubblica. Semmai, le politiche per abbattere il debito pubblico si rivelano controproducenti. Negli ultimi due anni la crisi italiana si presenta di particolare gravità nel contesto europeo perché è l’Italia il paese che -con l’ultimissima fase del governo Berlusconi, prima, e il governo di Mario Monti, poi -ha fatto uno sforzo di restrizione fiscale tra i più drastici in Europa, frenando la domanda interna, e affidandosi esclusivamente (nel bel mezzo di una crisi generale) al contributo della domanda estera netta. Se guardiamo al primo decennio degli anni Duemila, vediamo che la dinamica del PIL italiano è stata praticamente nulla, a fronte di una bassa crescita francese e tedesca (salvo negli ultimissimi anni, prima di una ricaduta della stessa Germania nella recessione), e di una crescita ben più sostenuta della ‘periferia’ prima della crisi. La crescita italiana aveva iniziato a essere più bassa della media europea già dagli anni Novanta; media europea che a sua volta era sopravanzata nettamente dalla velocità di sviluppo degli Stati Uniti (per non dire della Cina e di gran parte dei paesi asiatici). Un destino di stagnazione che accomuna l’Italia al Giappone. Ancora peggio vanno le cose per quel che riguarda la produttività per addetto, che sempre nel primo decennio del nuovo millennio è stata addirittura negativa. I fattori che hanno condotto a questo esito sono noti. L’Italia ha vissuto una tendenza di lungo periodo alla riduzione dell’occupazione nell’industria manifatturiera, con un crollo in particolare nelle imprese di grandi dimensioni. La grande industria è quasi scomparsa, a parte la Fiat, in crisi sul mercato interno ed europeo. Ciò ha significato l’abbandono, o la marginalizzazione, di numerosi settori (elettronica, telecomunicazioni, chimica e petrolchimica, farmaceutica, macchine per uffici, mezzi di trasporto). L’ondata di privatizzazioni ha trasformato molte concentrazioni pubbliche in imprese private collettrici di rendite. Predomina la dimensione piccola e piccolissima delle unità produttive, il cosiddetto ‘nanismo’. I ‘distretti industriali’, una volta fiorenti, sono in molte zone in crisi. La specializzazione dei produttori italiani è per lo più in settori tradizionali. Basso è l’impegno nella ricerca e sviluppo o nell’innovazione di prodotto. Gli investimenti sono stati adattivi, e la domanda di nuovi beni capitali si traduce sovente nell’importazione di macchinari dall’estero.
Tutto ciò non stupisce. Non stupisce perché (come si è ricordato) la bassa produttività è la naturale conseguenza, innanzi tutto, di una massiccia ondata di privatizzazioni. Non stupisce, poi, perché alla carenza di innovazione e politiche industriali si è sopperito con un’altra eccezionalità esemplare, cioè una continua deregolamentazione del mercato del lavoro, quale che fosse il colore dei governi, che pretendendo di aumentare la flessibilità del lavoro ne produceva invece una vistosa precarizzazione. Non stupisce, infine, perché quanto precede si traduceva in una dinamica ridotta dei salari unitari (anche se il costo del lavoro per unità di prodotto poteva nondimeno aumentare, vista appunto la bassa produttività per lavoratore). Diveniva quindi possibile ottenere profitti o sopravvivere sui mercati senza rinnovare gli impianti, ma sfruttando di più la forza-lavoro, lungo la via bassa di una più intensa e lunga durata del tempo di lavoro. Sono i bassi salari e la precarizzazione del lavoro a dare conto di un dato che altrimenti potrebbe stupire: che questa realtà produttiva declinante si sia accompagnata a una significativa riduzione della disoccupazione. Se è vero che in Italia, al di là dei problemi cronici del Mezzogiorno, i tassi di attività sono più bassi della media europea (e ciò è ancor più vero per le donne), prima della crisi si potrebbe quasi parlare di piena occupazione: si trattava però una piena sottooccupazione di una forza-lavoro spesso precaria e malpagata.
A questo punto pare trovare spiegazione il crescente disavanzo della bilancia di conto corrente. In un contesto di investimenti non particolarmente dinamici, di bassi salari, di disavanzi pubblici tenuti sotto controllo, la spinta a trovare domanda nei mercati esteri si è scontrata con il problema della ridotta competitività (dovuta alla bassa innovazione, alla precarietà, alla dimensione d’impresa, alla specializzazione settoriale). Ciò si è accoppiato al fatto che nell’UME l’Italia ha subito il cambio ormai irrevocabilmente fisso: la sua inflazione più elevata e la sua produttività azzerata hanno determinato l’ascesa relativa del costo del lavoro per unità di prodotto. Dentro l’area dell’euro, la possibilità della svalutazione competitiva è stata cancellata, e si è rimasti disarmati rispetto alla deflazione competitiva. Le difficoltà sempre più gravi nella bilancia delle partite correnti si riflettevano in un forte indebitamento con l’estero, e in una crescente quota del capitale straniero nel rifinanziamento del debito pubblico -quest’ultima circostanza, se all’inizio ne riduceva i costi, nel lungo periodo accresceva la vulnerabilità dell’Italia alle fughe dei fondi e agli attacchi della speculazione.
Il sistema bancario italiano, che è andato soggetto dagli anni Novanta a un sostenuto processo di centralizzazione, è parso nel complesso relativamente solido nel mezzo della crisi, almeno sino a tempi recenti. Ciò è stato dovuto alla natura ancora fortemente banco-centrica del finanziamento dell’industria, alla cautela delle strategie di prestito degli istituti di credito, alla presenza di molti titoli di stato nell’attivo del loro bilancio. L’indebitamento delle famiglie, seppure crescente, si situa in Italia al di sotto dei livelli del capitalismo anglosassone; ed è relativamente elevata la ricchezza detenuta dalle famiglie (più benestanti) rispetto al reddito. In effetti, se, invece che il rapporto debito/PIL, si volge lo sguardo al rapporto debito pubblico/ricchezza finanziaria netta delle famiglie o al rapporto debito pubblico /patrimonio (inclusivo delle abitazioni), l’Italia passa dalle economie ‘malate’ a quelle più ‘sane’. Questi elementi contraddittoriamente positivi si sono ultimamente rovesciati in un problema da quando l’Italia è stata investita con violenza dalla crisi del debito sovrano, e da quando le famiglie hanno dovuto iniziare a ricorrere al decumulo del loro risparmio per sostenere il consumo a fronte dell’austerità praticata dalla politica economica.
Il quadro negativo sulla produttività e sulla bilancia commerciale va peraltro qualificato. Per quanto riguarda la produttività, il suo basso livello è dovuto, oltre che alle carenze strutturali che ho ricordato, alla bassa produzione legata alla bassa domanda. Prima della crisi, l’Italia cresceva sì poco, ma più della Germania; e le aree che crescevano di più lo facevano sulla spinta del debito privato, che si è rivelato insostenibile. Per quanto riguarda la bilancia commerciale, basti segnalare che l’Italia è il secondo esportatore manifatturiero d’Europa, e che il suo passivo scompare se si escludono le importazioni legate alla dipendenza energetica. In particolare, si riscontra un surplus manifatturiero in settori come l’abbigliamento, la moda, il vino, l’automazione e la meccanica non elettronica: ovvero il made in Italy di qualità, e la subfornitura dell’apparato produttivo del centro-Europa. Già nella crisi del 2000-2003 l’Italia ha visto una sorta di selezione forzata all’interno dell’universo delle piccole e medie industrie: da un lato, vedendo andare in crisi o esternalizzare ad Est i segmenti più poveri; e, dall’altro lato, vedendo ridurre le quantità prodotte ma crescere la qualità e il valore aggiunto per quel che riguarda le imprese più dinamiche. In questa parte dell’apparato industriale italiano la produttività oraria è significativa (e certo i salari non ne tengono il passo). Il declino dei vecchi distretti industriali si accompagna al parto di quello che viene chiamato il ‘quarto capitalismo’: le ‘multinazionali tascabili’, forti nell’innovazione e nel marketing, capaci di penetrare i mercati d’oltrefrontiera e di effettuare investimenti diretti all’estero. Il limite di questo fenomeno, come già era stato nel caso dei distretti, è che non può esaurirsi in queste imprese la presenza industriale di un paese avanzato come l’Italia. E’ una configurazione fragile: le piccole e medie imprese sono incapaci di raggiungere autonomamente una massa critica nella ricerca e sviluppo; la crescita dipende dalle alterne vicende della domanda estera; non si costruisce una coerenza e completezza della struttura intersettoriale dell’economia. Ciò obbliga, per sopravvivere, a una ristrutturazione continua e, in molti casi, a un peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro, quanto più migliora la qualità della concorrenza della Cina e dei paesi emergenti.
Una crisi che viene da lontano
Se si vuole comprendere i fattori specifici di crisi dell’economia italiana, bisogna risalire molto indietro. La frattura è da collocare a metà degli anni Sessanta del Novecento, a separare la fase del miracolo economico, da quella della successiva crisi e incertezza che si prolunga sino agli anni Ottanta, sino al successivo declino relativo. L’Italia era uscita dalla guerra con una situazione di apparente debolezza. Una elevatissima disoccupazione (ufficiale e nascosta), la presenza di una dose significativa di capitalismo di stato (come eredità degli interventi del fascismo nella crisi degli anni Trenta), un ritardo tecnologico delle grandi imprese (frutto anche della precedente politica di autarchia), la presenza significativa di aree non capitalistiche, il dualismo territoriale tra Nord più avanzato e Sud arretrato. Nondimeno, tra il 1950 e il 1962 l’Italia seppe trasformare in risorse molte di queste caratteristiche, e fu tra le economie a crescita più veloce, anche in forza della scelta lungimirante di aprirsi al commercio internazionale e di partecipare da protagonista all’integrazione europea. I bassi salari garantivano elevati profitti, che venivano reinvestiti per l’ammodernamento tecnologico, in beni capitali dal progresso tecnico incorporato che elevavano la produttività. Il settore pubblico ebbe un ruolo trainante nella prima metà degli anni Cinquanta, mentre fu il settore privato a dominare gli anni successivi sino all’inizio del successivo decennio. Le esportazioni crescevano velocemente. Come nel resto del mondo capitalistico, furono l’elevata spesa pubblica, le esportazioni, e l’investimento privato a trascinare dal lato della domanda una economia capitalistica che godeva dell’elevata distruzione di capitale dovuta alla guerra, e del keynesismo militarizzato statunitense. Una peculiarità italiana fu l’elevata presenza di aree di rendita e di improduttività: grazie al ruolo del consumo puro che veniva da questi strati sociali si poteva chiudere il circuito della riproduzione capitalistica. In tal modo, peraltro, si riproduceva in Italia, sia pure in forma caricaturale, il ruolo che lo spreco e la spesa del plusvalore come reddito (e non come capitale) giocavano nel capitale monopolistico.
Questo modello andò precocemente in crisi all’inizio degli anni Sessanta. Nel triangolo industriale si raggiunse la ‘piena occupazione’, e ciò dette luogo a lotte salariali molto vivaci. Intanto, l’apertura della Democrazia Cristiana ai socialisti e le prime riforme del centro-sinistra spaventavano il capitale italiano, che reagiva con la fuga dei capitali. La Banca d’Italia rispose ai due eventi in sequenza, prima favorendo il recupero dei profitti per la via inflazionistica (il che, nel sistema a cambi fissi di Bretton Woods, si traduceva in una bilancia commerciale negativa), e poi con la deflazione, restringendo l’offerta di moneta per comprimere produzione e occupazione. La posizione estera del paese migliorò, e i salari crollarono. Il punto è che alla metà degli anni Sessanta il capitale ‘produttivo’ accompagnò questi eventi e politiche con uno sciopero degli investimenti, e scelse di riguadagnare profittabilità per la sola via della compressione salariale e della maggiore intensità del lavoro, e non grazie ad un aumento della forza produttiva del lavoro. Ciò spiega la radicalità delle lotte operaie della fine degli anni Sessanta e primi Settanta, pur in un contesto che non era più di piena occupazione (ma di segmentazione della domanda di lavoro delle imprese). Il conflitto si estese dal salario alla condizione di lavoro. Le lotte operaie erano state precedute e contaminate dalle lotte studentesche, e seppero estendersi al resto della società – il lungo ‘autunno caldo’ italiano, che terminò davvero solo alla fine del decennio.
Al nuovo round dei conflitti di lavoro, interni allo stesso processo di valorizzazione, il capitale italiano reagì subito con il decentramento produttivo, poi dal 1973 con la svalutazione (per consentire una maggiore corsa dell’inflazione italiana rispetto a quella dei paesi concorrenti), infine dalla metà degli anni Settanta con una innovazione tecnologica nella grande impresa. Ciò, insieme al ricordato sostegno dello Stato alla ristrutturazione capitalistica via sussidi alle imprese e trasferimenti alle famiglie, seppe rimettere in corsa il capitalismo italiano, ma su una traiettoria debole e reattiva. La svolta nei rapporti di classe fu sanzionata dalla sconfitta alla Fiat nell’ottobre del 1980. Il keynesismo criminale e la estesa corruzione degli anni Ottanta furono la cappa sotto la quale si muoveva con difficoltà un capitalismo con sempre meno grandi imprese e in via di deindustrializzazione, salvo l’innegabile vitalità dei distretti industriali in quella che venne allora battezzata Terza Italia (il Centro Italia e il Nord-Est). L’investimento delle imprese italiane, che negli anni del miracolo era quantitativamente superiore a quello dei concorrenti, si riduceva rispetto alla media europea: mentre, prima come dopo, latitava l’investimento in conoscenza. La crescita capitalistica finiva sempre più col dipendere da un traino esterno, dalla spesa improduttiva, dalle aree di rendita.
E’ per queste ragioni che l’economia italiana si affaccia debole alla frantumazione dello SME conseguente alla riunificazione tedesca. Riesce ancora per qualche anno il vecchio gioco della svalutazione competitiva, facilitato dalla deindicizzazione del salario e dal peggioramento delle condizioni della contrattazione sindacale. Il salario nominale segue a malapena e in ritardo l’inflazione, depurata degli aumenti del prezzo delle materie prime e delle tariffe, e viene ulteriormente falcidiato dal drenaggio fiscale. Inizia la stagione delle ‘riforme’, tra le più radicali in Europa. In primo luogo, la riforma delle pensioni, che passano dal sistema a ripartizione a quello contributivo. Una riforma ingiustificata: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali (al netto delle ritenute fiscali) continua ad essere positivo, nonostante l’invecchiamento della popolazione, ed è anzi sempre più rilevante, andando in realtà a migliorare le condizioni della finanza pubblica. La stessa quota della spesa pensionistica sul PIL, a dispetto degli allarmismi, è nella norma europea, se non inferiore: le statistiche usualmente addotte per sostenere il contrario erroneamente computano forme di salario differito (come il Trattamento di Fine Rapporto) come prestazioni previdenziali, e non tengono conto del differente trattamento fiscale. Poi le riforme del mercato del lavoro, in nome di una maggiore pretesa flessibilità, che hanno invece diffuso incertezza e precarietà, rallentando l’investimento innovativo. Ancora, le riforme che hanno introdotto liberalizzazioni e privatizzazioni radicali, privando l’Italia di pezzi significativi dell’apparato industriale. E si potrebbe continuare. Una storia in cui il fallimento di una riforma è la ragione che giustifica un ulteriore, più massiccia, dose della medesima medicina.
Per capire la politica economica degli ultimi vent’anni occorre introdurre una distinzione che in Italia, in forma estrema, anticipa e chiarisce quanto avviene anche altrove. Quella tra neoliberismo e socialliberismo: due ideal-tipi, sicuramente, ma che aiutano a comprendere. Il neoliberismo del centrodestra è stato davvero liberista sul mercato del lavoro (in cui si chiede di smantellare garanzie e diritti) e sul welfare (in cui si chiede una minore tutela). Non lo è stato affatto sul mercato dei beni e dei servizi (basti ricordare come due campioni del neoliberismo, come Bush jr e Berlusconi, incarnino la tipica figura del monopolista, e non abbiano affatto operato per una autentica apertura dei mercati). Il neoliberismo non è liberista, a ben vedere, neanche sul terreno del bilancio pubblico: alla retorica in favore della riduzione dei disavanzi corrisponde una pratica che li ha fomentati (i governi Berlusconi, sin quasi alla loro fine, si sono caratterizzati per una polemica contro i vincoli europei alla finanza pubblica). D’altronde, accrescere il rosso nei conti pubblici configura un aspetto paradossale della strategia neoliberista di ‘ammazzare la Bestia’ (il disavanzo di oggi costringe il prossimo governo a politiche di compressione dell’intervento statale).
Per certi versi, il social-liberismo del centrosinistra è ben più liberista del neo-liberismo. E’ davvero per la accresciuta concorrenzialità dei mercati (un mercato più libero sarebbe il miglior regolatore del capitale: la mitologia dell’antitrust). Ed è, il social-liberismo, il più convinto sostenitore di una finanza pubblica controllata: in Italia, ciò corrisponde all’adesione del centro-sinistra ai vari vincoli che, in successione, l’Europa ha imposto (sostenendo che così si combatteva la rendita e si accresceva l’efficienza). Il social-liberismo, al contrario, non è liberista sul mercato del lavoro e sul welfare. Nel primo caso, il lavoro, dichiara di non vedere il lavoratore come ‘merce’, e dunque propugna la flessibilità invece della precarietà. Nel secondo caso, il welfare, si dichiara propenso a una riforma di segno universalistico, che allontani da uno stato assistenziale lavoristico, per proteggere il lavoratore invece del posto di lavoro, e si spinge sino a immaginare forme di reddito garantito. Un esempio statunitense è probabilmente il governo Clinton (o magari, idealmente, il francese Jospin; più pallido ancora è stato il social-liberismo del britannico Blair, al punto da stingersi in un neoliberismo moderato). In Italia, il riferimento è ai governi Prodi-D’Alema-Amato che hanno due volte interrotto il lungo dominio dei governi Berlusconi.
Lo strano e sventurato, ma non casuale, paradosso è che, nel caso italiano, i governi social-liberisti (appoggiati persino, per una certa fase, da partiti neocomunisti), una volta al governo, hanno dovuto rimandare a tempi migliori la loro anima sociale e redistributiva, in forza dello stato disastrato del bilancio pubblico, delle ricorrenti crisi globali, o dei diktat europei. A questo punto, le riforme per la flessibilità sul mercato del lavoro non potevano che degradarsi in una ulteriore precarizzazione del lavoro, e le misure per il contenimento dei disavanzi non potevano che deprimere uno sviluppo in fondo demandato al miracolo delle sole liberalizzazioni, un miracolo che non si è mai concretizzato. L’unico autentico governo liberista sinora è stato quello di Mario Monti che, al di là delle parole, sta coniugando il versante liberista del neoliberismo e del social-liberismo. E che sta aggravando la crisi italiana nel mezzo della crisi globale ed europea.
Grand Hotel Abisso
Vale per l’Italia quello che vale per l’Europa. Parafrasando le osservazioni di György Lukács sulla intelligentsia tedesca del suo tempo, i politici e i tecnocrati e gli intellettuali della eurozona, come quelli italiani, appaiono abitare un Grand Hotel Abisso. Un hotel di lusso, equipaggiato di ogni comfort, sul ciglio di un abisso che sporge sul nulla e sull’assurdo. Lo contemplano, mentre cenano in modo eccellente, o godono di arte sovraffina. Nel nostro caso, questi soggetti sembrano incapaci di impedire lo scivolamento nell’abisso – per l’Europa, e forse per l’economia mondiale.
Il caso italiano mantiene una sua eccezionalità esemplare, anche dopo l’esaurirsi, prima dello sviluppo economico dentro la c.d. golden age del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta e primi Sessanta), poi la crisi capitalistica della fine dei Sessanta e Settanta. Dagli anni Ottanta, il declino relativo dell’economia italiana ha assunto caratteri contraddittori, presentandosi progressivamente come il negativo fotografico della dinamica capitalistica mondiale nell’era del neoliberismo, e come paradigmatico del possibile destino della stagnazione europea esito del neomercantilismo.
Anche su un terreno propositivo, il caso italiano avrebbe da insegnare. Qui, come altrove, una possibile via di uscita sarebbe possibile solo a condizione di procedere a una socializzazione industriale e della struttura produttiva, una socializzazione della banca e della finanza, una socializzazione dell’occupazione. Solo riproponendo una rimessa in questione del che cosa, quanto e come produrre. In mancanza di ciò, e pure scontando che l’austerità abbia un suo termine, l’orizzonte pare essere dominato dal procedere di una lunga ristrutturazione del capitale. Ancora una volta, per quanto possa apparire singolare, il riformismo si rivela impossibile, e riforme serie sono condizionate dal prodursi di una capacità di rimessa in discussione radicale dell’ordine esistente delle cose. Non c’è da essere ottimisti.
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