Credo che nessuna delle democrazie europee abbia furia di cambiare
la propria Costituzione come l’Italia. Uno apre il giornale e trova un
giorno sì e un giorno no l’annuncio di modifiche urgenti. Sabato scorso,
il Presidente della Repubblica ci ha informato che vigilerà sui tempi
dei cambiamenti, che auspica molto rapidi; anche se in un sistema come
il nostro, a dire il vero, il suo compito non sarebbe vigilare sui tempi
dei cambiamenti ma sulla fedeltà e permanenza della legge fondamentale
sulla quale è stata incardinata la nostra Repubblica.
È dunque da discutere, prima di ogni altra cosa, se i cambiamenti
siano necessari oppure, al contrario, rappresentino un vulnus
all’immagine fondamentale che ci siamo dati dopo il fascismo. Che cosa
sarebbe cambiato nella nostra società al punto da dover mutare i
principi stabiliti nel 1948? In verità, come si vede facilmente, è
cambiato soprattutto il punto di vista dominante sulla struttura
sociale, come se il trionfo del neoliberismo su un impianto che era,
come dovunque in Europa, piuttosto keynesiano, comportasse non
l’adeguamento delle leggi normali ai principi costituzionali – come
dovrebbe essere – ma il contrario. È un problema, anzi – diciamolo – una
“malattia” che dovrebbe farci riflettere.
Di fatto, la prima parte della Costituzione del 1948, mancando
perlopiù di una regolamentazione legislativa, resta puramente ottativa:
che l’Italia sia una repubblica fondata sul lavoro non è che un
auspicio, come il diritto di ciascuno ad avere un impiego o una casa. La
prima Repubblica ha vissuto al proprio interno lo scontro fra chi
voleva rendere effettivi questi principi e chi vi si opponeva; sono
rimasti in gran parte irrealizzati. La seconda o terza Repubblica
(dipende dai punti di vista) si dà da fare sia a destra sia a sinistra
per modificare la seconda parte della Costituzione, cioè l’assetto
istituzionale italiano. Già lo ha fatto sul Capitolo V un governo di
centrosinistra e adesso quello delle “larghe intese” sembra tutto
tentato nientemeno che dal presidenzialismo, preferibilmente “alla
francese”, perché sembra meno rigido, in quanto obbliga il presidente,
eletto a suffragio universale, ad avere però l’accordo del parlamento,
anche se eletto da una maggioranza diversa.
In verità quella francese, ideata da De Grulle, è un monarchia sotto
veste repubblicana, abbastanza laica, ma nella quale onori e oneri del
presidente sono evidentissimi. Probabilmente De Gaulle li ha voluti per
fare la pace in Algeria senza dover passare dalle Camere, come
Mitterrand ha abolito la pena di morte. Ma ne è conseguita, e permane,
una diminuzione clamorosa del ruolo del parlamento. Se l’Italia deve
seguire questa strada, mi sembra elementare che si debba discuterne,
almeno quanto ne discussero i padri costituenti; non sarebbe decente che
le “larghe intese” fra due o tre grossi partiti decidessero tutto.
Per conto mio, da semplice cittadina che viene da lontano, penso che
la discussione vada aperta subito e sono lontana dal credere che il
presidenzialismo sia una buona soluzione a problemi e scogli tutti
politici, e niente affatto istituzionali. È persino stupefacente che
oggi molti movimenti e tutti i partiti, non solo i Cinque stelle,
domandino il massimo del riavvicinamento della politica ai cittadini e
il massimo del potere nelle mani di uno solo, come sarebbe il
presidente. È il paradosso dell’odierna confusione che regna. E si deve
al fatto che i partiti, considerati dalla Costituzione canali necessari
della rappresentatività, sono diventati all’opposto il collo di
bottiglia attraverso il quale è costretta la rappresentanza, con i
relativi difetti e quando non l’illegalità. Contro se stessi, i partiti
non hanno finora accettato di darsi degli statuti e delle regole che ne
garantiscano realmente la trasparenza, ma potrebbero darseli.
Questo vale anche per il finanziamento che potrebbe essere non solo
ridotto, ma soprattutto tale da garantire al sistema partitico di
rinnovarsi, invece che, come ora, riprodurre soltanto i più forti. Come
può presentarsi oggi un partito nuovo? Sono le elezioni che ne
confermano o smentiscono la legittimità e il ruolo, tutta la questione
del “voto utile” si impaluda qui; se in partenza ad ogni elezione i
diversi partiti sono in una diversa posizione di forza e di mezzi, è
evidente che ogni competizione viene falsata: nessuna gara sportiva
accetterebbe un sistema analogo. Per cui abbiamo pochi grandi partiti
difficilissimi da intaccare e piccole formazioni che non riescono ad
affermarsi oppure – variante che preoccupa gli uni e gli altri – spinte
populiste, del tutto aliene da qualsiasi regola, generalmente nelle mani
di un paio di capi, più o meno carismatici, schiamazzanti e
incontrollati.
La difficoltà di darsi una legge elettorale che non sia l’attuale
capolavoro di Calderoli viene da questa situazione preliminare. È
sorprendente come la si accetti, quasi fosse una necessità e non una
violazione di quel principio costituzionale per il quale ogni cittadino è
uguale nel voto e dovrebbe quindi essere uguale nel diritto a farsi
rappresentare. Da un bel po’ di anni, sia a destra sia a sinistra questo
principio è stato abbattuto dalla priorità data al concetto di
“governabilità”: in parole povere, esso significa passar oltre alla
rappresentanza integrale per assicurare artificialmente, attraverso
sbarramenti o premi, a una minoranza espressa dal voto una maggioranza
di seggi nelle istituzioni legislative. Che non si riesca, perché da
quasi nessuna parte lo si vuole, neppure a ridurre il premio di
maggioranza attuale, che sposta del tutto la rappresentanza, appare
addirittura sorprendente. Di che democrazia stiamo parlando? L’Italia è
realmente una democrazia parlamentare o una oligarchia formata dai
vertici di alcuni grandi partiti, che dominano le istituzioni? Una come
me pensa che i partiti siano necessari per raggruppare e ordinare le
diverse idee di società e le misure legislative che ne conseguono; ma
non sono affatto la democrazia in sé. Questo è il problema principale di
oggi, e implica che ci si confronti di nuovo su cosa intendiamo per
democrazia nel 2013. Il documento di Fabrizio Barca, che nessuno in
Parlamento discute, affronta in modo interessante il passaggio – che
sembra obbligato – fra democrazia rappresentativa e formazione dello
stato. Passaggio che sarebbe eliminato se si riconoscesse la differenza
radicale fra ruolo dei partiti e ruolo, anzi natura, dello stato.
Fin qui il cambiare o mantenere la Costituzione sembra un tema che
riguarda gli assetti istituzionali, che pure sono essenziali, ma non si
tratta solo di questi. L’intera struttura dei diritti sociali ne
dipende, giacché è evidente che quel che chiamiamo un po’
approssimativamente il welfare si esprime in modo diverso secondo le
diverse ideologie, cioè la coscienza di sé e la proposta di assetto
istituzionale e di società che avanzano le diverse parti politiche e
“sociali”. L’ideologia capitalista tende a ridurre il welfare, cioè i
diritti vitali dei cittadini rispetto non soltanto allo stato ma ai
poteri economici; la sinistra più o meno socialisteggiante tende, anzi –
per la verità – tendeva, ad allargarli; l’ideologia “liberale” a
restringerli.
Ne deriva un’idea diversa, per non dire antagonista, delle principali
regole economiche: la destra vuole ridurre al minimo la fiscalità,
intesa come presenza di uno stato regolatore con l’obiettivo di ridurre
le disuguaglianze. La sinistra tende ad ampliarla in senso progressivo
(con l’eccezione dell’ipotesi comunista, che anch’essa sarebbe in linea
di principio antistatalista, ma in concreto non è mai riuscita ad
esserlo, cioè ad esprimere un sistema di regole che non siano “lo
stato”). Lo stesso ragionamento vale per la politica “economica”: la
destra la vuole lasciare interamente alla mano invisibile del mercato,
la sinistra la vorrebbe (la voleva) capace di raddrizzarne le
disuguaglianze in nome di un primato dell’equità sociale (quanto questo
concetto sia vago è un altro discorso).
Inutile dire che le altre politiche “sociali” ne conseguono.
Predicare che fra di esse debbano prevalere “le larghe intese” significa
presumere l’esistenza di un interesse comune che in realtà non esiste
e, nella migliore delle ipotesi, lasciare le cose come sono, cioè, in
Italia, a una vasta predominanza degli interessi costituiti del
capitale, oggi dominato dalla finanza; interessi che – ormai è chiaro –
non significano neppure garanzia di una crescita produttiva, magari
crudele ma sicura. Ecco come agli occhi di una semplice cittadina si
presenta il tema delle riforme istituzionali e in esse del
presidenzialismo. Vale la pena, anzi è urgente, discuterne nel modo più
chiaro e più a fondo. Può darsi infatti che le stesse premesse da cui la
sottoscritta cittadina parte siano da discutere; ma allora bisogna
farlo nel modo più esplicito.
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