Centocinquanta presentazioni in quello che hanno battezzato Révolution touR. Sale strapiene. I Wu Ming sono tornati. «Ogni due o tre anni qualche trombone ci dichiara morti ma siamo ancora qui, resistiamo da quasi venti anni. Abbiamo cominciato nel 1995». Wu Ming 1 lo incontriamo a Roma, nel quartiere San Lorenzo, prima di due presentazioni consecutive, una al centro Casetta Rossa della Garbatella e l’altra a Strike [qui il video completo della serata, con Giuliano Santoro e il Teatro Bi.Pop Zaccaria Verucci, N.d.R.]. Quando ha presentato il volume, la prima volta, al centro Communia, ad ascoltarli c’erano più di duecento persone. Per la presentazione di un libro non è uno spettacolo frequente. Il loro ultimo lavoro, L’Armata dei sonnambuli , dedicato allo scrittore bolognese [ferrarese, e ci teneva a precisarlo :-) N.d.R.] Stefano Tassinari, morto due anni fa e riferimento degli sceittori “impegnati” di quella città, è ambientato nel cuore della Rivoluzione francese, raccontato con il linguaggio del popolo, basato sul protagonismo delle donne, la forza della rivoluzione ma anche della controrivoluzione suscita un coinvolgimento che oltrepassa la letteratura e sconfina nella politica. «C’era molta attesa su questo lavoro. Si sapeva che avremmo scritto del Terrore rivoluzionario. Mentre lavoravamo al libro, si è tornato a parlare di Rivoluzione francese, la ghigliottina è entrata di nuovo nel linguaggio politico. Anche Berlusconi si è messo a citare Robespierre e Marat. Abbiamo intercettato un flusso di immaginario collettivo e la partecipazione alle presentazioni, oltre che le vendite del libro, lo dimostrano.»
Chi sono i sonnambuli?
Nel libro, l’Armata dei Sonnambuli è una banda armata fascista ante litteram. Le elucubrazioni del suo capo echeggiano, con un anacronismo voluto, la retorica della destra radicale del ’900. C’è Evola, c’è Codreanu. C’è Gentile. Ma più in generale, nei sonnambulizzati ognuno può vedere tante cose del nostro presente. Le masse irretite, l’opinione pubblica addomesticata, il controllo delle menti
Parliamo anche dei “grillini”? Voi avete condotto una battaglia netta contro il grillismo.
Sonnambuli sono quelli che vanno dietro al pifferaio di turno, lasciandosi suggestionare dal “carisma”. C’è gente che segue Grillo qualunque musica esca dal suo piffero. Ma di pifferai in giro ce ne sono tanti, e quindi anche di sonnambuli.
C’entra anche Renzi?
Renzi è senz’altro un pifferaio. Occupa una precisa casella nell’ordine simbolico, la casella del «Ci vuole quello lì». Prima per molti era occupata da Berlusconi, poi da Grillo, adesso spopola Renzi. “Quello lì” è il capo senza il quale il Paese sembra incapace di parlare di sé stesso. C’era anche nel “popolo comunista” un culto del capo, una visione acritica e fideistica di figure come Togliatti e Berlinguer. Se uno guarda a come si è ridotta la base residua del vecchio Pci, a quello che ne è rimasto, e guarda indietro, si accorge che c’era già molto sonnambulismo, ad esempio nel pensare che «il segretario ha sempre ragione». Oggi il segretario è Renzi, che eredita anche quel sonnambulismo.
Renzi però non è l’espressione di quel vecchio Pci.
Renzi è un cocktail, un miscuglio eterogeneo di molte cose, c’è molta “gioventù democristiana” ma anche molto divismo, molta della celebrity culture che permea le generazioni più recenti. Ma si afferma, almeno per ora, in un Paese che ha sempre avuto il culto del capo, un culto trasversale per capi diversissimi tra loro (Mussolini, Togliatti, Berlusconi), comunque sempre per “quello lì”, mister “ci vuole lui”, il personaggio senza il quale il discorso pubblico sembrava non potesse articolarsi.
Il capo sarebbe oggi il leader.
Sì, ma il triste ritornello del «ci vuole un leader», «manca un leader», «Tizio non è un vero leader» ha fatto breccia a sinistra proprio perché il vecchio “popolo comunista” aveva già quell’impostazione. Non è solo un portato della “politica-spettacolo televisiva”, della “americanizzazione delle campagne elettorali” e quant’altro. La questione è più complessa, e andrebbe storicizzata.
Qual è l’antidoto al sonnambulismo?
La partecipazione che si realizza delegando il meno possibile. Responsabilizzazione, autogoverno. Se si guarda al movimento No Tav ci si accorge che non ha leader riconoscibili, non ha culto del capo. I media mainstream hanno provato a isolare Perino, a descriverlo come un capo per poterlo sbranare, ma hanno fallito perché il movimento NoTav non funziona così e non ha mai offerto all’altare sacrificale il leader da fare a pezzi. Errore che invece fecero, a inizio millennio, le varie correnti del movimento impropriamente chiamato “no-global”.
Eppure i No Tav votano Grillo.
E’ un segnale che hanno dato sul terreno elettorale, mantenendo intatta la loro autonomia sul territorio. In Valle è il movimento No Tav a battere il tempo, e i partiti (M5S compreso) devono adeguarsi: pro o contro. Ed è facile verificare che da quelle parti il M5S ha avuto i voti ma quanto a radicamento è davvero poca cosa.
Tornando al libro, come opera e da chi è contrastata l’Armata dei sonnambuli?
Si forma dopo Termidoro, nel momento della “svolta a destra” della Rivoluzione. Sguazza nel caos delle vendette contro i giacobini, ma con un disegno tutto suo che lascio scoprire ai lettori.
Il libro propone quindi l’attualità della rivoluzione?
Tutti i nostri libri parlano, da Q. in avanti, di rivoluzione, della sua possibilità, di come si sopravvive alla rivoluzione e alla controrivoluzione.
C’è però chi vi accusa di fare propaganda, di redigere dei pamphlet.
Basta leggere un nostro libro per smontare queste stupidaggini, dette da chi non si è mai minimamente informato sul nostro conto. Di romanzi a tesi non ne abbiamo scritti mai, come non abbiamo mai fatto sconti ai rivoluzionari. Ci piacciono troppo la complessità e la molteplicità. Noi scriviamo liberamente. La politicità dei nostri romanzi non sta nello scrivere un romanzo a chiave in cui c’è un rapporto diretto tra la trama del romanzo e ciò che accade nel presente. Cerchiamo di prendere la rivoluzione da tutti i lati possibili, farne vedere anche lo scabroso o il velleitario senza farne mai una facile apologia.
Con questo libro fate un uso accurato delle fonti storiche e in particolare del linguaggio. Come nasce questa scelta?
La citazione diretta dei documenti serve anche a compensare la fiction estrema di cui il romanzo si nutre. È stato un modo per ancorare il romanzo a un certo rigore (anche se verso la fine le fonti sono mischiate con la finzione, in un gioco quasi alla Borges). Per quanto riguarda il linguaggio è stata un’operazione ambiziosa. Bisognava costruire una lingua che restituisse lo sguardo popolare sugli eventi. Ci serviva la lingua del “popolo basso” con tutti i suoi stati d’animo, in grado di raccontare situazioni tragiche e scene comiche. Per quanto all’inizio possa sembrare bizzarra, abbiamo cercato di costruire una coerenza di impianto.
Voi utilizzate molte frasi e idiomi assolutamente non convenzionali, parole come “soquanti”, “negoddio”…
La prima viene dall’emiliano, la seconda dal dizionario di Michel Biard Parlez-vous sans-culotte? Abbiamo preso veri modi di dire dell’epoca, adattandoli all’italiano, poi abbiamo “riportato tutto a casa”, al nostro dizionario sentimentale, quindi con molti prestiti e ricalchi dai dialetti emiliani (bolognese e ferrarese), cercando di “scaldare” la lingua.
I Wu Ming hanno sempre scritto romanzi storici. È finita questa fase?
Continueremo a lavorare sulla storia ma il filone cominciato con Q finisce con l’ Armata dei sonnambuli. Le nostre narrazioni avranno sempre a che fare con la storia ma vogliamo azzardare altre cose. Adesso stiamo scrivendo un libro per bambini, e l’anno prossimo usciamo con un libro di storie vere della Prima guerra mondiale. Singolarmente, io sto lavorando a un libro sui No Tav, anzi, sulla Val di Susa.
A che punto siete oggi, come collettivo?
Certamente non siamo più solo scrittori, ad esempio siamo diventati anche una rock band, Wu Ming Contingent (due di noi più due amici musicisti) e le collaborazioni con artisti di altre discipline sono importanti quanto i romanzi. Intorno a noi c’è una nube quantica di narrazioni portate avanti non solo con gli strumenti della letteratura. Musica, teatro, illusionismo, arti grafiche… L’obiettivo è raccontare storie con ogni mezzo necessario. Il nostro blog, Giap, non è più solo “il blog di Wu Ming” ma una comunità di lettori, in grado di fare inchiesta con una comunicazione in rete che sfrutta le potenzialità dei social network, in primios Twitter. Quello che facciamo è diventato molto più grande e complesso. Il romanzo non è più il centro di tutto, ma è vero che quando esce un nostro nuovo romanzo diventa una specie di “pietra miliare”, nel senso che ti dice a quale chilometro siamo arrivati.
L’Armata, dicevamo prima, è un romanzo sulla Rivoluzione. Vista come e da dove?
Dal basso, e da punti di vista inattesi, spiazzanti, come quelli dei magnetisti, quelli dei folli, o quello di un attore di teatro italiano. Una delle cose a cui tenevamo di più era raccontare il protagonismo delle donne nella rivoluzione francese. Le donne erano in prima fila, molto spesso erano le più radicali e i club rivoluzionari femministi (anche qui ante litteram) hanno posto una minaccia seria e furono sciolti nell’autunno del 1793.
Quindi è anche un romanzo “femminista”?
Sicuramente la questione di genere, dei generi, è centrale.
Qual è stata l’intuizione originaria?
Raccontare le gesta di un supereroe, Scaramouche in guerra contro i reazionari. Poi è venuto il resto, specialmente quando abbiamo scoperto gli scritti sul magnetismo.
Robespierre è un personaggio positivo?
E’ stato diffamato in tutti i modi, presentato come un pazzo assettato di sangue. Il Terrore è stato raccontato come uno “sbroccare” suo e di pochi suoi accoliti. In realtà cercò di mediare e incanalare nella politica le istanze radicali che venivano dal basso, il Terrore era chiesto dal popolo di Parigi. Oggi lo chiameremmo un “pompiere”, comunque il popolo di Parigi gli volle bene, e cercò di difenderlo.
E Marat?
Era il più benvoluto di tutti. Per questi uomini, la definizione di pazzi o sanguinari è stato sempre un modo per spoliticizzarli, per toglierli dal contesto in cui agirono. Fecero certamente errori, ma bisogna ricordare che in quei giorni era tutto “ex novo”, certe esperienze si facevano per la prima volta nella storia dell’umanità. Nessuno di loro era preparato. Le rivoluzioni falliscono ancora oggi, figuriamoci allora.
È ancora attuale la Rivoluzione francese?
Sì, e sta anche tornando centrale. Un anno di svolta è il 2011. Le primavere arabe hanno riattivato un discorso, quello dello spodestamento dei tiranni, che fatalmente ti fa ritornare là.
Vale anche per società occidentali e democratiche, dove non c’è il tiranno?
Non c’è il tiranno, ma c’è parecchia tirannide. E ci sono molte armate di sonnambuli in azione.
da Il Fatto Quotidiano
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