Il ritorno del '900. A cento anni
dalla prima guerra mondiale (e dalla Rivoluzione del ’17), il mondo
contemporaneo è di nuovo ostaggio delle pulsioni populiste, xenofobe e
imperialiste del capitalismo.
Esistono legami sotterranei tra quanto
di più sinistro accade sotto i nostri occhi in queste ore sulla scena
politica mondiale, dalla brutale stretta repressiva in Egitto ai venti di
guerra sull’Ucraina, alla proliferazione di ultranazionalismi fascisti
in tutta Europa?
Rispondere non è semplice, forse
è azzardato. Una prospettiva che consideri unitariamente fenomeni
radicati in contesti differenti non è falsificabile: siamo quindi
nel regno dell’opinabile, se non delle impressioni. Inoltre, molto, se non
tutto, dipende dalle dimensioni del quadro storico di riferimento, definite
con qualche rischio di arbitrarietà. Resta il fatto. Minacciosi segnali di
tensione investono non soltanto quelli che nella guerra fredda erano blocchi
contrapposti, ma anche (si pensi al diffondersi nell’eurozona di un sordo
rancore anti-tedesco) gli stessi stati europei che hanno vissuto questi
sessant’anni in pace. E a tali segnali si accompagna la ricomparsa dei
più cupi fantasmi (nazionalismo e populismo, xenofobia e razzismo)
della modernità «avanzata». La storia del Novecento sembra ripresentarsi
in blocco sulla scena, come per un brusco ritorno del rimosso. E se
è naturalmente un caso che ciò avvenga a cent’anni esatti dallo
scoppio della prima guerra mondiale, è vero anche che gli anniversari
offrono spesso spunti istruttivi. Proviamo a vedere che cosa suggerisce
questa non fausta ricorrenza.
Il Novecento è stato il secolo delle
guerre mondiali. Si suole dire persino che, tra il 1914 e il ’45, il
mondo ha vissuto una nuova guerra dei trent’anni. C’è del vero. L’imperialismo
fu il denominatore comune dei due conflitti: il primo fu uno scontro tra
imperialismi vecchi e nuovi (o potenziali) a ridosso della prima
crisi globale del capitalismo; l’imperialismo costituì un fattore cruciale
anche nella seconda guerra mondiale, che la Germania nazista scatenò
nell’intento di dotarsi di un impero coloniale sfondando principalmente
a est (e il colonialismo fu un movente essenziale della stessa
alleanza con l’Italia fascista, mossa a sua volta dalla spinta
all’espansione coloniale in Africa).
D’altra parte questa analogia trascura
una differenza essenziale. Nel corso della grande guerra, la prima rivoluzione
proletaria vincente della storia trasforma la scena politica mondiale.
Definitivamente.
Oggi non abbiamo memoria dell’ondata di panico che l’ottobre bolscevico proietta sull’occidente capitalistico. Basti un dato, che raramente si ricorda: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia contribuirono all’Armata bianca controrivoluzionaria inviando in Russia oltre 600mila uomini, al fianco dei cosacchi.
Oggi non abbiamo memoria dell’ondata di panico che l’ottobre bolscevico proietta sull’occidente capitalistico. Basti un dato, che raramente si ricorda: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia contribuirono all’Armata bianca controrivoluzionaria inviando in Russia oltre 600mila uomini, al fianco dei cosacchi.
Il mondo, entrato in guerra nel 1914, ne
esce trasfigurato nel ’18. Non solo sul piano «geopolitico» ma anche
all’interno dei singoli paesi, teatro, tra le due guerre, di conflitti
sociali che paiono mettere all’ordine del giorno, in gran parte dell’Europa,
la prospettiva della rivoluzione operaia. In questo senso la seconda
guerra mondiale tiene a battesimo il mondo contemporaneo,
e per ciò essa è ancora un «passato che non passa». Fu un conflitto
ben più complesso del precedente: non soltanto uno scontro tra stati
e imperi, ma anche, esplicitamente, un urto armato tra classi
sociali. La prima guerra totale della borghesia contro il proletariato,
del capitalismo contro il comunismo. Il che spiega tanto l’iniziale indulgenza
delle «democrazie occidentali» nei confronti dei fascismi (a cominciare
dalla guerra civile spagnola), quanto la renitenza ad allearsi con l’Urss contro
Hitler; le bombe atomiche americane sul Giappone; la mancata discontinuità
postbellica nella costruzione delle élites politiche e degli apparati
burocratici dei paesi sconfitti.
Proprio questa complessità –
l’intreccio organico tra fattore militare e conflitto sociale –
è la cifra del secondo dopoguerra. Che si svolge all’insegna dello scontro
tra il «mondo libero» (l’economia-mondo capitalistica) e il variegato
blocco socialista, interferendo pesantemente nel processo di
de-colonizzazione. Più che la nuova guerra dei Trent’anni (1915–45), è dunque
il sessantennio 1939–89 la fase costituente del nostro mondo. Sorto
all’insegna del continuum tra conflitti militari e sociali.
O, se si preferisce, sulla base dell’aperto riconoscimento della natura
bellica – di guerra civile, direbbe Marx – della lotta di classe.
Poi cos’è successo? È cambiato
tutto? Lo si è voluto pensare. Nelle utopie «democratiche» che prendono
piede a ridosso della caduta del Muro di Berlino (e che in Italia accompagnano
la liquidazione del Pci) l’89–91 doveva segnare l’avvio di un’«era globale
di pace e di democrazia». Questa speranza sottende anche l’immagine
hobsbawmiana del «secolo breve», ma la storia degli ultimi 25 anni la confuta,
e impone di leggere anche il nostro presente in un quadro di lungo
periodo. Non perché oggi il mondo sia uguale a prima. La Russia
post-sovietica non ha più, nemmeno di nome, un connotato rivoluzionario.
La Cina intrattiene stretti rapporti col mondo capitalistico, di cui per
diversi aspetti (commercio e finanza) è parte sempre più rilevante.
Il «blocco socialista» non esiste più, assorbito dalla Ue o immediatamente
sussunto, attraverso la Nato, nell’orbita americana. Eppure il confine
(politico, economico, persino simbolico) tra est e ovest resta cruciale.
È ancora la linea lungo la quale corre più alta la tensione internazionale.
Perché le cose stiano in questi termini,
nonostante la crisi del progetto rivoluzionario nei paesi del «socialismo
reale», non è certo un mistero. Implosa l’Urss, l’Occidente tenta un salto
di qualità nelle pratiche del dominio. Teso a superare la crisi strutturale
del capitalismo che ancora imperversa (è di pochi giorni fa la notizia del
pil Usa a crescita zero nel trimestre), il neoliberismo a centralità
americana unifica i mercati finanziari contro le Costituzioni;
rilancia la spesa militare; esaspera lo sfruttamento del lavoro vivo; smantella
i sistemi pubblici di welfare, frutto della competizione col
sistema socialista. Di qui l’esplosione delle sperequazioni. Di qui la
deriva autoritaria, post-costituzionale. Di qui anche l’architettura
tecno-oligarchica della Ue, funzionale all’instaurarsi di gerarchie continentali
coincidenti con quelle vagheggiate, nella prima metà del Novecento, dai teorici
della Mitteleuropa e dagli architetti del Nuovo ordine europeo.
Ma non si tratta soltanto del soft
power del «libero mercato». Ancora prima della fine ufficiale dell’Urss
la guerra guerreggiata torna al centro della scena internazionale,
a seguito della rinnovata spinta imperialistica dell’occidente (degli
Stati Uniti anche contro una parte dell’Europa) in Medio Oriente (Iraq)
e in Asia centrale (Afghanistan), sino alle porte dell’ex-Urss (Georgia
e paesi baltici) e della vecchia Europa (le guerre nei Balcani
degli anni Novanta). È così che il mondo oggi offre un panorama per tanti
aspetti simile a quello che l’ha visto nascere. Con una miscela esplosiva
tra elementi del quadro 1914–38 (nazionalismi, irredentismi e populismi,
soprattutto nell’Europa flagellata dalla nuova grande depressione) ed elementi
del quadro 1939–89 (conflitto est-ovest, tra «occidente» capitalistico e
«oriente» post-rivoluzionario). Per dirla con un paradosso, e con buona
pace dei nuovismi ricorrenti, assistiamo alla lunga durata del secolo
breve. Sulla base della regressione autoritaria degli Stati «democratici»
e della rinnovata centralità del tema imperiale e coloniale.
Se questo è vero, non è consigliabile
sottovalutare la gravità degli accadimenti ai quali assistiamo in queste
settimane. L’esplosione di revanscismi razzisti e neofascisti in
tutta Europa – dall’Ungheria alla Francia passando per Grecia, Finlandia
e Olanda, Svezia, Austria e Polonia, per i paesi baltici
e l’Italia – rivela il volto arcaico del capitalismo sfidato dalla
crisi organica. La repressione delle primavere arabe, la balcanizzazione
della Libia e la restaurazione del potere militare in Egitto parlano
di nuovo impulso imperialistico alla ricolonizzazione del Medio Oriente.
Il dramma dell’Ucraina riassume in sé e sembra riproporre tutti
i motivi della tragedia novecentesca, dallo scontro tra nazionalismi
etnici all’urto tra blocchi «geopolitici», alimentato in larga misura proprio
dalla politica di allargamento della Nato a est. Non è consigliabile
sottovalutare, e non è nemmeno ragionevole scindere processi
che, pur diversi, si collegano tra loro nel contesto politico mondiale.
Due ultime considerazioni, infine, ci
riguardano da vicino. Fatichiamo a vedere tutto questo perché abbiamo
sacrificato gli strumenti dell’analisi storico-materialistica a una
futile – e sciagurata – «modernizzazione» ideologica. A maggior
ragione, non sappiamo che fare contro questa nuova corsa verso il
precipizio.
Ripiegati sulle nostre cure quotidiane,
siamo privi di antenne, oltre che di una direzione politica degna di questo
nome. Non per questo ripeteremo quanto ebbe a dire – «ormai solo un dio
ci può salvare» – un filosofo compromesso con il cuore di tenebra del
secolo scorso. Ma vedere una luce alla quale fare affidamento sarà difficile
finché, in Italia e in Europa, non rinascerà una seria forza di opposizione
al capitalismo. Capace finalmente di preparare una transizione storica
già da tempo matura.
da il manifesto
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