martedì 13 gennaio 2015

La gelida manina del decreto fiscale


di Alfonso Gianni

La "miste­riosa" vicenda dell’articolo 19 bis del decreto dele­gato in mate­ria fiscale si attor­ci­glia sem­pre più. Natu­ral­mente ognuno affonda le mani nella mate­ria a modo suo. A quelli del Movi­mento 5 stelle non pareva vero di avan­zare l’ipotesi che Mat­teo Renzi abbia fatto tutto que­sto per favo­rire Tiziano Renzi, il padre, che come si sa qual­che guaio finan­zia­rio ce l’ha. Ma non occorre spin­gersi sul ter­reno più che sci­vo­loso di sup­po­sti inte­ressi di fami­glia in atti di governo.
Al di là della die­tro­lo­gia spic­ciola, non c’è dub­bio che il com­por­ta­mento del pre­si­dente del con­si­glio è stato quan­to­meno strano. All’inizio pareva che nes­suno sapesse nulla, nep­pure in quel di Palazzo Chigi. I sospetti al mas­simo rag­giun­ge­vano qual­che sot­to­se­gre­ta­rio di solida e antica fede ber­lu­sco­niana, tran­si­tato per l’occasione in altri lidi per occu­pare migliori posi­zioni di potere. Anzi, il governo pareva pronto alla can­cel­la­zione imme­diata della norma. Poi Renzi ha fatto outing, rove­sciando il tavolo e attri­buen­dosi la respon­sa­bi­lità piena della fur­bata. Con­tem­po­ra­nea­mente, la ripa­ra­zione pre­vi­sta si è allon­ta­nata nel tempo, inge­ne­rando nuovi sospetti anzi­ché fugarli definitivamente.
Che dire di simili con­tor­sio­ni­smi? A meno di sup­porre squi­li­bri com­por­ta­men­tali, il che non ci piace, è natu­rale ricer­care delle cause poli­ti­che. Non per nobi­li­tare l’atto, che resta pes­simo, ma per tro­varci una qual­che logica. Se guar­diamo le cose dal punto di vista della poli­ti­que poli­ti­cienne si può ben sup­porre che il fami­ge­rato patto del Naza­reno non sia estra­neo alla vicenda. O forse i suoi ancor più segreti corollari.
Poi­ché non è cre­di­bile che lo sherpa esten­sore manuale della norma non sapesse quali con­se­guenze la stessa avrebbe avuto sulle vicende giudiziarie-politiche di Sil­vio Ber­lu­sconi. Nello stesso tempo, l’assunzione di respon­sa­bi­lità pub­blica di Mat­teo Renzi sem­bra dire al sodale che lui l’impegno lo ha rispet­tato, al punto di met­terci impu­di­ca­mente la fac­cia, ma le cir­co­stanze poli­ti­che gli hanno impe­dito – almeno per ora – di andare fino in fondo.
Nean­che a Ber­lu­sconi con­viene più di tanto alzare la voce sull’argomento. Il sasso è stato get­tato, la manina ha un pro­prie­ta­rio dichia­rato, il cer­chio dello sta­gno si sta allar­gando. Il Patto così è for­mal­mente salvo e ono­rato, anche se la sua imple­men­ta­zione incon­tra dif­fi­coltà e osta­coli che il tempo potrebbe però lenire. Nello stesso tempo l’eventuale intesa – fosse anche di sola non bel­li­ge­ranza — sull’elezione del capo dello stato è tutt’altro che pre­giu­di­cata. Anzi un nuovo mat­tone si è aggiunto a fortificarla.
Se invece guar­diamo l’intera vicenda dal punto di vista della sostanza che la norma della «modica quan­tità tol­le­rata» di eva­sione fiscale ha inve­stito, il qua­dro si fa assai più greve e peri­co­loso. Tanto da fare impal­li­dire, al con­fronto, il do ut des tra Renzi e Berlusconi.
Quella "modica quan­tità" di eva­sione fiscale, che la gelida manina del pre­mier ha inse­rito nel prov­ve­di­mento, è molto più grave di tutti i con­doni fiscali fin qui per­pe­trati dai vari governi. Com­preso l’ultimo, mal­de­stra­mente masche­rato, sul rien­tro dei capi­tali. Poi­ché qui si tratta di scar­di­nare uno dei prin­cipi fon­danti su cui si basa qua­lun­que stato libe­rale: quello del no taxa­tion without repre­sen­ta­tion. Anzi, quel prin­ci­pio viene com­ple­ta­mente rove­sciato nel suo oppo­sto, ovvero: repre­sen­ta­tion without taxa­tion.
Se infatti la fran­chi­gia, ovvero l’esenzione dal paga­mento delle tasse – altro rove­scia­mento che qui viene effet­tuato – anzi­ché essere a tutela dei meno abbienti, viene appo­sta sulla quan­tità di impo­ni­bile che viene evaso, siamo com­ple­ta­mente fuori da qua­lun­que minimo sistema di giu­sti­zia e di effi­cienza fiscale. Se poi tale modica quan­tità di eva­sione viene cal­co­lata non in ter­mini asso­luti ma per­cen­tuali, il famoso 3% come in que­sto caso, l’effetto di ingiu­sti­zia si mol­ti­plica ancora di più.
Più è alto l’imponibile fiscale, più è ricco il cit­ta­dino in que­stione, mag­giore diventa in ter­mini reali la cosid­detta modica quan­tità di eva­sione che gli è per­messa. Il 3% vale di più per lui men­tre più grosso è lo sbrego alle maglie fiscali dello stato.
E’ su que­sto aspetto ben più grave che dovrebbe accen­trarsi l’attenzione, e non solo sui retro­scena politici.
Come si ricor­derà, la for­tuna del neo­li­be­ri­smo partì dall’attacco al sistema fiscale. La curva di Laf­fer di rea­ga­niana memo­ria era que­sto. La stessa Forza Ita­lia mosse in primi passi da qui.
Chi non ricorda il fami­ge­rato libretto di Giu­lio Tre­monti e Giu­seppe Vita­letti, le cento tasse degli ita­liani esi­bito con orgo­glio in ogni talk-show tele­vi­sivo? Era il 1986. Non tutto gli era finora riu­scito. Ma con Renzi l’opera si compie.
Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non diman­dare.

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