Da sempre destinata a resistere, Kobane ha respinto l’Isis e inaugurato un percorso di autogoverno in tutta la Rojava, contro capitalismo e scontro di civiltà
di Carlo Perigli, Popoffquotidiano.it
Kobane si trova nella Siria occidentale, al confine con la Turchia, o in quello che i curdi chiamano Kurdistan occidentale o meglio ancora, Rojava, in curdo semplicemente “ovest”. Kobane è lì, a pochi passi da una ferrovia che segna il confine tra Ankara e Damasco, tranciando di netto il Kurdistan in due delle quattro entità statuali in cui è stato scomposto in seguito agli accordi segreti Sykes Picot del 1916 e degli accordi di Losanna del 1923. Così, la ferrovia, niente di più di una semplice infrastruttura adibita al trasporto, da quasi un secolo a Kobane è simbolo di divisione e morte. Su quella linea, immaginaria e reale allo stesso tempo, centinaia di persone hanno perso la vita mentre cercavano di oltrepassare il confine, quello spazio tra Kobane e Qamishlo, quasi impalpabile eppure tremendamente incolmabile.
Ma gli abitanti di Kobane, di Qamishlo e di tutta la Rojava, sono abituati a resistere da sempre, perché sono consapevoli che solo in questo modo possono continuare ad esistere, a dispetto chi li vorrebbe assimilati in questo o quello Stato. A dispetto di Ankara, che da quasi un secolo cerca ostinatamente di strappare ai curdi le loro radici, ma anche di Damasco, che dagli anni ’60 ha cercato di creare una guerra tra poveri, facendo emigrare forzatamente popolazioni arabe nei territori curdi del cantone di Jazira.
Kobane, in particolare, fa paura più di tutte le altre città del Kurdistan, perché è da sempre il centro nevralgico della resistenza curda. Non è un caso che proprio lì abbia preso vita la rivoluzione che presto ha coinvolto tutta la Rojava. Una resistenza attiva, contro il governo Assad, l’opposizione («un gruppo di sciovinisti e islamisti radicali», secondo le parole del comandante di brigata Ypg, Mishteur Yall) e i ripetuti attacchi di Al Nusra e Isis, in atto fin dal marzo del 2013.
Ma se Kobane da sola fa paura da un punto di vista prettamente strategico, l’intera Rojava spaventa per motivi politici, per la sua auto-definita natura egualitaria, comunitaria e anti-sessista, per il suo essere un esperimento senza precedenti in tutto il medio-oriente. Così, una piccola porzione di terra diventa la diretta negazione del sistema capitalista globale, la dimostrazione che una società diversa non solamente è auspicabile, ma finanche possibile.
Un’organizzazione sociale basata sulla Carta del Contratto Sociale, una costituzione che coinvolge le regioni democratiche di Kobane, Afrin e Cirze, unite in una confederazione che, alla faccia della becera retorica nazionalista e occidentale, coinvolge sette popoli diversi. Una costituzione basata sul principio di autogoverno locale di ciascun cantone, sull’equilibrio biologico, sulla libertà di religione, di opinione ed espressione, sulla parità dei sessi. Una struttura che, di fronte ad un occidente che privatizza ed emargina, sancisce la gratuità dell’istruzione primaria e secondaria, la sicurezza sociale e la tutela della maternità e dell’infanzia, che prevede la proprietà pubblica delle risorse naturali, che orienta il sistema economico verso la garanzia dei «bisogni fondamentali e ad un tenore di vita dignitoso per tutti i cittadini».
Forse è proprio per questo che le cancellerie occidentali per lungo tempo si sono “dimenticate” di fermare Isis, intervenendo solamente quando Kobane era ormai sottoposta ad un lungo e straziante assedio. Forse in questo senso si spiega l’atteggiamento della Turchia, più preoccupata di reprimere i curdi che di respingere le bande islamiste, che per troppo tempo hanno beneficiato della “porosità” della frontiera con Ankara, quella stessa linea immaginaria, mortale per i curdi e zona di transito e passeggio per gli islamisti. Ora Kobane è libera dall’Isis, ma è allo stesso tempo consapevole che la resistenza dovrà durare a lungo. Sarà una battaglia diversa, volta al riconoscimento della Rojava e del contratto sociale che ne è alla base, la rivendicazione di un percorso dal basso, esempio perfetto di quanto sia sterile e strumentale descrivere il mondo come uno scontro di civiltà.
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