Molti
amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa
caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio
tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che
formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte.
Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed
analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante
dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente
potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.
La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed
è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo
del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in
ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e
del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o
meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo
del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non
tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale
debole e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è
politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci
milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le
scelte.
Orbene, i Sauditi hanno deciso di non tagliare la loro produzione,
l’Opec si è adeguato e a quanto pare nessuno ha avuto niente da ridire
sul punto (e questo sembra alquanto strano: i Sauditi con i loro 900
miliardi di dollari di riserve e con costi di estrazione a 5/6 dollari
al barile, possono reggere anche i 10 dollari di prezzo di vendita, ma
si pensava che l’Iran o il Venezuela o anche la Nigeria, paesi che hanno
programmi di investimenti e di sostegno di servizi che si fondano su un
prezzo alto del petrolio, si opponessero strenuamente, e invece tutti
zitti e mosca, con la m minuscola perché le riunioni si tengono a
Vienna).
Insomma, la decisione è stata presa dai Sauditi e tutti gli altri
paesi non si sono opposti più di tanto. Si dirà che i Sauditi sono
alleati degli americani e questo rafforzerebbe la tesi dell’attacco
economico alla Russia di Putin, ma questo sembra essere uno specchietto
per le allodole e che la realtà sia completamente diversa. È ben vero
che i Sauditi saranno stati ben contenti di dare un brutto colpo agli
Iraniani, che notoriamente non amano per via delle divergenze sulla
leadership nell’area del medio oriente, ma questi, e lo sono tenuto a
denti stretti e non hanno fiatato, quando in altre circostanze hanno
espresso chiaramente e clamorosamente la loro opposizione a decisioni a
loro sgradite. Insomma, questa decisione era sgradita, tuttavia a quanto
pare, era necessaria, altrimenti l’Iran non sarebbe stato zitto.
Ma torniamo alla Russia, ed alle ragioni per cui non credo affatto
che la caduta del petrolio sia una manovra anti-Putin ordita dagli
americani e dai loro alleati. La vendita del petrolio è molto
importante per la Russia e per le sue riserve, ma lo è molto meno di
quanto non fosse dopo la caduta dell’URSS, e al tempo della crisi del
1998 che portò all’allontanamento dei Eltsin dalla vita politica ed
all’ascesa di Putin nel 1999. Allora, grazie alle politiche di austerity
volute dal governo Eltsin e dai suoi economisti liberal, il paese fu
costretto a dichiarare default sul debito pubblico, ma oggi le riserve
della Banca Centrale Russa sono di circa 500 miliardi di dollari, fatto
che mette il paese al riparo da qualsiasi ipotesi di default. Inoltre,
il petrolio incide sul Pil russo per l’11,1% ed una caduta del prezzo in
dollari non comporta automaticamente una riduzione del Pil,
considerando che questo viene calcolato in rubli ed il rublo è stato
prontamente svalutato dalla Banca Centrale che ha assecondato le
decisioni del mercato. Questo ha scommesso sulla debolezza del rublo per
via del fatto che l’apparato burocratico russo è finanziato per il 40%
dai proventi della vendita del petrolio. Tuttavia, dal punto di vista
interno, la svalutazione del rublo a perfettamente compensato questa
perdita: mentre il petrolio perdeva il 50% del suo prezzo, scendendo da
115 dollari a 55, il rublo faceva altrettanto passando da 40 rubli per
dollaro a oltre ottanta. In termini numerici questo non ha creato alcun
problema ai dipendenti russi. Certo, per essi sarà impossibile
quest’anno andare a passare le vacanze sulle Montagne Rocciose, ma
quanti di loro erano in grado di permetterselo prima della caduta del
prezzo del petrolio? Pure le vacanze in Europa hanno visto un
sostanzioso calo dei turisti russi, ma questo è un problema per i paesi
europei non per la Russia, dove certo non mancano strutture turistiche
di livello che restano comunque abbordabili per i russi. I russi,
inoltre, hanno fatto altre due mosse intelligenti per parare il colpo
della caduta del prezzo del petrolio. Hanno comprato e stanno comprando
tuttora oro fisico in quantità industriali, per garantirsi un margine di
guadagno che compensi, anche se in parte, le perdite sul prezzo del
petrolio, ed hanno attivato un accordo con la Cina per scambiare merci, e
soprattutto petrolio e gas, ad un prezzo stabilito non più in dollari
bensì da un accordo bilaterale di scambio tra il rublo e lo Yuan cinese.
Accordi similari sono stati conclusi con gli altri paesi BRICS, e
questo comporta l’abbandono di fatto del dollaro come moneta di
riferimento per le transazioni commerciali a partire dal petrolio e dal
gas. Insomma, non sembra proprio che tutto questo sia stato atto per
attaccare la Russia che, tra l’altro, a parte una debole protesta di
Rosneft, che ha accusato i Sauditi di manovrare il prezzo del petrolio
per conto terzi (indovina chi?), in realtà né il governo né gli
economisti né gli altri produttori hanno detto nulla su questa
situazione. Ne hanno preso atto ed hanno adottato le loro contromisure.
E allora? Il problema è meno politico e più economico di quanto non
si pensi. E il nome del problema è “fracking”, ovvero quella tecnica che
la Shell ha scoperto una decina di anni fa che ha reso possibile
l’estrazione di petrolio e gas di scisto, ovvero proveniente dalla
frantumazione delle rocce. Negli ultimi anni, grazie agli elevati prezzi
del barile di petrolio, gli investimenti americani in questo settore si
sono moltiplicati, raggiungendo i duemila miliardi di dollari, dei
quali 900 sono esposizioni delle banche americane nei confronti degli
investitori. Grazie a questo petrolio gli Usa sono diventati
completamente autosufficienti e recentemente Obama ha rimosso il divieto
di esportazione del petrolio per le imprese americane che lo producono
sul territorio, divieto che era dettato da comprensibili ragioni di
ordine strategico e militare. Visto che le riserve di questo petrolio
sono nell’ordine delle centinaia di miliardi di barili, pari almeno a
quelle del petrolio estratto con metodi tradizionali, le compagnie
americane si sono buttate sull’affare attirando grandi capitali.
L’effetto è stato che negli ultimi dieci anni, cento superpetroliere al
giorno hanno smesso di dirigersi dai paesi arabi agli Usa, e il
principale referente commerciale degli arabi è divenuta la Cina che
produce petrolio in quantità decisamente inferiore a quello che consuma.
Semmai il lusso si invertirà a breve, e le superpetroliere torneranno a
solcare l’oceano per portare il petrolio americano in Europa, anche
nell’ambito degli accordi TTIP. Persino in Italia l’anno scorso il 3,1%
delle importazioni di petrolio sono venute dal Canada, che sta
sfruttando i numerosi e ricchi giacimenti di sabbie bituminose. Tuttavia
le tecniche estrattive sono costose e rendono se il prezzo è superiore
ai 70 dollari al barile, altrimenti i costi sono superiori alle
entrate. E proprio questo è il punto fondamentale. Sia da un punto di
vista economico, soprattutto per l’Arabia Saudita, che da un punto di
vista politico, soprattutto per la Russia, ma per esse valgono entrambe
le prospettive, l’indipendenza energetica degli Usa e la prospettiva che
questi possano rifornire l’Europa sia di petrolio che di gas, tagliando
fuori le forniture russe e quelle mediorientali, sono assolutamente da
combattere. La Russia si troverebbe a perdere il suo principale
cliente, l’Europa sia per il petrolio che per il gas, ma soprattutto
perderebbe per un tempo indefinito, la possibilità di una collaborazione
stretta con le economie europee fondata proprio sulla vendita di
energia. L’Arabia Saudita perderebbe il suo ruolo centrale nelle
politiche in medio oriente che è legato soprattutto alle enormi riserve
di petrolio nel suo sottosuolo ed alla sua capacità produttiva attuale.
Insomma, se pensiamo che la caduta del prezzo del petrolio e le
conseguenti difficoltà per l’industria estrattiva americana, sono una
risposta alla guerra in Ucraina, è possibile che ci abbiamo azzeccato.
Se le estrazioni di shale oil & gas vanno in crisi, l’Europa sarà
costretta a negoziare il ritiro delle sanzioni con la Russia ed a
riprendere i programmi di costruzione degli oleodotti e gasdotti
recentemente bloccati dalla guerra, checché ne dica lo zio Sam.
Oltretutto c’è all’orizzonte un nuvolone nero di una prossima crisi
finanziaria che potrebbe essere innescata proprio dal default
dell’industria estrattiva Usa e dalla sua incapacità di fare fronte ai
900 miliardi di investimenti bancari. Già era nell’aria una nuova crisi
finanziaria, e una botta così sul mercato dei derivati, considerando che
la maggior parte di questi investimenti sono garantiti da collaterali
sparsi in tutto il mondo, la potrebbe far precipitare velocemente.
Mettiamola così. Gli arabi hanno fatto balenare agli americani la
possibilità di usare l’arma del prezzo del petrolio contro la Russia, e
così hanno avuto il loro assenso, e allo stesso tempo, hanno concordato
con la Russia di far cadere il prezzo e non tagliare la produzione per
fare fuori l’industria da scisto e da sabbie bituminose americana. Gli
americani hanno aderito entusiasticamente all’idea di menare schiaffi
all’ex amico Putin ma forse ora si rendono conto che non era proprio una
bella idea. Che gli arabi giochino su più tavoli è un dato, hanno
sempre fatto così. E pure i Russi sanno giocare a scacchi meglio degli
americani, tranne che durante il breve regno della buonanima di Fischer,
l’eccezione che conferma la regola. La cosa divertente è che non
possono nemmeno dire niente ai loro alleati e amici arabi, e con il
petrolio sotto i cinquanta dollari al barile sono dolori per loro, molto
più che per i Russi.
La terza guerra mondiale è cominciata già da un pezzo e questa è una
controffensiva che farà molti danni. Speriamo che a qualcuno non saltino
i nervi e non metta la mano al grilletto. A quel punto la guerra
finirebbe subito, e per sempre.
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