Inizio questa breve riflessione sulla carneficina andata in onda ieri da Parigi con una confessione che forse stupirà più di un lettore: pensando alla strage che si è consumata nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo una sola parola non mi è venuta in mente: religione. Dicendo questo forse irriterò qualcuno, probabilmente susciterò “umana compassione” in qualcun altro, ma quantomeno vorrei che mi si credesse sulla parola: non sono in vena di puerili provocazioni.
«Alla base dei fatti di Parigi», scriveva ieri sul Manifesto Carlo Freccero, «c’è una profonda frattura culturale: da un lato il massimo valore islamico, la religione, dall’altro il massimo valore illuminista: la libertà d’espressione». Cercherò di offrire un’interpretazione dei fatti alternativa a questa lettura che, in qualche modo, si inscrive dentro lo schema ultrareazionario dello scontro delle civiltà.
Con la religione si può fare tutto e il contrario di tutto: la religione che per diversi secoli fu al centro di un fondamentale processo di civilizzazione che investì anche l’Occidente (sto parlando naturalmente dell’Islam), a un certo punto della storia universale fu messa (da chi? come fu possibile questo?) al servizio di interessi che tendevano a frenare un ulteriore avanzamento di civiltà. Qui civiltà sta per sviluppo economico, tecnologico, scientifico, culturale, “antropologico”.
Lo spazio geosociale che per diversi secoli costituì l’area più dinamica del pianeta, a un certo punto si trasformò in un fattore di conservazione e di decadenza. E tutto questo, almeno formalmente, a parità di religione, per così dire. Avvenne qualcosa all’interno del contesto religioso, posto che si possa renderlo autonomo dal tutto sociale, oppure quel contesto dovette rispondere alle sfide che vi giungevano dall’esterno (dai processi sociali e dalle relazioni economiche e geopolitiche fra Stati e potenze)?
Ecco dunque emergere il nodo problematico fondamentale su cui a mio avviso vale la pena riflettere: la questione posta sul tappeto non è la religione “in sé”, che è una pura astrazione, ma la sua interpretazione, la quale come tutti sanno non è qualcosa di intangibile e di immodificabile, ma varia invece col tempo e nelle diverse dislocazioni geosociali: la “stessa” religione dice cose diverse agli individui appartenenti a comunità diverse sul piano della struttura economico-sociale. L’interpretazione insomma chiama in causa direttamente la prassi sociale delle comunità, e quindi la loro struttura sociale, gli interessi che vi si scontrano, le relazioni che esse stabiliscono con altre comunità, e così via. La religione è insomma chiamata a dare risposte a domande che variano continuamente, e la sua vitalità si manifesta proprio nel suo incessante cambiamento, nella sua capacità di adattamento, che si esprime appunto come interpretazione, in un’accezione più sofisticata e pregnante anche come teologia (o teologia-politica), più che come pura – meglio: astratta – religione.
Un solo esempio di questo adattamento “pragmatico” (o “sviluppo critico” che dir si voglia): «Il cristianesimo, in quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale […] ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini, senza distinzione, creature di Dio, immagine di Dio, proclamando in termini di principio la stessa dignità. In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana» (Joseph A. Ratzinger). Altro che le banalissime prediche buoniste di Bergoglio, il Papa più amato dai “marxisti”! Questo anche a proposito dell’illuminismo evocato da Freccero nel suo citato editoriale, intitolato I lumi spenti dell’Occidente.
Negli anni Sessanta e Settanta fior di intellettuali “marxisti” di cultura araba si interrogavano sul contributo che l’Islam poteva dare alla «causa del socialismo»: dentro lo stesso libro (il Corano) e nell’ambito della stessa tradizione storica (l’Islam) alcuni trovavano «solidi elementi» per rispondere negativamente alla domanda, altri vi trovavano altrettanti «solidi elementi» per rispondere nel modo opposto: è possibile usare l’Islam nella costruzione del (cosiddetto) socialismo. Soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, l’Islam servì bene, a volte in alleanza con il “marxismo” (ossia con la recezione araba dello stalinismo) la causa nazionale-borghese dei popoli arabi in lotta contro il colonialismo e l’imperialismo occidentale.
In altri e più profani termini, con Allah e con il suo Profeta preferito (e qui so di esporre il collo alla tagliente critica del Misericordioso di turno) si può fare una cosa e la cosa esattamente opposta, si può dire e dimostrare una cosa e dire e affermare la cosa opposta. Ma questo vale per tutte le religioni, beninteso. Ecco perché il sangue versato ieri nella capitale francese non evoca nella mia testa quello scontro di civiltà (con al centro lo scabroso nodo religioso) che oggi impazza su tutti i media, per la gloria di Oriana Fallaci.
Guerra sistemica (anche quella che oggi si combatte in Medio Oriente e in Libia), violenza sistemica, miseria sociale (già, le famigerate banlieue, ma non solo), frustrazione, disillusione, rabbia, vendetta, invidia sociale, risentimento, impotenza (anche quella degli uomini con la metaforica barba nei confronti delle donne cosiddette emancipate), grandeur (presenza francese in Africa compresa): ecco le parole che si agitano nella mia modesta mente. Non è certo la religione, o una sua versione particolarmente estremista e “paranoica”, che arma la disperazione e la mano del macellaio di turno: essa al più riveste un ruolo di meschino pretesto, di anoressico alibi. Quando la necessità di reagire in qualche modo incalza, i pretesti e gli alibi si possono inventare all’istante, e comunque la storia ha già prodotto tanti di quei pretesti e di quegli alibi, che alla «banda di imbecilli», per dirla con Charlie Hebd, il direttore di Charlie Hebdo assassinato ieri, non rimane che l’imbarazzo della scelta.
Ed ecco perché l’ondata di indignazione che arriva dalla Francia e che ci chiama all’Union Sacrée intorno alla bandiera della Civiltà Occidentale (leggi Capitalismo) non mi commuove nemmeno un poco: piuttosto conferma ai miei occhi la perdurante impotenza delle classi dominate, in Occidente come in Oriente, a Nord come a Sud, nei Paesi di democrazia laica come nei regimi che adottano la sharia. Giornate di lutto come queste sono un vero e proprio toccasana per le classi dirigenti di un Paese, soprattutto quando la crisi economica rischia di alimentare i conflitti sociali: «Al di là delle differenze sociali che possono dividerci, siamo tutti francesi (o italiani), e tutti ci riconosciamo nei valori del 1789 (o del… fate un po’ voi!)»: è il ricatto della nazionalità e della Civiltà (borghese). Chi non si piega al ricatto è associato ipso facto ad “amico del giaguaro”, ed è pregato di andare in un esilio civile che a volte può anche anticipare una prescrizione ancora più severa: «La democrazia sa come difendersi dai suoi nemici!». Lo so! Lo so praticamente da sempre, e certamente da quando grazie al Misericordioso barbuto di Treviri ho capito l’autentico concetto di democrazia (borghese).
Dobbiamo dare un nome al Nemico, ha detto ieri Marine Le Pen, la quale già assapora i futuri “epocali” successi politici. Non c’è dubbio. Dare un nome al nemico: il mio piccolissimo contributo mi sembra di averlo dato.
Ho letto da qualche parte che se tutti gli uomini del mondo fossero stati atei, la storia non avrebbe conosciuto né guerre né pregiudizi di alcun genere, e noi probabilmente non ci troveremmo a questo pessimo punto. Ma il problema è che finora sono mancate le condizioni sociali per essere uomini e per vivere come uomini.
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