Nell’intervista
che qui proponiamo, un redattore de «Il Cuneo Rosso» ci espone i
contenuti del secondo numero della rivista dedicato a Crisi globale e lotta di classe in Europae
caratterizzato da un’ampiezza di sguardo e da uno sforzo analitico che
hanno pochi termini di paragone in Italia. Ovviamente, come si evince
anche dalle risposte ai nostri quesiti, le singole conclusioni cui sono
giunti i compagni de “il cuneo rosso” possono suscitare discussioni
anche accese. Si pensi, ad esempio, all’aspra critica che viene
riservata alle campagne per il recupero della sovranità monetaria, che
però viene sviluppata su un piano coerentemente classista, distante anni
lue da certo europeismo “progressista”. Per non dire delle drastiche
valutazioni sullo stato del proletariato a livello continentale, che si
prestano ad approfondimenti e disamine, da svolgersi possibilmente in
occasione di presentazioni della rivista.
Questo secondo numero de «Il
Cuneo Rosso», dedicato allo scontro di classe in Europa e in Italia
nella crisi globale, viene dopo un primo incentrato sull’Intifada araba.
Qual è, secondo voi, il nesso tra i due temi?
Il nesso fortissimo è quello della
grande crisi capitalistica esplosa nel 2007-2008, e tuttora irrisolta.
Che è stata, è una crisi globale, storica del capitalismo, la prima
grande crisi del capitalismo compiutamente globalizzato. Nel n. 1 della
rivista abbiamo inquadrato e salutato la grande Intifada araba del
2011-2012 come il primo segno di una riscossa planetaria degli sfruttati
“comandata” dallo scoppio della crisi, ed è ancora la crisi
capitalistica la grande “regista” degli avvenimenti europei degli ultimi
anni. Sulla sua portata, e le sue conseguenze in tutti i campi, non c’è
ancora, crediamo, una adeguata attenzione da parte dei militanti
anti-capitalisti, siano essi comunisti o anarchici.
In termini generali, qual è la vostra lettura delle cause della crisi?
A sinistra, spesso anche all’estrema
sinistra, dominano spiegazioni della crisi superficiali e perfino
mistificanti che ne individuano le cause nelle politiche economiche
degli stati, nell’abnorme sviluppo della speculazione finanziaria, nella
esasperazione delle disuguaglianze sociali. Queste spiegazioni hanno il
difetto radicale di puntare l’indice, nel migliore dei casi, sugli effetti della crisi scambiandoli per le cause,
e finiscono quasi sempre nella invocazione di una nuova politica
economica “espansiva” per uscire dal tunnel. Invece è solo entrando nel
laboratorio segreto della produzione (come lo chiama Marx), della produzione di valore, della produzione di plusvalore, che si può afferrare la causa ultima dell’attuale caos dell’economia mondiale. E questa causa è, ancora una volta, l’insufficiente profittabilità del capitale, la crescente difficoltà del capitale globale a far progredire la propria profittabilità.
Sembra incredibile (se non si fa mente
locale su cosa è il capitalismo), ma è vero: nell’era neo-liberista si è
verificato un inaudito allargamento dell’accumulazione capitalistica su
scala mondiale, gli addetti all’industria – solo per restare
all’industria – si sono quasi triplicati arrivando a più di 600 milioni;
il saggio di profitto è risalito dal 1982, quando aveva toccato il
minimo dal 1945, fino al 1997 (senza tuttavia raggiungere i picchi dei
primi venti anni del dopoguerra); ma dal 1997 in poi questa risalita si è
scontrata con una serie di ostacoli sempre più coriacei, per cui la
profittabilità del capitale non è riuscita a salire ulteriormente, anzi
ha preso a stagnare o in tendenza a scendere, seppur di poco. E questo,
nonostante il supersfruttamento del lavoro in Cina e nei “nuovi”
capitalismi; nonostante un indebitamento generale, degli stati, delle
imprese, delle famiglie dei proletari, semplicemente stratosferico;
nonostante il doping delle guerre scatenate da Stati Uniti e dalla
Europa (Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, etc.); nonostante un’aggressione
alla natura senza precedenti; nonostante le contro-riforme del mercato
del lavoro, la precarizzazione strutturale e l’intensificazione dello
sfruttamento del lavoro avvenute in tutto l’Occidente. Nonostante ciò,
non è poco!, la profittabilità del capitale è risultata insufficiente
perché il capitale, a seguito dell’ultima rivoluzione tecnica e
organizzativa, fortissima risparmiatrice di lavoro vivo, deve cavare
profitti crescenti da un quantità di lavoro vivo che è relativamente
sempre più ridotta rispetto al lavoro morto (macchine, materie prime,
etc.) che muove o controlla. E’ sempre qui, anzi: più che mai qui,
in questo rapporto tra il lavoro vivo e il lavoro morto, il centro di
tutto il processo dell’accumulazione di capitale, del suo sviluppo come
della sua crisi. E anche la spettacolare crescita del capitale fittizio
che è avvenuta negli ultimi decenni, specie a ridosso dell’esplosione
della crisi, è l’effetto
della crescente difficoltà dei capitali globali a valorizzarsi in modo
adeguato dentro il processo produttivo, ha espresso ed esprime –
all’ennesima potenza – la tendenza ritornante del capitale a cercare una
illusoria valorizzazione fuori dalla produzione, o a lanciarsi a capofitto nella corsa ad ipotecare i profitti futuri.
Ma voi stessi riconoscete
che nel quarantennio “neo-liberista” il capitale ha accumulato su scala
mondiale una massa di profitti impressionante…
Certo! Ma il fatto è che al capitale, ai capitalisti interessa molto la massa dei profitti realizzati, ma gli interessa ancora di più la misura della valorizzazione del capitale “anticipato”, il saggio
del profitto. E non accetta/no di lucrare un profitto qualsiasi: è/sono
alla spasmodica ricerca di un profitto, di un plusvalore senza limiti, in quantità sempre crescenti e, soprattutto, in progressione continua.
Per questo i dieci anni dal 1997 al 2007 sono stati segnati da una
serie di furiosi tentativi per sbloccare l’impasse e ripartire alla
grande. L’insolvenza di alcuni milioni di famiglie povere statunitensi,
da un lato, le lotte per gli incrementi salariali di molti milioni di
operaie e operai cinesi e asiatici dall’altro, hanno portato alla luce
l’insostenibilità sociale delle ulteriori forzature per far risalire la profittabilità del capitale, l’antagonismo di fondo tra le forze produttive impiegate dal capitale e i rapporti di produzione capitalistici.
E si è innescata così una serie di effetti a catena, che sono ben lungi
dall’essere finiti. La crisi, che ha avuto e continua ad avere il suo
epicentro nel centro di comando dell’accumulazione globale, Stati
Uniti/Europa occidentale/Giappone, sta coinvolgendo via via anche i
cosiddetti Brics, e ha già portato alcuni di essi (Russia, Brasile) alla
recessione e alla stagnazione, altri (Cina, India) ad un netto
rallentamento del loro sviluppo.
Naturalmente l’identificazione della causa di fondo, ultima dell’attuale crisi, non chiude il discorso. Bisogna cercare di comprendere le caratteristiche specifiche di questa crisi.
Ed è per questo che abbiamo dato particolare attenzione alla crescita
del debito di stato e al processo di generale indebitamento verificatosi
negli ultimi 40 anni, all’impoverimento dei lavoratori, all’impatto
disuguale della crisi nelle tre diverse Europa (Nord, Sud, Est) di cui
si compone e in cui si scompone l’Europa, con analisi specifiche sulla
Germania, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e i paesi
dell’Est.
Da questa nostra lettura della crisi
deriva che, lungi dal poter scegliere la strada di un allentamento della
cd. “austerità”, e cioè dei brutali sacrifici imposti ai proletari con e
senza lavoro, anche in Italia e in Europa, la sola via d’uscita che i
capitali e i capitalisti nazionali e globali stanno battendo e
continueranno a battere sarà quella della ulteriore intensificazione dello sfruttamento del lavoro, della ulteriore svalorizzazione generale
del lavoro, e di un accresciuto controllo repressivo su di esso.
Abbiamo anche provato a guardare cosa ci si sta preparando in alcuni dei
loro laboratori-Frankestein…
Nella rivista fate riferimento a una sorta di multidimensionalità della crisi, ben oltre il solo dato economico…
Hai colto un aspetto essenziale della
nostra analisi. Una delle “particolarità” di questa crisi è, infatti,
nel suo intreccio con una crisi ecologica e una crisi politica entrambe
di grandissima portata.
La crisi ecologica:
mai come negli ultimi due decenni, con i grossi cambiamenti climatici e
i connessi disastri, con le ripetute crisi alimentari in Africa, con la
corsa alla produzione di “bio-carburanti” (o necro-carburanti, come li
chiamano in America Latina), con la accelerata trasformazione
capitalistica (e neo-colonialista) della agricoltura nei continenti “di
colore”, con l’espansione rapida del land grabbing, con l’avvento del devastante metodo del fracking
nell’estrazione di gas e petrolio, è stato evidente che il saccheggio
capitalistico delle risorse naturali, parallelo e combinato con quello
del lavoro vivo, è arrivato ad un punto tale da intaccare in profondità tanto l’ecosistema globale quanto gli ecosistemi locali e la loro riproduzione,
provocando al contempo un esodo forzato dalle campagne di estensione
senza precedenti e la distruzione dell’agricoltura contadina (come
denunciato ad Agadir nello scorso marzo da Via Campesina).
La congiunzione tra crisi economica e
crisi ecologica è resa più esplosiva dal progressivo logoramento della
egemonia yankeuropea sul mondo. L’ultimo secolo si è svolto interamente
sotto il segno di tale egemonia. Gli Stati Uniti sono stati il motore
dell’innovazione tecnologica/organizzativa e dell’accumulazione su scala
mondiale, il centro di comando della finanza e della speculazione
finanziaria mondiale, la fucina dei pensieri da pensare, il gendarme
onnipresente dell’ordine capitalistico mondiale. Specie dopo il collasso
dell’Urss e dei regimi del “socialismo reale”, questa funzione
egemonica del blocco Usa/Europa occidentale/Giappone (pur percorso da
tanti conflitti) sembrava rilanciata per un lunghissimo periodo. Ed
invece mai come ora essa è traballante e contestata nel mondo, e anche,
seppur più timidamente, all’interno degli Stati Uniti – vedi le giornate
di Seattle da cui è nato il movimento “no global”, il formidabile
sciopero nazionale degli immigrati del 1° maggio 2006 (che curiosamente
nessuno ricorda), Occupy Wall Street, le recenti proteste di piazza
inter-razziali contro i delitti a sfondo razziale della polizia, la
People’s Climate March del 21 settembre scorso.
Il logoramento dell’egemonia yankeuropea sul mondo apre una crisi politica profondamente destabilizzante
per due ragioni. La prima è che per quanto non pianificato e non
pianificabile sia, il capitalismo si è diffuso nel mondo con l’apporto
determinante di alcuni poteri statali che hanno svolto in tale
diffusione una funzione “guida”. E questa funzione è divenuta nel tempo
sempre più importante a misura che le contraddizioni ineliminabili del
modo di produzione capitalistico si sono, con la sua senilità, acuite.
La seconda è che, posti davanti al proprio evidente declino di unica
potenza globale, gli Stati Uniti e l’Europa stanno mettendo in atto una
serie di violente reazioni dagli effetti ulteriormente destabilizzanti,
in particolare proprio su quei paesi capitalistici ascendenti (Russia,
Brasile, India, Cina, etc.) a cui si chiede, d’altra parte, di svolgere
un ruolo fondamentale nel portare l’economia mondiale fuori dall’attuale
incasinamento.
In questo modo crisi economica, crisi
ecologica e crisi dell’ordine internazionale si alimentano a vicenda, e
non è certo un caso che si sia tornati a parlare di “guerra fredda”,
specie tra Usa e Russia, che non è più così fredda, come mostrano gli
avvenimenti ucraini, nei quali è palese la manomissione del paese da
parte di Stati Uniti ed Europa.
Alla luce della vostra
analisi, come giudicate le proposte di chi – muovendo dall’idea che la
crisi non colpisca in modo omogeneo tutti i paesi europei – propone
alleanze fra gli stati più colpiti, ritenendo centrale il recupero della
sovranità nazionale e, addirittura, monetaria?
Beh, se si tratta di Marine Le Pen o di
Salvini o di Grillo, le giudichiamo scontate. I capitali francesi di
minore tacca che si sentono penalizzati dalla Germania (in Francia per
ora i grandi gruppi industriali e le banche non sostengono apertamente
il FN), i sciur Brambilla italiani che si sentono penalizzati dall’euro
per il fatto di non poter più svalutare i salari operai, cercano una
illusoria via d’uscita dalle proprie difficoltà – che sono dovute
essenzialmente non all’euro o alla Germania, ma alla crisi economica
globale, alla mondializzazione della concorrenza, e alla loro
pidocchiosa micro-taglia – attraverso un fronte anti-tedesco e
anti-immigrati. Nulla di particolarmente nuovo in tutto ciò. Sono
varianti della politica capitalistica esiziali per i proletari
che si propongono di approfondire il solco tra proletari autoctoni e
proletari immigrati, e tra i proletari di tante nazionalità che sono sul
suolo tedesco e i proletari degli altri paesi europei, a tutto e solo
vantaggio del proprio capitalismo nazionale. Le Pen, Salvini, Grillo e
simili sono nemici di classe da
combattere senza nessuno sconto, nessun suicida calcolo “tattico” sul
fatto che, non volendo, possano fare il nostro gioco. Da combattere, si
capisce, non invocando i fronti anti-fascisti o anti-razzisti con i
“democratici”, o confidando su leggi e misure statali punitive del
fascismo e del razzismo, ma contendendo loro attivamente sul campo i
settori sociali più marginali, più disgregati, più disperati, più
disorientati del proletariato (in certi casi anche piccoli settori di
immigrati) su cui la loro demagogia ha presa.
Ma la proposta di uscire dall’euro non viene soltanto da destra…
Vero, purtroppo!
Alcuni gruppi di sinistra, anche
“radicale”, credono di aver trovato la soluzione di tutti i problemi dei
lavoratori di paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Italia, nella
uscita volontaria
dall’euro, che infatti sta facendo sempre più proseliti. Di questa
proposta, e della logica che l’ha generata, crediamo vada fatta una
critica dal punto di vista degli interessi di classe.
Alla sua base c’è un’analisi
completamente falsante della crisi, che non è stata, e non è, una crisi
monetaria, bensì una crisi della produzione di profitti, con ovvii
riflessi (anche) in campo monetario. Non si vede quindi come una misura
monetaria possa essere risolutiva per superare una crisi che monetaria
non è stata e non è. Ma la “soluzione” proposta è ancor peggio
dell’analisi, e si condensa in questo: passare dall’euro ad una serie di
monete nazionali di minor valore, con una svalutazione secca della
nuova moneta sull’euro, che significherebbe anzitutto una valutazione
secca dei salari (in qualche caso si ipotizza anche del 50!), per cercare in questo modo, abbattendo cioè i costi di produzione,
di riconquistare spazi di mercato alle singole economie nazionali e, di
conseguenza (!?), migliorare la condizione di vita dei proletari dei
paesi tornati alle belle, vecchie monete di un tempo. Per quanto si
voglia combinare e aromatizzare questa prospettiva con una serie di
misure sociali pro-lavoratori, la sua sostanza di classe non muta: gira e rigira ciò che si prospetta è un diverso contesto di competizione capitalistica sul mercato mondiale tra nazioni e tra proletari, presuntamente più favorevole a questi ultimi.
Per noi l’alternativa tra “morire per
l’euro e il Fiscal Compact”, proposta dagli squallidi Renzi di tutta
Europa, galoppini delle banche e del grande capitale, e “sfasciare
l’euro per tornare alle monete nazionali”, da chiunque proposta, è una
alternativa falsa, da respingere.
E’ l’alternativa tra la padella e la brace, tra l’essere alla coda dei
grandi capitalisti o l’essere alla coda dei piccoli accumulatori, e
nell’uno come nell’altro caso a rimetterci la pelle sono i proletari di
tutte le condizioni e generazioni. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, è un immenso sforzo collettivo, combinato, internazionalista per combattere insieme la Troika e i nostri governi,
i padroni dell’euro e dei debiti di stato che ci stanno soffocando con
le regole strangolatorie del Fiscal Compact e delle controriforme.
Combatterli insieme anche agli sfruttati del Sud del mondo, a iniziare
da quelli arabi e africani, che sono schiacciati dall’imperialismo
europeo e dai suoi sgherri locali. Questa è la nostra prospettiva, la
prospettiva di classe, per difficile che sia metterla in atto.
La tematica della “sovranità monetaria”,
infine, ci fa francamente sorridere. Prima del 1999 era forse sovrana
la lira nei confronti del marco o del dollaro, o lo erano forse prima di
accedere all’euro la dracma greca o la peseta spagnola? Stiamo
scherzando? Non lo erano affatto in tempi di globalizzazione meno spinta
di oggi, figurarsi oggi, con una concentrazione-centralizzazione del
capitale finanziario che ha avuto – nell’era neo-liberista – un
formidabile balzo in avanti.
Anche voi, però, prospettate
un’ipotesi che può far discutere: quella di espulsione dall’euro per un
paese che non voglia accettare il Fiscal Compact e le regole della
Troika…
Sarebbe tutt’altra storia! Ed è
un’ipotesi che potrebbe, forse, non essere lontana per la Grecia, se
davvero Syriza dovesse andare al governo, e se in Grecia il movimento
proletario e popolare fosse così forte da imporre
a Tsipras delle misure di politica economica e sociale ritenute
inaccettabili dai poteri forti che dettano legge in Europa.
Intendiamoci: da anni vediamo la direzione di Syriza spostarsi
progressivamente su posizioni sempre più moderate, verso un governo di
coalizione con il centro, e sfumare sempre di più le iniziali posizioni
conflittuali verso la Troika. Ma non si possono fare i conti senza
l’oste. E se da un lato è in atto una campagna terroristica da parte
delle forze grandi-borghesi greche ed europee contro l’avvento di un
governo Tsipras, dall’altro lato è possibile che, intensificandosi lo
scontro di classe, il movimento dei lavoratori e dei giovani, ritrovando
il protagonismo in parte appannatosi negli ultimi tempi, faccia valere
nei confronti del nuovo governo, o di un successivo governo più di
sinistra, le proprie aspettative spingendolo (anche per effetto
dell’azione della minoranza interna a Syriza, più radicale rispetto a
Tsipras) a decisioni non programmate in materia di salari, di ripristino
dei diritti dei lavoratori, di moratoria immediata del pagamento del
debito (in vista del suo annullamento), di nazionalizzazioni sotto il
controllo dei lavoratori, di misure fiscali di tipo fortemente
progressivo, etc. Ed è prevedibile che da questa eventuale doppia
radicalizzazione i poteri forti europei, a cominciare dalla BCE di
Draghi, sarebbero portati a un diktat stringente: o fate subito tutto quello che vi ordiniamo, o andate fuori dall’euro. Il rifiuto di questo diktat anche a costo di essere cacciati dall’euro avrebbe un chiaro segno di classe (di
“sovranità proletaria”, se proprio si vuole usare questo termine) tanto
quanto l’eventuale decisione della Troika di cacciare la Grecia ribelle
dall’euro. E la resistenza alle conseguenze di questa espulsione, in
Grecia e altrove, unita ad un appello alla solidarietà dei lavoratori
degli altri paesi che sono già sottoposti, o sono vicini, a simili
diktat, assumerebbe una valenza realmente internazionalista,
anti-capitalista, proprio quella che viene proclamata, ma è nello stesso
tempo assente, in tutte le varianti di sinistra dell’uscita volontaria
dall’euro per tornare alle vecchie monete o fondare una nuova moneta,
competitiva, di area.
Uno dei motivi per cui le
ipotesi di uscita volontaria dall’euro si stanno affermando è che ad
esse non sembra opporsi un’alternativa valida: la parola d’ordine
dell’unità dei proletari su scala continentale, allo stato, pare
piuttosto retorica e astratta…
E’ così, non c’è dubbio.
E non ci nascondiamo affatto che lo
stato attuale della classe in Europa è – all’immediato – drammatico, per
la sua mancanza di autonomia politica e ideologica dalle forze e dalle
tematiche borghesi. Abbiamo alle spalle 40 anni di ininterrotti attacchi
capitalistici che hanno lasciato il segno, prima con la
nazionalizzazione e poi con l’aziendalizzazione dell’organizzazione e
della mentalità dei lavoratori, su cui si è innestata nell’ultimo
ventennio la disgregatrice logica individualistica del “ciascuno per
sé”, una logica favorita dal riflusso delle lotte e dall’enorme
disoccupazione. Il vecchio movimento operaio è al suo pressoché completo
disfacimento e in certo senso il movimento proletario è obbligato a ripartire da zero. La risalita da questo baratro non sarà facile, e neppure breve. Dobbiamo accettarlo. Non ci sono scorciatoie.
Noi abbiamo però una grande fiducia nella oggettività dei processi sociali.
Andiamo verso un’intensificazione dello scontro di classe in Europa e
nel mondo proprio perché la grande crisi non è risolta, su questo non
c’è il minimo dubbio. E l’unico modo di cui dispongono i poteri globali
per risolverla è un attacco ancor più brutale ai lavoratori, alla
natura, e uno scatenamento dei conflitti inter-capitalistici. Da qui non
si scappa. Ai proletari europei, come già a quelli arabi, con tutte le
differenze del caso, non resterà che sollevarsi a milioni e con forza
contro i padroni e i propri governi, a meno di accettare un destino di
impoverimento, di autentica schiavizzazione del lavoro, di repressione
da tempi di guerra (vedi la Ley mordaza del governo Rajoy in Spagna e le
nuove misure repressive prese pressoché ovunque contro immigrati,
richiedenti asilo e rom). E in questa sollevazione, per noi comunisti,
sarà ben più efficace di oggi (quando appare astratto) mettere avanti ciò che unisce
tra loro i proletari tedeschi e greci, italiani e britannici, jugoslavi
e spagnoli, immigrati e autoctoni, e ciò che li unisce ai proletari del
resto dell’Occidente, alle prese con analoghi attacchi capitalistici, e
ai proletari del Sud del mondo che sempre meno accettano di essere
trattati da paria, e le cui lotte infondono coraggio.
Ad oggi, questa sollevazione non appare
imminente, e forse neppure vicina, per quanto a nessuno è dato divinare i
tempi degli avvenimenti storici. Ma c’è un altro dato oggettivo fondamentale che gioca per noi, sempre a condizione – si capisce – che noi comunisti giochiamo la nostra partita: il crescente discredito e la crescente delegittimazione della classe dominante
che ci ha precipitato in questo caos, e non sa come uscirne, il
crescente rifiuto di massa, anche in strati sociali non proletari, dei
suoi super-privilegi, della sua distanza siderale dalla vita della
comune umanità lavoratrice, della sua incompetenza, della sua
corruzione. Una volta tolto di mezzo il campo (fintamente) socialista,
una volta scomparsi o assassinati i piccoli/grandi “demoni” Khomeini,
Saddam, Milosevic, Gheddafi, Bin Laden, Chavez, etc., i
super-capitalisti globali e i loro funzionari al governo, restati i
padroni assoluti del globo, esibiscono al mondo da loro “liberato” un
immane disastro di cui portano per intero la responsabilità. E di cui
dovranno rendere conto!
Stante questo quadro complessivo, ci sono però episodi conflittuali da cui partire per rifondare un’opzione anticapitalistica?
Risposta:
Negli ultimi anni le lotte non sono mancate del tutto né in Italia, né
in altri paesi europei, inclusa la Germania e i disastrati paesi
dell’Est. Nella rivista richiamiamo le lotte più significative. Ma sono
state fino ad oggi molto inferiori alle necessità dello scontro e sono
rimaste quasi sempre non comunicanti, isolate le une dalle altre.
Qualche compagno direttamente impegnato in singole lotte (come anche noi
siamo) potrà trovare forse “pessimistico” il quadro che facciamo all’oggi,
ma, se ci limitiamo all’Italia, anche lo sciopero generale ultimo non
ha dato una vera e propria scossa alla situazione; anche dopo di esso
sulla rabbia e sulla volontà di lottare a fondo contro Renzi&Co. a
prevalere, sui posti di lavoro e nella marea dei precari, sono ancora la
paura e, soprattutto, la sfiducia nella possibilità di ribaltare gli
attuali rapporti di forza con il padronato e il governo.
Non c’è solo un deficit di quantità e di
energia delle lotte; c’è anche un pesante silenzio di teoria, un
deficit di autonomia dei proletari dal pensiero dominante, a cominciare
dalla stessa analisi delle cause della crisi, per non parlare delle
soluzioni, della soluzione rivoluzionaria alternativa. C’è un profondo disorientamento ideologico. Il futuro, il futuro nostro, del socialismo, del comunismo, è al momento praticamente assente.
La guerra di classe in Europa è ancora oggi
condotta più dall’alto, dalla classe sfruttatrice, che dal basso, dal
proletariato. Ma è proprio l’attacco capitalistico ad indicare i terreni
obbligati dello scontro e della ripresa dell’iniziativa di classe. Ci
occupiamo ampiamente di questo: da dove si riparte dopo 40 anni di attacchi capitalistici.
Il come chiediamo ai lettori di questa intervista di scoprirlo da sé
leggendo questo nuovo numero de «Il Cuneo Rosso»… richiedetelo a com.internazionalista@gmail.com
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