Crolla la borsa di Atene (-16% in tre giorni). Vola lo
spread (1.000 punti sui bond trentennali). Nella stratosfera gli
interessi sui titoli di stato (17%).
La fomazione del governo Tsipras - che alla sua prima riunione ha
deciso l'unica cosa concreta in tutto il polverone di chiacchiere
immediatamente cosparso dai media di casa nostra: stop ai processi di
privatizzzione già avviati da Samaras per elettricità e porto del Pireo -
è stata salutata dai mercati finanziari con una fuga massiccia da
Atene. Il messaggio sembra chiaro: dovete morire.
La realtà è alquanto diversa: nessuno si può permettere, neanche "i
mercati" più speculativi, l'esplosione della Grecia, la sua uscita
dall'euro, la conseguente rottura della moneta unica (tutti i paesi
attualmente "con problemi" diventerebbero immediatamente bersaglio della
speculazione al posto di Atene), un caos non limitabile alla sola
Europa.
Così come la Grecia non può rompere da sola il vincolo coercitivo
creato con i trattati dell'Unione Europea, così la Ue e i mercati non
possono pensare semplicemente di "estromettere" un paese, per quanto
piccolo, dove la popolazione ha democraticamente deciso di volere un
governo più attento alle proprie condizioni di vita che non ai diktat
della Troika.
L'attacco dunque c'è, e fortissimo, quasi terroristico. Ma è più un
segnale, un avvertimento, una minaccia, che non una dichiarazione di
"soluzione finale".
Con lo stop alle privatizzazioni il governo Syriza ha fatto vedere di
voler fare sul serio, realizzando subito un punto chiave del proprio
programma elettorale. "I mercati" hanno fatto altrettanto sul serio,
preparando il terreno per i ricatti che il capo dell'Eurogruppo -
l'olandese Jeroen Dijsselbloem - metterà sul tavolo domani, nel suo
primo incontro con i nuovi dirigenti greci. La partita a scacchi è
iniziata e durerà a lungo.
La prima cosa da capire è che ci troviamo di fronte a una situazione
storica mai vista prima, anche sul piano strettamente economico. Il
capitalismo è in crisi conclamata da otto anni e non si vede da nessuna
parte una via d'uscita. Le idee su come cercarla sono per un verso
ideologia al servizio dei capitali forti (l'"austerità" in piena crisi è
solo un modo di impoverire i già poveri e la "classe media" per
arricchire chi già ha troppo), per l'altro soluzioni empiriche "di
necessità", "riformismo obbligato", che attinge in modo ondivago a un
patrimonio ideale senza però esserne condizionato o rispettarlo più di
tanto. Syriza è un calderone, non l'erede unitario di una visione
socialdemocratica un po' più radicale del quasi defunto Pasok. E' tenuta
insieme dalla pressione di una popolazione alla fame, bisognosa di
risposte immediate, non da una prospettiva di "riforma di lunga durata"
del sistema capitalistico.
Ed anche il più criminale degli speculatori di un certo peso sa che
non è mai interesse del creditore far morire il debitore. La partita si
gioca dunque sulla lunghezza del guinzaglio che deve continuare a tenere
per il collo un debitore ormai senza fiato; il quale, da parte sua, sa
che solo una maggiore libertà d'azione e più tempo a disposizione
possono evitare una morte altrimenti certa. Un po' come il prigioniero
messo con le spalle al muro dalle botte delle guardie: primo obiettivo,
farle smettere di picchiare, poi si ragiona per il passo successivo.
Non è un caso che stavolta "il contagio" tra titoli greci e titoli
italiani o spagnoli non ci sia stato. "I mercati" sanno che la Bce sta
per cominciare a comprare, quindi la stabilità finanziaria è per il
momento - 60 miliardi di euro al mese per 18 mesi - assicurata. Sanno
anche che il debito greco in mano ai privati - ovvero in mano propria - è
ben poca roba. Oltre l'80% è nelle casseforti di Fmi, Bce, Unione
europea e diverse banche centrali; che non hanno alcun interesse a
venderli, tanto meno ai prezzi di queste ore.
C'è insomma spazio e tempo. Quel che serve per trattative complicate,
complesse, dure. Quel che serve per dare un po' di respiro a un popolo
usato come cavia di laboratorio da un pugno di criminali assisi nel
gotha della finanza o ai vertici delle "istituzioni sovranazionali".
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