lunedì 21 dicembre 2015

La fine delle "famiglie politiche" europee di Dante Barontini, Contropiano.org

La fine delle "famiglie politiche" europee
Ormai è rimasta soltanto la Germania. Dopo il risultato spagnolo, il quadro appare ormai quasi completo: le “grandi famiglie politiche” del dopoguerra si vanno sciogliendo. Quelle che che hanno dato vita all'Unione Europea e ora ne vengono travolte.

Liberali, popolari, socialisti o socialdemocratici, nelle varie versioni nazionali, non costituiscono più una rappresentanza politica credibile agli occhi delle rispettive popolazioni. Quanti avevano gioito della scomparsa dei “comunisti” dopo il 1989 – sul piano elettorale, quindi come radicamento sociale diffuso – si vanno scoprendo ora esattamente nella stessa condizione. Vengono accompagnati a passi rapidi fuori dalla Storia.
Inutile ormai star qui a disquisire se quei partiti “comunisti” fossero o no depositari autentici, e in che misura, dei valori originari del movimento operaio. Così come è inutile chiedersi oggi se i popolari di Rajoy-Sarkozy-Merkel o i socialisti di Sanchez-Hollande-Schultz abbiano qualche parentela ideale minima con i loro padri spirituali di 30 0 70 anni fa.
Tutti i paesi dell'Unione Europea sono infatti percorsi dalla stessa febbrile crisi politica, che segue – com'era ovvio che fosse – la crisi economica e finanziaria globale, lo svuotamento di potere dei parlamenti e dei governi nazionali, la dimostrata incoerenza tra meccanismi di identificazione ideologica o valoriale e concrete pratiche di governo.
Una crisi politica che tende ad azzerare ovunque i “vecchi partiti” perché questi sono ormai sentiti e visti come bande di potere pronte a tutto pur di restare in sella, privati come sono di qualsiasi influenza sulle scelte macroeconomiche e dunque sulle politiche sociali.
Casta”, si è detto in Italia. E in effetti la classe politica selezionata dalla democrazia parlamentare è sempre stata qualcosa di molto vicino a questa definizione. Il dato nuovo è che “la politica” non è più un luogo di compensazione tra interessi sociali (quindi economici) diversi o addirittura contrapposti. Quindi non vengono più selezionati “statisti” (figure in grado di coniugare la complessità dei diversi interessi in una visione di lungo periodo e in politiche conseguenti), ma semplici affabulatori. Quindi la “necessità della politica”, e dei relativi “professionisti”, viene meno. Basta un impresario dello spettacolo o un attorucolo da telequiz per coprire il ruolo...
Con l'Unione Europea e la centralizzazione sovranazionale delle decisioni politiche – ridotte a semplice esecuzione di “pratiche economiche” considerate pregiudizialmente “ottimali” - nessun governo nazionale ha più alcuna possibilità di esprimere la combinazione di interessi sociali che lo ha fatto eleggere, qualunque essa sia. C'è un interesse superiore – quello del capitale multinazionale, in primo luogo finanziario – che sovradetermina, distrugge, subordina gli spazi di autonomia decisionale di chiunque.
L'esperienza greca del 2015, con la drammatica svolta del 13 luglio e la nascita di una Syriza 2.0 completamente addomesticata, sta lì a confermare la battuta tagliente di Wolfgang Schaeuble durante una riunione dell'Eurogruppo (istituzione non prevista da nessun trattato, ma dotata di poteri quasi assoluti): “siamo un'Unione a 28 paesi, ci sono elezioni quasi ogni mese, non possiamo assolutamente permettere che un’elezione cambi le cose.
Quindi, di fatto e nella percezione comune delle popolazioni, non ha più senso star lì a distinguere tra un partito o l'altro, tra una “grande famiglia politica” e l'altra, per lo meno tra quelli che iscrivono il proprio orizzonte all'interno dell'Unione Europea (che è un'istituzione quasi-statuale, non “l'Europa”).  
Il discrimine politico vero è diventato infatti un altro: vuoi continuare ad andare avanti dentro questa gabbia costruita per impoverirti oppure vuoi romperla?
La crescita inarrestabile dei “movimenti anticasta”, dei "populismi" dall'ideologia confusa, con caratteristiche sociali e ideologiche anche molti diverse ma complessivamente dilettantesche, ha questa ragione profonda e incomprimibile. Appena sussurrata in alcuni casi, apertamente esplicitata in altri. Una crescita che in alcuni casi dà spazio a vecchi marpioni che sanno fiutare il vento (come i lepenisti in Francia o l'impresentabile Salvini in Italia), ma che quasi ovunque ha fatto emergere risposte realmente “nuove” e assolutamente incasinate.
Un solo paese sembra ancora resistere a questo cambio di pelle della tradizione politica. Non a caso è la Germania, il paese-guida che più ha guadagnato dall'unificazione del mercato e dalle regole imposte con mortifera sapienza (e accettate da altri paesi con imbarazzante dilettantismo). Ma, anche lì, ad un prezzo che prima o poi dovrà essere pagato: la grosse koalition, ossia la sostanziale unificazione operativa delle due principali famiglie tradizionali (democristiani e scialdemocratici), che per un verso rappresenta la fusione tra gli interessi del capitale multinazionale e dell'aristocrazia operaia ad alta qualifica e salario, per un altro restringe il campo degli interessi rappresentati a un “blocco sociale” che sta diventando rapidamente minoritario anche a Berlino (la generazione nata sotto le “riforme Hartz” è fuori da questo patto sociale, e si va fisiologicamente ingrossando con passare degli anni).
Cosa significa tutto questo per la lotta politica nel Vecchio Continente? In primo luogo che non esiste più una contrapposizione credibile tra “progressisti” e “conservatori”, se non nel campo – residuale e socialmente poco rilevante – di alcuni diritti civili. La faglia che si va allargando è tra i soggetti sociali che si riconoscono – perché “ci guadagnano” - nel percorso reazionario dell'Unione Europea e quelli che guardano alla sua rottura come precondizione indispensabile per ritrovare una possibilità di scegliere finalità e obiettivi, anche diversi.
Anche in questo caso, ovviamente, ci sono suggestioni fortemente reazionarie (revansciste, xenofobe, fasciste, ecc) come prospettive decisamente liberatorie, solidaristiche e “rivoluzionarie” su basi di classe. Ma non ci sono alternative all'unirsi per lottare, al mettere insieme il “nostro blocco sociale” in un percorso conflittuale di lungo periodo.
Ci vediamo in piazza il 16 gennaio.

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