mercoledì 30 dicembre 2015

I numeri non sono un’opinione di Alfonso Gianni, Il Manifesto

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Com’era prevedibile Matteo Renzi si è affidato alla guerra dei decimali per cercare di dimostrare che in Italia spira aria di ripresa. Ma si tratta di uno striminzito 0,8% in più, persino meno di quanto era nelle previsioni del ministro dell’Economia.
D’altro canto l’Istat aveva già segnalato ai primi di dicembre che la tendenza è quella al rallentamento dell’economia italiana. Quindi c’è da dubitare sul raggiungimento degli obiettivi già modesti di fine 2016. Sarà per recuperare credibilità dopo gli scandali bancari tuttora in pieno svolgimento, sarà perché ormai è evidente anche ai ciechi, nella conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha mostrato una certa aggressività verbale verso le politiche europee.
«Di sola austerità il Continente muore» ha affermato, mentre l’Italia avrebbe puntato più sullo sviluppo, solo che le autorità europee non vogliono riconoscerle la flessibilità desiderata sui conti.
Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta dell’europeista incompreso. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona; soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012–2014 il Pil si è ridotto del 5%, più o meno come nel lontano 1929!
Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007 la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%. Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo ricordano i più attenti economisti — spinge anche il più pigro imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della produttività di sistema.
 
Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più, pagati a carissimo prezzo.
L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato l’Articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste – più di 40 — la preferita restava sempre quella del semplice contratto a termine.
D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.
Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro, di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un contratto a termine a totale discrezionalità padronale.

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