Tanto per orientarsi e scherzarci un po’, anche se di mala voglia,
per individuare una formula della sinistra basterebbe rincorrere il
contrario di quanto ha fatto, o cercato di fare, il PD, nelle sue varie
sigle, a partire dagli anni ’80. Sostanzialmente, con la scelta della
truffaldina terza via, in cerca del mitico passaggio a nord-ovest tra
socialismo e capitalismo, pensando di arrivare alla soluzione ottimale:
governare il capitalismo da sinistra e rendere tutti felici e contenti.
L’abolizione, dunque, del conflitto sociale, e tutte le energie volte al
benessere collettivo, come non esserci arrivati prima ? Ci avrebbe poi
pensato la realtà a dimostrare quanto fosse illusoria questa teoria e
quali trappole nascondesse.
Lo spirito capitalista non ha mai fatto
sconti a nessuno e, visto che ogni diritto democratico era stato
conquistato da dure lotte e non da virtuose concessioni, in assenza di
contrapposizione si sta riprendendo tutto, come il panorama odierno
insegna. Senza voler ridurre tutto alla spiegazione semplice di problemi
ultracomplessi, ci sono tuttavia alcuni fatti emblematici su cui
riflettere, a proposito della sinistra che fa scelte di destra, in cerca
dell’impossibile sintesi.
Aveva cominciato Bill Clinton, nel 1999, con l’abrogazione del
Glass-Seagall Act, la legge introdotta nel 1933 da Franklin Delano
Roosevelt, dopo la crisi del 1929. Il suo dispositivo sanciva la
separazione tra le banche d’affari e quelle di deposito, con lo scopo di
arginare gli investimenti speculativi e la loro pericolosità. In Italia
ci aveva pensato, già qualche anno prima, Mario Draghi, abolendo una
legge bancaria del 1936, ma, ovviamente, l’impatto della decisione
statunitense cambiò la situazione mondiale. Da allora è partito
l’impazzimento planetario, con transazioni istantanee, mutui cancerosi e
derivati tossici, i cui effetti distruttivi dureranno per anni.
Di fatto, l’economia, mentre taglieggiava la politica, si
genufletteva alla finanza, come lucidamente analizzato da Luciano
Gallino (Finanzcapitalismo, Einaudi). Invece di preoccuparsi del futuro dominio culturale e politico degli Imam, come suggerito da Michel Houellebeqc (Sottomissione,
Bompiani), il mondo occidentale dovrebbe rimettere a posto il califfato
dell’Iban, che non taglia le teste, ma quanto a stragi non è da meno. E
il primo passo non può che essere il ripristino di quella salutare
separazione tra banche normali e quelle speculative. Servirà anche a
ritrovare il senso della politica nel definire scelte e soluzioni della
vita comune, invece che lasciarle all’oscena religione del mercato: ne sera pas la loi di marché qui fera ma liberté (Casa del vento. La loi du marché).
Un altro profeta della terza via è stato Toni Blair, sostenitore e
complice di George W. Bush nell’attacco all’Iraq, del 2003. L’ex premier
inglese, dopo aver mentito ai suoi elettori e al mondo intero sulle
inesistenti armi di distruzione di massa, per giustificare quel
criminale intervento, qualche giorno fa ha chiesto scusa, dicendo che
quella guerra era stato un errore e che da lì, probabilmente, era partito
il fenomeno Isis (o Daesh). Piu di un milione di morti sistemati con un
“sorry”. Niente male per uno che Renzi e compagnia briscola continuano a
considerare un padre nobile. Era curioso, qualche tempo fa, sentire
Nardella, l’attuale sindaco di Firenze, affermare che il peggiore
comportamento, per un politico, sia mentire ai propri elettori. Solo che
parlava di Marino, bruciato sulla pira degli scontrini, mentre le
menzogne omicide di Blair continuano a brillare nel firmamento del
Partito Democratico, che a quell’invasione era contrario.
Tornando a casa nostra, il sentiero del centro sinistra, tra Quercia,
Ulivo e arbusti vari, è comunque lastricato di scelte univoche al
servizio dello sviluppismo predatorio: grandi opere, inceneritori e
privatizzazione di tutto quello che si muove. Basta ricordare le famose
lenzuolate liberiste di Bersani, come se la gestione pubblica fosse
opera del demonio. O riflettere sul ricorso a ogni appiglio o feritoia
del quadro legislativo per svicolare dal referendum sull’acqua del 2011,
il cui risultato impediva (impedirebbe…), tout court, la gestione
privata e il ricavo di profitto dal servizio idrico.
Bisogna fare il contrario, appunto, a partire dal mondo del lavoro,
intortato dal Jobs act (parole straniere, fregature italiane): com’è
possibile che esistano una quarantina di contratti precari ? O che sia
accettabile il demenziale pagamento attraverso voucher (o buoni lavoro)?
I contratti, secondo un’elementare logica, dovrebbero essere una
manciata: apprendistato, part-time, contratti a termine o a tempo
indeterminato, eventuale contratto di reinserimento. Fine dei discorsi e
delle speculazioni. E, naturalmente, ripristino dell’articolo 18,
altrimenti, con la libertà di licenziare in cambio di qualche mese di
stipendio, il posto fisso non esisterà più. Uno degli argomenti
preferiti dai sostenitori del Jobs act è che, col contratto a tutele
crescenti (ossimoro delizioso, visto che può interrompersi in qualsiasi
momento) è aumentata a dismisura la concessione di mutui. Sarà
istruttivo vedere cosa succederà quando, incassati i relativi incentivi,
cominceranno i licenziamenti e quei lavoratori si troveranno a spasso e
col mutuo da pagare. Qualcuno, là in alto, dovrà cominciare a correre,
nella savana delle balle.
Naturalmente, la riconquista di diritti non sarà indolore e potrà
essere ottenuta solo con un sano conflitto sociale, che sappia unire
tutto il mondo del lavoro, oggi tanto frammentato da rendere l’impresa
estremamente ardua. La prima mossa che si impone è la conquista del
reddito di cittadinanza, condizione ineludibile per liberare le persone
dal ricatto della disoccupazione, addirittura generazionale, e riaprire
il percorso a una più equa distribuzione della ricchezza, senza lasciare
indietro nessuno.
Un altro campo da difendere a ogni costo è quello della nostra
costituzione, attaccata con riforme cervellotiche e pericolose, che
disegnerebbero un potere tutto spostato sul governo, con i contrappesi
democratici messi all’angolo e resi ininfluenti. Vogliamo rimetterci al
servizio dell’uomo solo al comando? Il solo concetto dovrebbe offendere
chi ha sempre difeso la partecipazione dal basso, la
responsabilizzazione collettiva e l’apertura mentale. Invece questa
solitudine competitiva, introiettata purtroppo da molti e vista come
un’energia vitale, sta distruggendo la socialità, e trasformando la
mutualità in debolezza: bisogna essere soli e forti, è il messaggio,
inseguendo una modernità taroccata che ci rimanda implacabilmente
all’800.
Infine, resta l’obiettivo della riconversione ecologica, visto che di
pianeta ce n’è uno solo e andrebbe difeso, a meno di non volerci
estinguere in una nuvola di polveri sottili o travolti da onde di
plastica direttamente dall’oceano. L’unico modo è uscire dalla logica
del profitto a tutti i costi e del consumo compulsivo: dobbiamo fare
pace con la natura, ovviamente senza disfarci dei vantaggi che il vero
progresso e le conoscenze scientifiche ci garantiscono. E questo sarà
possibile solo se ridurremo le colossali diseguaglianze che ancora
imperano, e se la giustizia sociale consentirà il raggiungimento comune
di un minimo benessere, svincolato da umilianti programmi di assistenza.
La formula della sinistra, come qualunque altra, non può risolvere
tutte le incognite, ma imboccare il metodo giusto sarebbe già una
piccola garanzia.
Perché non ragionare, per fare un singolo e concreto esempio, che, da
valsusino incorreggibile, mi sta molto a cuore, sulla logica stringente
di queste autorevoli citazioni?
“Altro luogo comune: per creare posti di lavoro è necessario
inventarsi l’ennesima grande opera. Le grandi opere sono state utili,
per carità, talvolta anche solo per il loro valore simbolico.
L’Autostrada del Sole è il simbolo della ripartenza dell’Italia. L’Alta
velocità Torino-Salerno, in attesa di raggiungere Bari, è una
metropolitana nazionale che sta cambiando le abitudini del Paese. Ma le
grandi opere non sono né un bene né un male in sé. Dipende da dove sono,
quanto costano, quanto servono. Lo so che esprimere un concetto del
genere è banale. Ma forse dobbiamo ritornare alla logica ferrea delle
cose semplici. Non esiste il partito delle grandi opere. Non credo a
quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la
Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili.
Sono soldi impiegati male. […] Ma un giudizio netto e fermo su ogni
forma di violenza non cancella il giudizio politico sulla TAV, che non è
dannosa. Rischia semplicemente di essere un investimento fuori scala e
fuori tempo.”
“Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi
infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle
strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle
istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili.”
Queste sagge parole sono contenute nel libro Oltre la rottamazione
(Strade blu, Mondadori), uscito a maggio 2013. L’autore è Matteo Renzi,
che, però, da presidente del consiglio, non ha mandato alcun segnale
per fermare l’inutile scempio della val di Susa, somigliando così a quel
personaggio di Altan che dissentiva spesso dalle sue convinzioni. Ecco,
anche un filo di coerenza, senza esagerare, sarebbe utile alla formula,
anche se, in questo caso, il termine sinistra appare irrimediabilmente
clandestino. Fa niente, gli prenderemo le impronte.
Paolo Sollier
EX CALCIATORE, ALLENATORE E SCRITTTORE
Nessun commento:
Posta un commento