domenica 20 dicembre 2015

LA BUSSOLA DEL CONTRARIO di Paolo Sollier

Tanto per orientarsi e scherzarci un po’, anche se di mala voglia, per individuare una formula della sinistra basterebbe rincorrere il contrario di quanto ha fatto, o cercato di fare, il PD, nelle sue varie sigle, a partire dagli anni ’80. Sostanzialmente, con la scelta della truffaldina terza via, in cerca del mitico passaggio a nord-ovest tra socialismo e capitalismo, pensando di arrivare alla soluzione ottimale: governare il capitalismo da sinistra e rendere tutti felici e contenti. L’abolizione, dunque, del conflitto sociale, e tutte le energie volte al benessere collettivo, come non esserci arrivati prima ? Ci avrebbe poi pensato la realtà a dimostrare quanto fosse illusoria questa teoria e quali trappole nascondesse
Lo spirito capitalista non ha mai fatto sconti a nessuno e, visto che ogni diritto democratico era stato conquistato da dure lotte e non da virtuose concessioni, in assenza di contrapposizione si sta riprendendo tutto, come il panorama odierno insegna. Senza voler ridurre tutto alla spiegazione semplice di problemi ultracomplessi, ci sono tuttavia alcuni fatti emblematici su cui riflettere, a proposito della sinistra che fa scelte di destra, in cerca dell’impossibile sintesi.
Aveva cominciato Bill Clinton, nel 1999, con l’abrogazione del Glass-Seagall Act, la legge introdotta nel 1933 da Franklin Delano Roosevelt, dopo la crisi del 1929. Il suo dispositivo sanciva la separazione tra le banche d’affari e quelle di deposito, con lo scopo di arginare gli investimenti speculativi e la loro pericolosità. In Italia ci aveva pensato, già qualche anno prima, Mario Draghi, abolendo una legge bancaria del 1936, ma, ovviamente, l’impatto della decisione statunitense cambiò la situazione mondiale. Da allora è partito l’impazzimento planetario, con transazioni istantanee, mutui cancerosi e derivati tossici, i cui effetti distruttivi dureranno per anni.
Di fatto, l’economia, mentre taglieggiava la politica, si genufletteva alla finanza, come lucidamente analizzato da Luciano Gallino (Finanzcapitalismo, Einaudi). Invece di preoccuparsi del futuro dominio culturale e politico degli Imam, come suggerito da Michel Houellebeqc (Sottomissione, Bompiani), il mondo occidentale dovrebbe rimettere a posto il califfato dell’Iban, che non taglia le teste, ma quanto a stragi non è da meno. E il primo passo non può che essere il ripristino di quella salutare separazione tra banche normali e quelle speculative. Servirà anche a ritrovare il senso della politica nel definire scelte e soluzioni della vita comune, invece che lasciarle all’oscena religione del mercato: ne sera pas la loi di marché qui fera ma liberté (Casa del vento. La loi du marché).
Un altro profeta della terza via è stato Toni Blair, sostenitore e complice di George W. Bush nell’attacco all’Iraq, del 2003. L’ex premier inglese, dopo aver mentito ai suoi elettori e al mondo intero sulle inesistenti armi di distruzione di massa, per giustificare quel criminale intervento, qualche giorno fa ha chiesto scusa, dicendo che quella guerra era stato un errore e che da lì, probabilmente, era partito il fenomeno Isis (o Daesh). Piu di un milione di morti sistemati con un “sorry”. Niente male per uno che Renzi e compagnia briscola continuano a considerare un padre nobile. Era curioso, qualche tempo fa, sentire Nardella, l’attuale sindaco di Firenze, affermare che il peggiore comportamento, per un politico, sia mentire ai propri elettori. Solo che parlava di Marino, bruciato sulla pira degli scontrini, mentre le menzogne omicide di Blair continuano a brillare nel firmamento del Partito Democratico, che a quell’invasione era contrario.

Tornando a casa nostra, il sentiero del centro sinistra, tra Quercia, Ulivo e arbusti vari, è comunque lastricato di scelte univoche al servizio dello sviluppismo predatorio: grandi opere, inceneritori e privatizzazione di tutto quello che si muove. Basta ricordare le famose lenzuolate liberiste di Bersani, come se la gestione pubblica fosse opera del demonio. O riflettere sul ricorso a ogni appiglio o feritoia del quadro legislativo per svicolare dal referendum sull’acqua del 2011, il cui risultato impediva (impedirebbe…), tout court, la gestione privata e il ricavo di profitto dal servizio idrico.
Bisogna fare il contrario, appunto, a partire dal mondo del lavoro, intortato dal Jobs act (parole straniere, fregature italiane): com’è possibile che esistano una quarantina di contratti precari ? O che sia accettabile il demenziale pagamento attraverso voucher (o buoni lavoro)?
I contratti, secondo un’elementare logica, dovrebbero essere una manciata: apprendistato, part-time, contratti a termine o a tempo indeterminato, eventuale contratto di reinserimento. Fine dei discorsi e delle speculazioni. E, naturalmente, ripristino dell’articolo 18, altrimenti, con la libertà di licenziare in cambio di qualche mese di stipendio, il posto fisso non esisterà più. Uno degli argomenti preferiti dai sostenitori del Jobs act è che, col contratto a tutele crescenti (ossimoro delizioso, visto che può interrompersi in qualsiasi momento) è aumentata a dismisura la concessione di mutui. Sarà istruttivo vedere cosa succederà quando, incassati i relativi incentivi, cominceranno i licenziamenti e quei lavoratori si troveranno a spasso e col mutuo da pagare. Qualcuno, là in alto, dovrà cominciare a correre, nella savana delle balle.
Naturalmente, la riconquista di diritti non sarà indolore e potrà essere ottenuta solo con un sano conflitto sociale, che sappia unire tutto il mondo del lavoro, oggi tanto frammentato da rendere l’impresa estremamente ardua. La prima mossa che si impone è la conquista del reddito di cittadinanza, condizione ineludibile per liberare le persone dal ricatto della disoccupazione, addirittura generazionale, e riaprire il percorso a una più equa distribuzione della ricchezza, senza lasciare indietro nessuno.
Un altro campo da difendere a ogni costo è quello della nostra costituzione, attaccata con riforme cervellotiche e pericolose, che disegnerebbero un potere tutto spostato sul governo, con i contrappesi democratici messi all’angolo e resi ininfluenti. Vogliamo rimetterci al servizio dell’uomo solo al comando? Il solo concetto dovrebbe offendere chi ha sempre difeso la partecipazione dal basso, la responsabilizzazione collettiva e l’apertura mentale. Invece questa solitudine competitiva, introiettata purtroppo da molti e vista come un’energia vitale, sta distruggendo la socialità, e trasformando la mutualità in debolezza: bisogna essere soli e forti, è il messaggio, inseguendo una modernità taroccata che ci rimanda implacabilmente all’800.
Infine, resta l’obiettivo della riconversione ecologica, visto che di pianeta ce n’è uno solo e andrebbe difeso, a meno di non volerci estinguere in una nuvola di polveri sottili o travolti da onde di plastica direttamente dall’oceano. L’unico modo è uscire dalla logica del profitto a tutti i costi e del consumo compulsivo: dobbiamo fare pace con la natura, ovviamente senza disfarci dei vantaggi che il vero progresso e le conoscenze scientifiche ci garantiscono. E questo sarà possibile solo se ridurremo le colossali diseguaglianze che ancora imperano, e se la giustizia sociale consentirà il raggiungimento comune di un minimo benessere, svincolato da umilianti programmi di assistenza.
La formula della sinistra, come qualunque altra, non può risolvere tutte le incognite, ma imboccare il metodo giusto sarebbe già una piccola garanzia.
Perché non ragionare, per fare un singolo e concreto esempio, che, da valsusino incorreggibile, mi sta molto a cuore, sulla logica stringente di queste autorevoli citazioni?

Altro luogo comune: per creare posti di lavoro è necessario inventarsi l’ennesima grande opera. Le grandi opere sono state utili, per carità, talvolta anche solo per il loro valore simbolico. L’Autostrada del Sole è il simbolo della ripartenza dell’Italia. L’Alta velocità Torino-Salerno, in attesa di raggiungere Bari, è una metropolitana nazionale che sta cambiando le abitudini del Paese. Ma le grandi opere non sono né un bene né un male in sé. Dipende da dove sono, quanto costano, quanto servono. Lo so che esprimere un concetto del genere è banale. Ma forse dobbiamo ritornare alla logica ferrea delle cose semplici. Non esiste il partito delle grandi opere. Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male. […] Ma un giudizio netto e fermo su ogni forma di violenza non cancella il giudizio politico sulla TAV, che non è dannosa. Rischia semplicemente di essere un investimento fuori scala e fuori tempo.
Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili.”

Queste sagge parole sono contenute nel libro Oltre la rottamazione (Strade blu, Mondadori), uscito a maggio 2013. L’autore è Matteo Renzi, che, però, da presidente del consiglio, non ha mandato alcun segnale per fermare l’inutile scempio della val di Susa, somigliando così a quel personaggio di Altan che dissentiva spesso dalle sue convinzioni. Ecco, anche un filo di coerenza, senza esagerare, sarebbe utile alla formula, anche se, in questo caso, il termine sinistra appare irrimediabilmente clandestino. Fa niente, gli prenderemo le impronte.

Paolo Sollier
EX CALCIATORE, ALLENATORE E SCRITTTORE

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