I risultati delle elezioni spagnole
hanno spinto, consueta prassi del nostro provincialismo, a leggere i
dati con lente italica. Anzi, “Italicum”, visto che la ministra Boschi e
il presidente Renzi si sono subito premurati di certificare come quello
spoglio renda «chiaro quanto sia utile e giusta» la loro legge elettorale da benedire.
Insomma, mica tanto: immaginando che in Spagna ci fosse lo stesso
sistema che dal luglio 2016 ci sarà (meglio, dovrebbe esserci) in
Italia, e supponendo che gli elettori antisistema di Podemos e
Ciudadanos potrebbero non voler partecipare alla scelta fra i primi due
partiti, Pp e Psoe, accusati di aver portato il Paese al punto in cui è,
meno di un terzo dell’elettorato reale deciderebbe il 55% dei seggi,
assicurando insieme la maggioranza per il governo e la non
rappresentatività del parlamento. Lo stesso dibattito politico spagnolo,
per inciso, va in tutt’altro verso dato che i maggiori partiti, ad
eccezione dei popolari, chiedono una riforma del sistema in senso
proporzionale, superando le circoscrizioni che favoriscono le forze
maggiori e quelle con particolari radicamenti in determinati territori e
collegando la ripartizione dei seggi in maniera più consona alle
percentuali nazionali.
Ma queste sono speculazioni oziose, perché fra i Pirenei e Gibilterra
il sistema è proporzionale e perché sempre più spesso il maggioritario
si dimostra un inganno: promette di assicurare la governabilità per la
maggioranza, nei fatti rende maggioritaria una minoranza. È successo in Inghilterra, dove i due terzi degli elettori avevano votato contro o comunque non per Cameron, è accaduto in Italia,
dove più della metà degli elettori aveva scelto una coalizione o un
partito oggi rappresentati da una minoranza parlamentare, potrebbe
accadere ancora, visto che i vari sistemi elettorali a cui si guarda
puntano a normalizzare il sistema non garantendo agibilità politica alla
volontà dei “più”, ma premiando i migliori “meno”.
A questo punto, l’unico modo per il ripristino della
rappresentatività sarebbe quello di adottare una legge elettorale che
preveda il riparto dei seggi in maniera proporzionale, come avviene in
Spagna o in Germania: si vota, si eleggono dei rappresentanti in forza
dei voti reali, si decidono i governi in base alle rappresentanze
effettive. Al di là dei tecnicismi su eventuali correzioni e
sbarramenti, il dato è che non si può rendere ope legis
maggioranza chi non lo è nei numeri. Se il sistema non è più bipolare ma
si hanno tre o quattro forze che si contendono il consenso con
ragionevoli ambizioni e possibilità di risultato, non ha senso imporne
per decreto la semplificazione. Perché le democrazie sono sì chiamate a
governare, però allo stesso tempo hanno il compito di rappresentare nel
Palazzo il Paese. E se un partito o una parte può esprimere il governo,
fare le leggi, approvare le riforme avendo contro di sé, o comunque non
dalla sua parte, il voto espresso da ben più della metà degli elettori,
che rappresentanza assicura? Di là la sfiducia, il distacco,
l’astensione.
Visto che ci siamo, se proprio proporzionale dev’essere e
diversamente dai modelli iberico e tedesco, che sia pure con le
preferenze, singole, non doppie o triple o altri multipli. Sempre per
quella questione della rappresentanza di cui dicevo. So che questa
posizione a sinistra non è molto accettata, pure fra la forza politica a
cui sono iscritto. Però è innegabile che la democrazia debba essere
facoltà di scelta; quindi, che si scelga. Se si crede che con le
preferenze alcuni meccanismi non virtuosi possano radicarsi nella
politica, allora si compiono due passaggi logicamente un po’ forzati:
primo, è da vent’anni che non si esprimono preferenze per l’elezione dei
parlamentari e guardate cosa abbiamo eletto; secondo, dire che qualcuno
potrebbe stimolare con metodi non ortodossi l’espressione del consenso,
vuol dire che c’è qualcun altro a cui dovrebbe essere tolta la facoltà
di voto.
Prevengo un’obiezione: “ma come, tu che critichi le larghe intese,
sei a favore del proporzionale che condannerà a intese larghe per forza
di cose? Ti contraddici”. Potrei risolverla giocando con le parole di
Walt Whitman: «Mi contraddico, forse? / Ebbene mi contraddico / (sono
vasto, contengo moltitudini)». Ma la questione è più semplice.
Non c’è contraddizione, perché non è detto che l’alleanza debba
essere con Verdini o Alfano; il fatto che ci siano loro e non altri è
una scelta e potrebbe essere diversa. Infine, concesso, fate pure le
larghe intese, se è quello che volete fare: ma almeno, che siano senza
numeri parlamentari drogati da premi e quorum e con eletti in ragione dei voti presi da loro, “personalmente di persona”, per dirla alla Catarella di Camilleri.
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