lunedì 7 dicembre 2015

La matematica è un pensiero di Alain Badiou


Matematica1 1160x480Quest’enunciato non è di per sé evidente. Che la matematica sia un pensiero, è stato più volte sostenuto, innanzitutto da Platone, che però avanza in proposito numerose riserve, e più volte negato, in particolare da Wittgenstein. Si tratta di un enunciato indubbiamente sottratto alla dimostrazione. Forse è il punto di impasse della stessa matematizzazione, e dunque il reale della matematica. Ma il reale, più che essere conosciuto, viene dichiarato. L’oscurità di quest’enunciato risulta da quanto sembra imporsi come una concezione intenzionale del pensiero: in questa concezione, ogni pensiero è pensiero d’un oggetto, che ne determina l’essenza e lo stile. La matematica può allora essere considerata un pensiero proprio nella misura in cui esistono degli oggetti matematici, e l’indagine filosofica concerne la natura e l’origine di questi oggetti. Ora, è chiaro che una tale supposizione è problematica: in quale senso le idealità matematiche possono essere dichiarate esistenti? Ed esistenti nella forma generica dell’oggetto? Tale difficoltà è presa in esame nel libro M della Metafisica di Aristotele, a proposito di ciò che egli chiama le matematikà, le cose matematiche, o correlati supposti della scienza matematica. Se si abborda la questione della matematica come pensiero che concerne l’oggetto o l’oggettività, la soluzione di Aristotele è mio avviso definitiva.

Tale soluzione si inscrive tra due limiti.
1. Da una parte si deve escludere di poter accordare l’essere o l’esistenza agli oggetti matematici, intendendolo come un essere separato, che costituirebbe un campo preesistente ed autonomo della donazione oggettiva. La tesi qui criticata è attribuita a Platone; e di fatto, i reali discendenti di Aristotele, ovvero i moderni empiristi anglo-sassoni, chiamano «platonismo» la supposizione di un’esistenza soprasensibile e separata delle idealità matematiche, e fanno valere, contro una tale supposizione, che gli oggetti matematici sono costruiti. Aristotele dirà allora: le matematikà non sono affatto degli esseri separati. Se così fosse, dovremmo averne un’intuizione intelligibile originaria, ma nulla può attestarla. Non possono dunque servire ad identificare la matematica come pensiero singolare. Diciamo che, per Aristotele, nessuna separazione ontologica può garantire la separazione epistemologica; e questo in particolare se si tratta dello scarto tra la fisica, che si interessa al sensibile, e la matematica, poiché: «è evidente che anche gli enti matematici non potranno esistere separati dai sensibili» (M, 2, 10).
2. Simmetricamente, è altrettanto impossibile che gli oggetti matematici siano immanenti al sensibile. Questo punto Aristotele lo tratta nel libro B. L’argomento principale è che l’immanenza di idealità indivisibili dai corpi sensibili porterebbe con sé l’indivisibilità di questi corpi; o che l’immanenza delle idealità immobili porterebbe con sé l’immobilità dei corpi sensibili. Cosa che ripugna all’esperienza. Il fondo incontestabile di questa tesi è che ogni matematicità immanente o infetta l’oggetto matematico di predicati sensibili che gli sono manifestamente estranei, come la temporalità e la corruttibilità, o infetta i corpi sensibili con predicati intelligibili, che sono a loro volta estranei a questi, come l’eternità e la trasparenza concettuale. Se lo si mette in relazione con il campo dell’esperienza, l’oggetto matematico non è né separabile né inseparabile. Non è né trascendente né immanente. La verità è che, per essere precisi, non ha essere. O, più precisamente: in nessun luogo l’oggetto matematico esiste in atto. Come dirà Aristotele, o le matematikà non esistono affatto, oppure in ogni caso non esistono in maniera assoluta. Diciamo che l’oggettività matematica è uno pseudo-essere, sospeso tra l’atto puro separato, il cui nome supremo è Dio, e le sostanze sensibili, o cose realmente esistenti. La matematica non è né fisica né metafisica. Ma allora, che cos’è? In realtà è un’attivazione finzionale, compiuta là dove l’esistenza in atto viene a mancare. L’oggettività matematica esiste in potenza nel sensibile, e vi risiede nella forma di una latenza definitiva del suo atto.
Così, è vero che un uomo detiene in potenza l’uno aritmetico, o che un corpo detiene in potenza tale o tal’altra forma pura. L’uno aritmetico o la sfera geometrica non esistono a parte, né esistono come tali in un uomo o in un pianeta. Il pensiero può però attivare l’uno o la sfera a partire dall’esperienza di un organismo o di un oggetto. Cosa vuol dire attivare? Vuol dire esattamente: trattare come esistente in atto ciò che non esiste che in potenza. Trattare come essere uno pseudo-essere. Trattare come separato ciò non lo è. Questa è la definizione di Aristotele: coloro che conoscono e praticano l’aritmetica e la geometria giungono, a suo avviso, a risultati eccellenti «ponendo come separato ciò che non lo è». La conseguenza di tale finzione è che la norma delle matematiche non può essere il vero, poiché il vero non si lascia approssimare da una finzione. La norma delle matematiche è il bello. Poiché il matematico con le sue finzioni separa innanzitutto relazioni d’ordine, simmetrie, entità concettuali semplici e trasparenti. Ora, osserva Aristotele, «le forme più alte del bello sono l’ordine, la simmetria, il definito». Ne risulta che «il bello è l’oggetto principale delle dimostrazioni matematiche». Si può allora modernizzare la conclusione definitiva di Aristotele. Per far questo, basta domandarsi: cos’è che ha potenza di attivare «l’essere in potenza», o: cos’è che ha potere di separare ciò che non è separato? È evidente che per noi moderni si tratta del linguaggio. Come osserva Mallarmé in una famosa citazione, se dico «un fiore» lo separo da ogni bouquet. Se dico «sia una sfera», la separo da ogni oggetto sferico. Su questo punto, matema e poema sono indiscernibili.
Si può allora ricapitolare la dottrina 1. La matematica è il quasi-pensiero di uno pseudo-essere. 2. Questo pseudo-essere è distribuito in quasi-oggetti (per esempio i numeri e le figure, ma anche le strutture algebriche, topologiche, etc.). 3. Questi quasi-oggetti non sono dotati di alcuna specie di esistenza in atto, non essendo né trascendenti né immanenti al sensibile. 4. Sono in effetti delle creazioni linguistiche estratte mediante l’uso di finzioni dagli strati latenti, o inattivabili, o non separabili, degli oggetti reali. 5. La norma che regge la finzione separatrice è la bellezza trasparente delle relazioni semplici che essa costruisce. 6. La matematica è dunque alla fin fine un’estetica rigorosa. Essa non ci dice niente sull’essere-reale, ma a partire da esso produce la finzione di una consistenza intelligibile la cui regola è esplicita. E infine: 7. Considerata come pensiero, la matematica non è pensiero del proprio pensiero. Infatti, installata nella sua stessa finzione, non può che credervi. Si tratta di un punto su cui Lacan insisteva giustamente: il matematico è innanzitutto colui che crede in modo irremovibile alle matematiche. La filosofia spontanea del matematico è il platonismo, poiché essendo il suo atto quello di separare ciò che non è separato, egli ottiene per mezzo di questa attivazione finzionale lo spettacolo ideale del suo risultato. Per lui tutto accade come se gli oggetti matematici esistessero in atto. Più profondamente: il pensiero matematico, come ogni finzione, è un atto. Non può essere altro, dato che non vi è nulla da contemplare. Come dice Aristotele in una formula piuttosto concisa, nel caso delle matematiche, e noesis energheià l’intelletto è atto.
Nelle matematiche, l’atto che manca agli oggetti ritorna dalla parte del soggetto. Preso com’è nell’atto di attivazione finzionale che costituisce il proprio pensiero, il matematico ne misconosce la struttura. Questa è anche la ragione per la quale la dimensione estetica è occultata da una pretesa cognitiva. Il bello è la vera causa dell’attività matematica, ma nel discorso matematico tale causa è una causa assente. Non è reperibile se non attraverso i suoi effetti: «Se le scienze matematiche non nominano il bello ciò non significa che esse non se ne occupino, poiché esse ne mostrano gli effetti e i rapporti». È il filosofo che deve dare un nome alla causa reale dell’atto matematico, e dunque pensare il pensiero matematico secondo ciò a cui esso è veramente destinato. Questa concezione è a mio avviso ancor oggi dominante e si manifesta in quattro sintomi principali: a) La critica di ciò che è supposto esistere in ciò che il termine «platonismo» indica è pressappoco consensuale in tutte le concezioni contemporanee della matematica. Analogamente in esse si possono trovare le ragioni per le quali i matematici sono dei platonici spontanei, o «ingenui». b) Il carattere costruito e linguistico delle entità o strutture matematiche è quasi universalmente ammesso. c) Anche se l’estetica non è sempre convocata in quanto tale, molti dei temi oggi consueti sono ad essa omogenei. Ad esempio, l’eliminazione della categoria di verità; la tendenza al relativismo (vi sarebbero più matematiche differenti, ed in definitiva sarebbe questione di gusto); ed infine l’approccio logico delle architetture matematiche, che le tratta come grandi forme il cui protocollo di costruzione sarebbe decisionale, ed il cui referente, o essere proprio, ovvero la determinazione attraverso il pensiero di ciò che è pensato, rimane non assegnabile. Il che è conforme all’orientamento di Aristotele, il quale riconosce espressamente alle matematiche una superiorità formale, ciò che egli chiama un’anteriorità logica, ma questo per meglio negar loro l’anteriorità sostanziale, o ontologica. Poiché, dice Aristotele: «l’anteriorità sostanziale è la divisione degli esseri che, separati, prendono il sopravvento grazie alla facoltà dell’esistenza separata». La separazione puramente fittizia dell’oggetto matematico è dunque, in dignità ontologica, inferiore alla separazione reale delle cose. Inversamente, la trasparenza logica delle matematiche è esteticamente superiore alla sostanzialità separata delle cose. Ciò che è integralmente riprodotto oggi nella distinzione canonica, essa stessa intra-linguistica, tra scienze formali e scienze empiriche. d) L’incontestabile supremazia odierna della visione costruttivista, o intuizionista, sulla visione formalista e unificata del fondamento, così come sull’evidenza della logica classica. L’estetica del grande edificio iniziato da Bourbaki era un’estetica globale che si potrebbe chiamare arborescente. Sul solido tronco della logica e di una teoria omogenea degli insiemi, nascevano i rami simmetrici dell’algebra e della topologia, che si re-incrociavano più in alto all’altezza delle strutture concrete più «fini», e componevano la disposizione ramificata del fogliame. Oggi si parte piuttosto da concrezioni già di per sé complesse, e si tratta di piegarle e dispiegarle secondo la loro singolarità, o di trovare il principio della loro decostruzione-ricostruzione, senza preoccuparsi di un piano d’insieme o di un fondamento deciso. L’assiomatica è lasciata cadere a favore di un’apprensione mobile delle complessità e delle correlazioni sorprendenti. Il rizoma di Deleuze prende il posto dell’albero di Cartesio. L’eterogeneo dà da pensare più che l’omogeneo. Una logica intuizionista o modale è più appropriata a quest’orientamento descrittivo che non la rigidezza della logica classica, in cui vale il principio del terzo escluso. La questione è dunque: considerando la matematica come pensiero, siamo votati ad una versione linguistica dell’aristotelismo? Non ne sono affatto convinto. L’ingiunzione della matematica contemporanea mi sembra piuttosto essere quella di riprendere il platonismo, ed innanzitutto rendere noto quale fosse il suo intento reale, intento interamente occultato dall’esegesi di Aristotele. Nondimeno, al punto in cui ci troviamo non prenderò direttamente la strada che potremo chiamare la rettificazione platonica. La questione che vorrei cominciare a prendere in esame è limitata. Poiché in definitiva, se si sostiene che la matematica è pensiero, si tratta di iniziare ad esaminare il pensiero di questo pensiero, ed è pertinente occuparsi dei momenti in cui la matematica sembra convocata a pensarsi da sé, a dire ciò che essa è. Questi momenti, si sa, ricevono il nome convenzionale di «crisi», o «crisi dei fondamenti». È il caso della crisi degli irrazionali nella matematica detta pitagorica, o della crisi legata ai paradossi della teoria degli insiemi alla fine del secolo scorso, poi dei diversi teoremi di limitazione dei formalismi scoperti negli anni trenta. C’è stata anche una crisi a proposito dell’utilizzo anarchico dell’infinitamente piccolo agli inizi XVIII° secolo, e un’altra relativa alla geometria, con la scoperta del carattere indecidibile del postulato di Euclide sulle parallele. Ci si è interrogati sul carattere di queste crisi, se fossero crisi interne alla matematica, o invece si trattasse di crisi strettamente filosofiche, che importavano nel dibattito tra matematici opzioni di pensiero legate all’esistenza di ciò che Louis Althusser chiamava la «filosofia spontanea degli scienziati». Althusser sosteneva che nelle scienze non c’era nessun tipo di crisi. C’erano certo delle discontinuità, dei bruschi rimaneggiamenti qualitativi. Questi momenti testimoniavano progresso e creazione, e non vicoli ciechi o crisi. Ma proprio in occasione di queste rotture avevano ineluttabilmente luogo delle lotte tra tendenze filosofiche, e questo anche negli ambiti scientifici in questione, lotte il cui obiettivo era in realtà risistemare il modo secondo cui le correnti filosofiche si servono delle scienze per i loro fini, che in ultima istanza sono fini politici. Partiremo qui dalla constatazione seguente: ci sono dei momenti singolari in cui la matematica sembra dover pensare il proprio pensiero, e questo a partire da finalità interamente matematiche. In cosa consiste questa operazione? Tutto si gioca in effetti in alcuni enunciati con cui il pensiero matematico si scontra, come se essi fossero, nel campo matematico, il segno dell’impossibile. Questi enunciati sono chiaramente di tre tipi: – O si tratta di una contraddizione formale, dedotta da un insieme di presupposti la cui evidenza e coesione sembravano nondimeno indubbie. Ci si scontra qui con il paradosso. È il caso della teoria formale delle classi, nello stile di Frege, teoria che inciampa sul paradosso di Russell. In questo caso l’evidenza qui obbligata ad incontrare il proprio impossibile è quella che assegna a una proprietà qualunque l’insieme dei termini che possiedono questa proprietà. Nulla di più chiaro di tale teoria dell’estensione di un concetto; e nondimeno, come una prova reale, giunge il caso che fa affiorare in quest’evidenza un’inconsistenza intrinseca. – Il secondo caso è quello in cui una teoria condivisa è diagonalizzata in un punto da un’eccezione, o da un eccesso, che obbliga a considerare questa teoria, prima creduta assolutamente generale, una teoria regionale, o decisamente particolare, o ristretta. Questo accade nella dimostrazione dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato, se si intende per misura un numero irrazionale. Per i pitagorici la reciprocità dell’essere e del numero era assicurata da un’evidenza, l’assegnazione di una coppia di numeri interi ad ogni rapporto. Ma quest’evidenza è rovinata dimostrativamente da un rapporto geometrico in eccesso su ogni coppia di numeri interi che si pretendeva assegnargli come misura. Bisogna dunque ripensare il pensiero in cui si dispiegava la numericità essenziale dell’essere, e dunque ripensare il pensiero matematico in quanto tale. – Infine, il terzo caso è quello in cui un enunciato di cui non ci si è accorti è isolato come condizione di risultati tenuti per certi, mentre, preso di per sé, tale enunciato sembra non sembra poter essere supportato dalle norme condivise riguardanti il pensiero matematico. È il caso dell’assioma di scelta. I grandi analisti francesi della fine del secolo scorso ne facevano implicitamente uso nelle loro dimostrazioni; ma l’esplicitazione formale di questo assioma parve loro eccedere assolutamente ciò che essi potevano accettare in quanto manipolazione dell’infinito; e soprattutto, vi scorsero una trasgressione illegittima della visione costruttivista che essi si facevano del pensiero matematico. L’assioma di scelta consiste infatti nell’ammettere un insieme infinito assolutamente indeterminato, la cui esistenza è affermata, sebbene esso sia linguisticamente indefinibile e, proceduralmente, non sia possibile costruirlo. Si può dunque sostenere che il pensiero matematico si riporta a sé a partire dalla forzatura di una ostacolo reale, o a partire dall’insorgenza necessaria, nel proprio campo, di un punto d’impossibile. Questo ostacolo è dell’ordine del paradosso, che conduce all’inconsistenza; della diagonale, che conduce all’eccesso; o dell’individuazione di un enunciato latente, che conduce all’indefinito e al non costruibile. Qual è allora la natura di questa torsione su di sé della matematica, se la si considera a partire da ciò che il suo ostacolo interno comanda? Ciò che affiora alla superficie concerne ciò che, dell’ordine del pensiero matematico, riguarda l’atto, o la decisione; e nello stesso movimento, è necessario prendere posizione, poiché si è, se così posso dire, di fronte all’atto, sulla norma della decisione che esso compie. Ora, ad ogni modo, in questa decisione obbligatoria, è l’essere che è in questione; o il modo secondo il quale la matematica assume per suo conto l’enunciato di Parmenide: «lo stesso è allo stesso tempo pensare e essere». Riprendiamo i nostri esempi. Per i Greci, a partire dall’ingiunzione rappresentata dall’incommensurabile reale, il pensiero è costretto ad optare per un altro nodo tra essere e numero, tra geometrico ed aritmetico, decisione il cui nome proprio è Eudosso. Dinanzi al paradosso di Russell, è necessario ridurre i poteri della lingua sulla determinazione del molteplice, decisione il cui nome proprio è Zermelo. E quanto all’assioma di scelta, ciò a cui esso chiama il pensiero è una decisione radicale sull’infinito attuale indeterminato, decisione che del resto divide da allora i matematici. In ogni caso, si tratta di decidere in quale senso, e a partire dalla disposizione immanente di quali limiti, il pensiero matematico è coestensivo all’essere che ne sostiene la consistenza.
Diremo dunque che nel momento in cui la matematica si imbatte nel paradosso e nell’inconsistenza, nella diagonale e nell’eccesso, o ancora in una condizione indefinita, essa giunge a pensare ciò che nel suo pensiero è dell’ordine di una decisione ontologica. Si tratta esattamente di un atto che vincola durevolmente il reale dell’essere le cui connessioni e configurazioni essa si farà carico di determinare. Ma, confrontata così alla propria dimensione decisionale, la matematica non può che essere in preda alla questione della propria norma, ed in particolare: della norma delle asserzioni di esistenza che il pensiero è in grado di sostenere. Bisogna far venire all’esistenza dei numeri il cui principio non è più la composizione di unità? Bisogna ammettere che esistano insiemi infiniti attuali non numerabili? A quali condizioni si può garantire che un concetto ben formato ammette un’estensione identificabile? Come si legano l’asserzione di esistenza e il protocollo di costruzione? Si può ammettere che esista una configurazione intelligibile di cui sia impossibile esibire un solo caso? Tali questioni verranno decise secondo una norma immanente che non costituisce il pensiero, ma l’orienta. Chiameremo orientamento nel pensiero ciò che in questo pensiero regola le asserzioni di esistenza. Ovvero ciò che autorizza formalmente l’inscrizione di un quantificatore esistenziale all’inizio di una formula che fissa delle proprietà che si suppongono date in una regione d’essere. O ciò che, ontologicamente, fissa l’universo della presentazione pura del pensabile. Un orientamento nel pensiero si estende non solo alle asserzioni fondatrici, o agli assiomi, ma anche ai protocolli dimostrativi, dato che il loro obiettivo è esistenziale. Per esempio, si ammetterà che si possa affermare l’esistenza solo di ciò per cui l’ipotesi di un’inesistenza porta ad un’impasse logica? Il ragionamento per l’assurdo funziona in questo modo. Ammetterlo oppure no riguarda, esemplarmente, l’orientamento del pensiero, classico se lo si ammette, intuizionista se non lo si ammette. La decisione concerne allora la via di accesso, che il pensiero determina in sé, a ciò che esso stesso dichiara esistere. Il cammino verso l’esistenza orienta il procedere discorsivo. A mio avviso è erroneo dire che due orientamenti prescrivono due matematiche diverse, ovvero due pensieri diversi. Gli orientamenti si affrontano all’interno di un pensiero unico. Nessun matematico classico ha mai messo in dubbio la matematicità riconoscibile della matematica intuizionista. In ogni caso, si tratta dell’identità necessaria tra pensiero e essere. Ma l’esistenza, che è contemporaneamente ciò che il pensiero dichiara e ciò di cui l’essere garantisce la consistenza, è considerata secondo orientamenti diversi. Si può infatti chiamare esistenza ciò per cui decisione ed incontro, atto e scoperta sono indiscernibili. Gli orientamenti nel pensiero concernono proprio le condizioni di questa indiscernibilità. Si dirà dunque che vi sono dei momenti in cui la matematica, frangendosi su di un enunciato che attesta in un punto la venuta di un impossibile, volge lo sguardo alle decisioni che l’orientano. Essa coglie allora il proprio pensiero, non più a partire dalla propria unità dimostrativa, ma secondo la diversità immanente degli orientamenti nel pensiero. La matematica pensa la propria unità come interiormente esposta alla molteplicità degli orientamenti nel pensiero. Una «crisi» della matematica è un momento in cui essa è costretta a pensare il proprio pensiero come molteplicità immanente della propria unità. È in questo punto, credo, e solo in questo punto, che la matematica, ovvero l’ontologia, funziona come condizione della filosofia. Diciamo questo: la matematica si rapporta al proprio pensiero secondo il proprio orientamento. È la filosofia che ha il compito di continuare questo gesto attraverso una teoria generale degli orientamenti nel pensiero. Che ogni pensiero possa pensare la propria unità solo come esposizione alla molteplicità che l’orienta, è ciò di cui la matematica non può rendere conto, ma è anche ciò che essa manifesta esemplarmente. Il rapporto completo del pensiero matematico con il proprio pensiero, suppone che la filosofia, sotto condizione della matematica, tratti la questione: che cos’è un orientamento nel pensiero? E ancor più: che cosa fa sì che l’identità dell’essere e del pensiero si effettui secondo una molteplicità immanente di orientamenti? Perché bisogna sempre decidere ciò che esiste? Poiché la questione è che l’esistenza non è affatto la donazione primigenia. L’esistenza è precisamente l’essere stesso, in quanto il pensiero lo decide. E questa decisione orienta essenzialmente il pensiero. Bisognerebbe dunque disporre di una teoria degli orientamenti nel pensiero, come territorio reale di ciò che il pensiero della matematica, in quanto pensiero, può attivare. In L’Essere e l’Evento ho proposto un trattamento sommario di questo punto, e non posso ritornare qui sul basamento tecnico che lo sorregge. Vi si possono rintracciare tre orientamenti maggiori, identificabili simultaneamente nei momenti di crisi della matematica, e nei rimaneggiamenti concettuali della filosofia. Questi orientamenti sono l’orientamento costruttivista, l’orientamento trascendente e l’orientamento generico. Il primo norma l’esistenza attraverso delle costruzioni esplicite e subordina in definitiva il giudizio di esistenza a dei protocolli linguistici finiti e controllabili. Diciamo che ogni esistenza si sostiene su di un algoritmo, che permette effettivamente di esporre un caso di ciò la cui esistenza è in questione. Il secondo, il trascendente, norma l’esistenza attraverso l’ammissione di ciò che si può chiamare una sovra-esistenza, o un punto di arresto gerarchico che dispone, al di qua di sé stesso, l’universo di tutto ciò che esiste. Diciamo che questa volta l’intera esistenza si inscrive in una totalità che gli assegna un posto. Il terzo pone che l’esistenza non ha altra norma se non la consistenza discorsiva. Esso privilegia le zone indefinite, i molteplici sottratti a ogni collezione predicativa, i punti di eccesso e le donazioni sottrattive. Diciamo che ogni esistenza è presa in un’erranza che si situa diagonalmente rispetto ai montaggi che sono supposti sorprenderla. È abbastanza chiaro che questi tre orientamenti sono, metaforicamente, di natura politica. Sostenere che l’esistenza deve mostrarsi secondo un algoritmo costruttivo, o che essa è predisposta in un Tutto, o che essa è una singolarità diagonale, orienta il pensiero secondo un’accezione di ciò che è ogni volta particolare, «ciò che è» essendo qui pensato a partire dalla decisione di esistenza. O ciò che è, è ciò di cui c’è un caso, o ciò che è è un posto in un Tutto; o ciò che è, è ciò che si sottrae a ciò che è. Si potrebbe dire: politica delle particolarità empiriche, politica della totalità trascendente, politica delle singolarità sottratte. Diciamo, per essere brevi: le democrazie parlamentari, Stalin, e, senza dubbio, ciò che si dichiara un po’ oscuramente oggi, una politica generica, una politica dell’esistenza come sottrazione allo Stato, o di ciò che esiste solamente in quanto non è calcolabile. È magnifico che questi tre orientamenti siano matematicamente leggibili, e questo anche nella sola teoria degli insiemi. La dottrina degli insiemi costruibili di Gödel fornisce una solida base per il primo, la teoria dei grandi cardinali per il secondo, la teoria degli insiemi generici per il terzo. Ma ben altri esempi più recenti ci mostrerebbero come ogni progresso matematico finisce per esporre, nell’unicità contingente del suo movimento, i tre orientamenti. Ogni movimento reale è immediatamente la presentazione, nel punto d’essere che convoca il pensiero, dei tre orientamenti. Ogni movimento reale confronta la triplicità formale delle decisioni di esistenza. Terremo presente a questo punto, che è di grande aiuto in tutte le situazioni concrete: nessuna seria querelle tra dispositivi di pensiero oppone tra loro interpretazioni di un’esistenza riconosciuta da tutti. È invece vero il contrario: è sull’esistenza stessa che l’accordo non si raggiunge, poiché è l’esistenza ciò che viene deciso. Ogni pensiero è polemica. Ma non si tratta affatto di un conflitto tra interpretazioni. Si tratta di un conflitto di giudizi di esistenza. Ecco perché nessun vero conflitto di pensiero ammette una soluzione; il consenso è il nemico del pensiero, perché pretende che si condivida l’esistenza. Ma l’esistenza è giustamente, al cuore del pensiero, ciò che non può essere condiviso. La matematica possiede questa virtù: non presentare alcuna interpretazione. Il reale non vi si mostra nella forma di interpretazioni disparate. Vi si dimostra come sprovvisto di senso. La conseguenza è che quando la matematica si volge al proprio pensiero, essa mette a nudo i conflitti di esistenza, e ci fa pensare che ogni coglimento dell’essere suppone, rispetto all’esistenza, una decisione che, senza garanzia né arbitraggio possibile, orienta decisivamente il pensiero. L’elogio delle «matematiche severe» da parte di Lautréamont è ben calibrato. Non sono tanto il formalismo, o il concatenamento dimostrativo, ad essere severi, ma la manifestazione di una massima di pensiero che si potrebbe formulare così: è quando decidi ciò che esiste che leghi il tuo pensiero all’essere. Ma allora ti trovi preso, inconsapevolmente, nell’imperativo di un orientamento.

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