Il refrain
“Euro sì, euro no”/L’errore dei “No euro critici verso il modo di
produzione capitalistico”/Tre notazioni per correggere la rotta/Il
limite dell’approccio monetario e geografico/Il “contingente” elude la
presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria//Oltre la
dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica/Qualche minimo
contenuto per affrontare il problema/Le scorciatoie non esistono
Il refrain “Euro sì, euro no”
Oramai
da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel
panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza
dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog,
perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì,
euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche
sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo
apportato molti contributi.
L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”
Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b)
che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire
una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per
iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano
equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e
l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e
come tali utilizzati solo in favore del capitale.
Non è tuttavia
sicuro, purtroppo, che un ritorno ad una valuta e ad una influenza
politica nazionale migliorerebbero le condizioni delle persone. A parte,
infatti, la difficoltà nel prevedere le interazioni che una uscita da
una moneta forte potrebbe comportare all’interno di un sistema economico
come quello capitalistico, ricordiamo che negli anni novanta del
Novecento, con la lira e senza la UE, furono effettuate da vari Governi
italiani – ed in genere nazionali – politiche economiche fortemente
avverse ai ceti deboli. Le cose dunque si svolgevano in modo non molto
dissimile dall’attuale, anche se gli effetti delle stesse si sentivano
meno per il diverso andamento economico generale. I “No euro critici
verso il modo di produzione capitalistico” potrebbero certo sostenere
che non si tratta di ritornare a quella situazione, bensì di creare una
uscita consapevole dall’Europa con riconquista democratica della
autonomia politica ed economica dell’Italia. Ciò invero sarebbe
certamente auspicabile, ma si tratta allora di un obiettivo molto più
ampio, che dovrebbe essere meglio argomentato nelle modalità
propositive.
Tre notazioni per correggere la rotta
Detto
questo, vorremmo però soprattutto far notare alcune cose ai sostenitori
della tesi per cui oggi l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe la
principale condizione necessaria – sebbene non sufficiente – per realizzare poi una progettualità anticapitalistica.
La prima è che la condizione, per definizione, è in generale ciò da cui in qualche modo dipende che una cosa sia o non sia. Ebbene: la progettualità anticapitalistica può essere svolta sia con che senza l’euro. Non occorre attendere l’uscita dalla UE per iniziare a pensare progettualmente.La seconda cosa è che di queste condizioni necessarie – o meglio: di questi primi passi utili per realizzare poi un cambiamento intermodale – ce ne sarebbero almeno una ventina, molte delle quali più importanti (ad esempio l’abolizione del precariato, la ricostituzione del welfare state, l’eliminazione della finanza, ecc.).La terza cosa è che l’uscita dall’euro e la progettualità anticapitalistica non sono direttamente collegate, come dimostrano sia il fatto che il capitale può avvantaggiarsi dalla uscita di alcuni paesi dall’euro, sia il fatto che molti critici dell’euro non sono affatto anticapitalisti.
La prima è che la condizione, per definizione, è in generale ciò da cui in qualche modo dipende che una cosa sia o non sia. Ebbene: la progettualità anticapitalistica può essere svolta sia con che senza l’euro. Non occorre attendere l’uscita dalla UE per iniziare a pensare progettualmente.La seconda cosa è che di queste condizioni necessarie – o meglio: di questi primi passi utili per realizzare poi un cambiamento intermodale – ce ne sarebbero almeno una ventina, molte delle quali più importanti (ad esempio l’abolizione del precariato, la ricostituzione del welfare state, l’eliminazione della finanza, ecc.).La terza cosa è che l’uscita dall’euro e la progettualità anticapitalistica non sono direttamente collegate, come dimostrano sia il fatto che il capitale può avvantaggiarsi dalla uscita di alcuni paesi dall’euro, sia il fatto che molti critici dell’euro non sono affatto anticapitalisti.
Il limite dell’approccio monetario e geografico
Affrontare
la progettualità anticapitalistica principalmente in un’ottica
monetaria e geografica, peraltro, significa assumere un approccio molto
limitato (riguardante solo pochi paesi), che non aiuta a ragionare in
quei termini ampi e fondati richiesti da ogni discorso sulla totalità
sociale – per una esposizione dei quali, almeno per la nostra posizione,
ci permettiamo di rinviare a C. Fiorillo-L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”,
Petite Plaisance, 2014. Ci pare che la connessione fra uscita dall’euro
e progettualità anticapitalistica sia sostenuta, da questi studiosi,
principalmente alla luce del fatto che oggi molte persone sarebbero
socialmente e politicamente aggregabili sul tema “no euro”, così come
qualche anno fa lo sono state sul tema dei beni pubblici, del welfare
state o della difesa della Costituzione. Tuttavia, per quanto si tratti
di contenuti importanti, occorre avere chiaro che parliamo di
provvedimenti socialdemocratici, non certo protesi al superamento delle
modalità sociali capitalistiche. Possono dunque essere provvedimenti
condivisibili nella situazione data (ossia fermo restando il modo di
produzione capitalistico), ma sono difficilmente considerabili anche
solo come primi passi di progetti anticapitalistici.
Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria
Il tema “no euro” è certo il tema contingente,
del momento. Tuttavia ciò che è contingente, per natura, dura poco,
sicché quanto aggrega oggi potrebbe non aggregare più domani. L’unico
tema in grado di aggregare stabilmente, e dunque di porsi come referente
anticapitalistico stabile, può infatti essere solo un progetto
generale, umanisticamente fondato, di modo di produzione ideale in grado
di mostrare alle persone modalità sociali alternative per la buona
vita. Se il fine, insomma, è quello di orientarsi verso un modo
di produzione comunitario (non si è realmente anticapitalisti se ci si
limita alla critica del modo di produzione esistente), è necessario
quanto meno chiarire questo fine, ovvero delineare in termini
generali le strutture portanti di questo modo di produzione ideale cui
tendere. L’argomento per cui occorre sempre e comunque battere su ciò
che aggrega in un dato momento, alla fine, risulta infatti
controproducente per la stessa causa anticapitalistica: non parlare mai
di progettualità, di come deve essere un modo di produzione comunitario
per essere realmente desiderabile, rende la via comunista impossibile da
percorrere. Eraclito diceva in merito che se non si parla di un
contenuto – per quanto, ne siamo consapevoli, assai difficile da
realizzare come questo –, si contribuisce, col proprio non parlarne, a
non vederlo mai realizzato.
Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica
Immaginiamo
che, a questa obiezione, i “No euro critici verso il modo di produzione
capitalistico” risponderanno che essa è un po’ nichilista, in quanto
oggi non vi è nessuna possibilità di realizzare progetti comunitari
complessivi, mentre la proposta di uscita dall’euro è più concreta,
applicabile, in grado di convogliare sigle ed associazioni; e che anche
se essa potrà realizzarsi solo grazie al capitale, sarà pur sempre una
piccola battaglia vinta, un granello di sabbia negli ingranaggi, ecc.
Ora: va da sé che è più facile vincere una battaglia che vincere la
guerra. Bisognerebbe tuttavia sempre avere chiaro – nonostante la
metafora bellica sia quanto di meno umanistico esista – per cosa si sta
combattendo, ossia avere chiaro se si sta facendo una battaglia per
vincere una guerra, o se la si sta facendo semplicemente per resistere
in qualche modo (ogni vera resistenza è tale, e può efficacemente essere duratura nel tempo lungo – nei suoi atti concreti che si è chiamati a compiere giorno per giorno –, solo se si fonda su un progetto che abbia il respiro profondo e consapevole di quell’orizzonte comunitario in cui si desidera vivere proiettandosi oltre
quello afasico della “gabbia d’acciaio” che il “presente capitalistico”
vorrebbe intrascendibile). Il rischio è, altrimenti, quello di
impegnare risorse contrabbandando, come principale via d’uscita dalle
sabbie mobili, il solo piccolo ramoscello che scende dall’albero, pur
sapendo che esso, appena afferrato, inevitabilmente si spezzerà facendo
ricadere nel pantano.
Qualche minimo contenuto per affrontare il problema
Ci
permettiamo allora di aggiungere qualche contenuto per incardinare
meglio il problema, sul quale auspichiamo si torni a discutere.
Aristotele sosteneva che è il fine di una azione (di un sistema) che ne determina l’essenza.
Il fine del sistema capitalistico – che è poi anche il principio che lo
muove – è la massimizzazione del profitto. La sua struttura è basata
sulla proprietà privata dei mezzi della produzione e sul mercato. Ci
chiediamo: realmente si può pensare che una progettualità
anticapitalistica possa fare a meno di considerare i cardini del modo di
produzione capitalistico? Si può rispondere, certo, che riconquistare
l’autonomia economico-politica è condizione necessaria, ma non
sufficiente, per realizzare tale proposta. Non sarebbe però condizione
ancor più necessaria avere qualche idea su come dovrebbe essere la
struttura proprietaria, produttiva e distributiva in un modo di
produzione sociale comunitario? Pensiamo di sì. Non è un caso che su
queste condizioni, filosoficamente e politicamente impegnative, non
ragioni nessuno, mentre all’uscita dall’euro guardino partiti sistemici
come la Lega Nord, il Movimento 5 Stelle o il Front National.
Rimaniamo
pertanto del parere che l’unico modo di prospettare una proposta
anticapitalistica, oggi – sappiamo che è poco, specie per chi
necessiterebbe di risposte subito, ma ci sembra la sola cosa seria da
dire –, sia il cercare di favorire, con l’educazione filosofica, la
teorizzazione di un modo di produzione sociale ideale in grado di
favorire la buona vita dell’uomo. Senza una minima proposta progettuale
in grado di aggregare stabilmente le persone, nessuna significativa
politica di giustizia sociale sarà stabilmente realizzata dal modo di
produzione capitalistico, strutturalmente ingiusto e conflittuale.
Notiamo
infine che spesso, nei giovani che si avvicinano per la prima volta ai
temi economici e politici, il tema “no euro” è un modo inconsapevole di
dire no all’intero modo di produzione capitalistico. Tuttavia, bisogna
essere consapevoli che colpire una parte non equivale a colpire
l’intero, e soprattutto che se, per usare una metafora, si colpisce la
coda del lupo (l’euro, o la UE), non si può pensare di fargli male sul
serio. Chi ha vissuto e studiato le politiche economiche italiane quando
c’era la lira, sa bene che l’esistenza di una autonomia
politico-economica nazionale è solo il primissimo passo per avere una
politica economica autonoma dal capitale. I più gravi problemi italiani
sono, come negli anni novanta del Novecento – oggi più intensi, ma vale
in tutto il mondo – povertà diffusa, iniquità distributiva,
disoccupazione di massa. Ebbene: se la causa principale di questi
fenomeni fosse l’assenza di una autonomia politico-economica nazionale,
non si capirebbe per quale motivo situazioni analoghe si verifichino
tuttora in molti altri paesi del globo caratterizzati appunto da
autonomia politico-economica nazionale. Probabilmente ciò accade perché,
nel sistema capitalistico, è inevitabile che una massa enorme di
persone debba subire gli effetti della logica del profitto, e che i
danni peggiori si verifichino più nei paesi deboli come l’Italia – tale
anche se interna alla UE – che nei paesi forti.
Le scorciatoie non esistono
Sicuramente, l’argomentazione qui proposta impatta tempi lunghi (ma, nella progettualità intermodale, le scorciatoie non esistono). Sui tempi brevi, è possibile anche accettare che si cominci dalla uscita dall’euro. Il cominciamento di un discorso è però cosa ben diversa dal fondamento. Un discorso progettuale va fondato sull’uomo,
su ciò che l’uomo è e su ciò che dunque richiede, in termini di
modalità sociali, per vivere bene, per potersi compiutamente realizzare.
Questa è la questione centrale, e la questione centrale non è
una torre d’avorio, ma contiene in sé tutte le questioni rilevanti,
stabilendo il loro significato autentico. Per questo è necessario
fondare la propria critica dell’esistente non solo su una chiara conoscenza della realtà, ma su una solida progettualità umanistica. Solo in questo modo sarà infatti possibile costruire un modo di produzione sociale comunitario
in grado di favorire la buona vita di tutti, e non limitarsi a qualcosa
che può sicuramente essere realizzabile in tempi brevi, ma che alla
fine non condurrà da nessuna parte, se non a rimanere, in mutate forme,
nelle paludi attuali.
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