Uscirà domani [4 settembre, n.d.r.] Il regime del salario,
l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato che raccoglie tutti gli
interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà
sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi in
anteprima la prefazione di Ferruccio Gambino
Questa
premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro
nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in
considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso.
Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti
cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa
premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che
il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà
una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo
con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale.
Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai
disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono
motivate a non cedere terreno.
Le
politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a
deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda
lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già
alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica
antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve
(agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10%
nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga.
Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua
pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il
rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio
(2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla
Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato
nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel
2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena
del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione
del fenomeno nello scorso triennio.
Molti
commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla
Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione.
A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento
dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della
Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che
il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al
doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale
statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita
nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente
grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in
particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che
nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense
(tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di
1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri
euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva
Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte
balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso,
una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi
scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo
dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della
grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva
mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la
socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari
dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero
dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella
decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in
ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si
può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta
regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite
e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente
intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di
mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si
contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre
quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali
generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano
l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i
salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a
significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010
il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder
(cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla
previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di
disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti
di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta
produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e
straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito
socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a
partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze
imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta
arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con
lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato
internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che
non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie
all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania
attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In
realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando
agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile
a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli
dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea.
Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro
primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la
Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il
benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già
ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non
disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento
sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e
i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In
breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando
nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla
precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali.
Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative
attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà
l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo
nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea
appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali:
per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è
salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per
la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri
finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi
«a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione
le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il
ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi
sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e
della Bundesbank.
Fin dagli anni
1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di
seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata
più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di
applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In
realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano
proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la
conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo
Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo
Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi
manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo
(governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002
decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di
abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa.
Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che
sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di
oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena
l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non
mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri
termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore
aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del
suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei
confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è
risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i
cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici
e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto
l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo
stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la
forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i
rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando
ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso,
nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita
si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente
i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da
quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi
fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla
cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle
decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava
riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi
della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento
grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla
insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura
da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi?
Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve,
scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e
addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i
salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti
politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di
lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a
gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è
rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso
la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi
in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la
previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che
le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014,
la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della
popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio
di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause
– tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi –
in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al
fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in
gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla
trasmissione della vita.
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