Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi
È
ormai alle nostre spalle il luglio greco, con l’entusiasmante vittoria
dell’OXI al referendum del 5 luglio e con il famigerato “accordo” di una
settimana dopo. La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non
solo per quel che riguarda il dibattito all’interno della “sinistra”
internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle dimissioni di
Tsipras, dalla scissione di Syriza e dall’annuncio di nuove elezioni a
fine settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra l’altro
la natura di Syriza e la democrazia interna al partito dopo la nascita
di “Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di
quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti intratterranno con
le istituzioni nella nuova congiuntura. Nessuna scorciatoia
auto-consolatoria, nessuna ricetta ideologica derivata dalle categorie e
dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle contraddizioni
del reale, che qui si manifestano con inedita violenza. In questo
intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare direttamente questi
temi e queste contraddizioni. Quel che vorremmo tentare, piuttosto, è
di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in questa fase,
dal punto di vista di una politica che punta alla trasformazione
radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come quella
greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa si rispecchia.
In questa fase,
abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e
da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala
globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli
ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del
nostro presente.
I “fenomeni morbosi più svariati”, scriveva
notoriamente Gramsci, si verificano nell’Interregno, ovvero in quelle
condizioni di “crisi organica” in cui “il vecchio muore e il nuovo non
può nascere”. Molti aspetti di questa definizione, formulata
all’indomani della crisi del ’29, rimangono in effetti validi: la crisi
organica, nella prospettiva di Gramsci, era essenzialmente una “crisi di
egemonia”, caratterizzata dal distacco delle “grandi masse” dalle
“ideologie tradizionali” e dall’incapacità della “classe dominante” di
esercitare una funzione “dirigente”, sostituita dal puro esercizio della
coercizione e appunto del “dominio”. Non v’è qui un parallelo con la
clamorosa crisi di legittimità del “neoliberalismo”, tanto in Europa
quanto altrove, e con l’arroganza con cui la sua “razionalità” viene
riaffermata dalle “classi dominanti”? Gramsci non escludeva certo che
l’Interregno si risolvesse “a favore di una restaurazione del vecchio” –
e tuttavia, nella solitudine del carcere di Turi, sottolineava in primo
luogo i caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione della
“crisi organica”.
Se certo non mancano gli echi sinistri
degli anni Trenta nella situazione di oggi in Europa (basti pensare alla
“crisi dei rifugiati”), è d’altronde evidente quanto siano grandi le
differenze. È in primo luogo il contesto globale al cui interno si
distendono i processi di valorizzazione e accumulazione del capitale a
essere profondamente mutato – con un effetto di moltiplicazione e
amplificazione dei caratteri di imprevedibilità, apertura e sospensione
della crisi. Ricordate quando dopo la crisi del 2008 dicevano in molti
che l’ultimo grande Paese “socialista”, la Cina, stava salvando il
capitalismo (quello statunitense in particolare) dalla catastrofe? Il
terremoto finanziario innescato nei giorni scorsi dal crollo della borsa
di Shanghai, ma più in generale la circolazione globale – sia pure con tempi e modi profondamente eterogenei – della crisi cominciata con l’esplosione della bolla dei mutui subprime,
mostra una realtà ben diversa. Da una parte getta ancora una volta luce
sul carattere strutturale dell’interdipendenza e sugli elementi di
fragilità e vulnerabilità che ne conseguono per le stesse economie dei
Paesi di volta in volta presentati come più forti (la “locomotiva
americana”, la Germania “campione mondiale delle esportazioni”,
l’“irresistibile ascesa” dei Brics e via discorrendo). Dall’altra parte
segnala, pur nella luce sinistra di una crisi che investe il principale
dei “Paesi emergenti”, le profonde modificazioni che si sono determinate
in questi anni nei rapporti tra quelli che un tempo potevano essere
individuati a colpo sicuro come i “centri” e le “periferie” del
capitalismo mondiale.
È in questo contesto di crisi permanente
delle forme del dominio capitalistico su scala globale che devono essere
collocate anche l’analisi e l’iniziativa all’interno dello spazio
europeo. L’epocale questione delle migrazioni e i focolai di guerra alle
frontiere d’Europa sono qui a ricordarcelo in ogni momento. Così come
la continua, e continuamente disattesa, promessa di una chimerica
“ripresa economica” continentale. Ma è una crisi evidente anche laddove
continuano a registrarsi tassi di “crescita” e “sviluppo” e che, forse,
può essere ormai interpretata come forma par excellence della
stessa accumulazione di capitale, nel tempo della sua compiuta
finanziarizzazione. Un alto grado di incertezza e imprevedibilità,
tanto delle dinamiche economiche e sociali quanto della loro
articolazione con le forme istituzionali, appare come un carattere
distintivo del nostro tempo. Nell’Interregno, in ogni caso, servono a
poco le bussole ereditate da epoche trascorse, e ancor più corrosiva
risulta l’ironia di Marx su chi si attarda a “prescrivere ricette per
l’osteria dell’avvenire”.
Partiamo dal presente, dalla necessità di costruire potere nella crisi,
un (contro)potere di parte degli sfruttati che possa agire con
efficacia per la trasformazione delle nostre vite nel segno della
libertà e dell’uguaglianza. Proprio perché, nella loro brutalità, i
passaggi estivi della crisi europea hanno chiarito come al centro della
scena siano lo squilibrio nei rapporti sociali di forza, il crudo punto
di vista di classe che dalla loro dialettica emerge, il carattere
cruciale della grande questione delle disuguaglianze e delle
illiberalità che ne conseguono.
Tenendo fermo lo sguardo su questi
squilibri e sulla violenza dello scontro di classe in atto,
disponiamoci dunque collettivamente alla definizione di un metodo che (ce lo ricorda l’etimo greco metà odòs,
“attraverso/strada”) non può che coincidere con l’individuazione (se
necessario con la violenta apertura) di una via laddove apparentemente
non ne esistono – o dove non se ne vedono con le vecchie mappe.
“Rigettare la terra mobile e la sabbia per trovare la roccia o
l’argilla”, scriveva Descartes nel pieno di un altro Interregno: quel
che conta è la via che conduce dalle une alle altre. Il metodo che
consente di individuarla è oggi, a tutti gli effetti, un metodo rivoluzionario.
Questa
via non può essere lineare, come ben si vede da una pur rapida
descrizione di quelle che possiamo definire oggi le coordinate temporali
e spaziali dell’azione politica. Sotto il profilo della temporalità,
le tendenze di lungo periodo nella trasformazione e riorganizzazione
del capitalismo, a lungo analizzate, si confermano nella loro
distensione globale, ma si realizzano all’interno di contesti
profondamente eterogenei, modificandosi di volta in volta e adattandosi
tanto alle “turbolenze” globali quanto alle variabilità “locali”. Le
trasformazioni nella composizione e nella natura del lavoro, la maturità
della cooperazione sociale, il carattere pervasivo della
finanziarizzazione, il rilievo dei dispositivi individuali e collettivi
dell’indebitamento, le forme nuove in cui si presenta l’articolazione
tra comando capitalistico e dominio politico, il ruolo politico della
moneta: queste tendenze, per non citarne che alcune, si sono
ulteriormente approfondite negli anni della crisi. Ma, prese nel loro
insieme, non disegnano alcun tracciato lineare di “sviluppo” – tra
l’altro per via dell’intreccio strutturale tra sviluppo e crisi che
abbiamo precedentemente sottolineato. Vano sarebbe, dunque, attendere il
“pieno dispiegamento” di queste stesse tendenze e lo scaturire da esse,
novella Minerva, del soggetto (della composizione di classe) capace di
rovesciarle in termini rivoluzionari. Non è del resto neppure sul
registro messianico dell’“evento” che possiamo fare affidamento: il
capitale ha dimostrato di essere una formidabile macchina per la
metabolizzazione di “eventi” e per la loro trasformazione in carburante
per la sua valorizzazione. È piuttosto disponendosi a lavorare
all’interno di una essenziale sconnessione temporale, combinando cioè
costruzione e accumulo di forza da un lato e apertura verso
l’imprevisto, l’“inattuale” dall’altro, che il problema della
costruzione di potere nella crisi può essere definito dal punto di vista
del metodo. Qui, se si vuole parlare di “politica dell’evento”, ciò che
si deve intendere è l’attitudine a “cogliere l’occasione”, inserendosi
in quelle aperture temporali che, nel conflitto e nella rottura,
consentono il salto in avanti e l’affermazione di un rapporto di forza
più favorevole.
Analogo discorso può essere fatto sotto il profilo della spazialità.
La “geometria variabile” dell’azione politica che punta alla
trasformazione radicale dell’esistente è oggi imposta dalle forme stesse
in cui si è riorganizzato il capitalismo – anche in Europa, dove negli
anni della crisi abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione
degli spazi economici e politici. La combinazione di elementi di
“omogeneità” ed “eterogeneità” tra scala globale, continentale,
nazionale e locale è un aspetto che abbiamo altre volte analizzato in
profondità – sottolineando la dialettica e le tensioni tra processi di
standardizzazione e/o omologazione, da una lato, e la messa in gioco di
“differenze” economiche e politiche, sociali e culturali, finanche
“antropologiche” tra luoghi e aree diverse, dall’altro. E ciascuna delle
scale che abbiamo nominato, lungi dal presentarsi come fissa e stabile,
è investita da specifici fattori di crisi: identificare questi fattori,
investire gli spazi di confine e le giunture tra le diverse scale con
un’azione politica di rottura e di alternativa costituisce una
essenziale priorità di metodo nell’Interregno. Non vi è, a questo
proposito, nessun possibile ritorno indietro alle dimensioni,
apparentemente più rassicuranti, della sovranità nazionale o del
“territorio”, né per via di un mitologico recupero di “sovranità
monetaria” né attraverso l’esaltazione di presunte alternative
“micro-comunitarie”: l’una e l’altra “soluzione” appaiono destinate a
essere travolte dalla violenza di processi che attraversano, lacerano e
sincronizzano ogni “scala” spaziale. La nostra opzione per l’Europa (ed è
un po’ umiliante, ma forse sempre necessario ribadire che essa non
coincide per noi con la dimensione istituzionale dell’Unione né con un
qualsivoglia “eurocentrismo”), da questo punto di vista, è un’opzione
per il tentativo di costruire uno spazio politico in cui questi processi
possano essere efficacemente contrastati: è questa la condizione per
rendere espansive e durature le stesse esperienze di
lotta e di costruzione di alternativa che si sviluppano nelle dimensioni
“locali”. Lo sappiamo – e lo abbiamo dolorosamente verificato negli
scorsi mesi: il rapporto di forza è duramente sfavorevole. Occorre lavorare per cambiarlo.
All’interno
di queste coordinate temporali e spaziali, si tratta di sviluppare un
rinnovato approccio realistico e materialistico alle dinamiche e alle
lotte sociali reali, dismettendo ogni feticismo delle identità. E
cruciale, da questo punto di vista, diviene la relazione, mai univoca,
con i processi politici che le dinamiche e le lotte sociali concorrono a
determinare e orientare, essendone al contempo condizionate. Tanto la
Grecia quanto la Spagna sono da questo punto di vista laboratori di
grande importanza. Proprio una realistica valutazione dei rapporti di
forza in Europa dovrebbe del resto indurre alla cautela rispetto
all’adozione della coppia binaria “vittoria / sconfitta”, e delle
retoriche della “capitolazione” o del “tradimento” a essa correlate, per
valutare un’esperienza come quella greca degli ultimi mesi. A noi pare
che il criterio fondamentale debba essere piuttosto, coerentemente con
quanto abbiamo scritto sulle coordinate temporali e spaziali del metodo
politico nell’Interregno, quello dell’accumulazione di forza per
costruire processi di governo “contro-egemonico” dentro e contro quel
“neoliberalismo reale” di cui non è certo possibile liberarsi per
decreto, per costruire magari la caricatura di quello che un tempo fu
definito il “socialismo in un Paese solo”. La natura meramente
ideologica (e spesso insopportabilmente settaria) delle posizioni che,
all’interno della sinistra più o meno “estrema” e sedicente “marxista”,
individuano nel “Grexit” la soluzione emerge qui con chiarezza: e si
compendia nella mancata comprensione dei caratteri fondamentali del
capitalismo contemporaneo (della “verità effettuale della cosa”, per
dirla con Machiavelli), nell’inseguire l’“immaginazione” di uno Stato
nazionale che – una volta “conquistato” – possa essere la base e il
soggetto fondamentale per la sua trasformazione. Una posizione
politicamente radicale, oggi, non può che partire – una volta di più –
dal primato delle lotte, da una realistica assunzione dei
limiti con cui si scontra l’azione di qualsiasi governo e dal tentativo
di pensare e praticare in forme nuove e originali la dialettica tra
lotte sociali e azione di governo.
Il neoliberalismo non è né
semplicemente un’“ideologia” né un “pacchetto” di politiche
macro-economiche: è una “razionalità” che ha trasformato profondamente
le forme e i soggetti dell’azione economica e sociale, nonché le stesse
istituzioni “pubbliche”, nella misura in cui interpreta alcuni caratteri
di fondo del capitalismo contemporaneo. Lottare contro il
neoliberalismo – che lo si faccia da un punto di vista “riformista” o
“rivoluzionario”, categorie la cui validità va comunque verificata e
aggiornata all’interno delle coordinate temporali descritte in
precedenza – comporta l’assunzione di una prospettiva quanto meno di
medio periodo. E impone di pensare e agire politicamente oltre
l’esaurimento della tradizionale politica rappresentativa. Certo,
specifiche elezioni possono giocare un ruolo estremamente importante: ma
quel che è definitivamente tramontato è appunto lo schema temporale
della rappresentanza, quella delega al governo che svuota di
politica il tempo compreso tra un’elezione e l’altra. Lo si è visto
benissimo proprio nel caso greco, dove l’azione di governo è risultata
dinamica e “potente” quando ha saputo agganciarsi alla proliferazione
del tessuto mutualistico e ha sollecitato – senza poterla rappresentare –
l’irruzione dell’evento referendario. È un punto fondamentale, da
tenere a mente anche per il futuro.
Porre questo problema,
evidentemente, significa porre il problema di un profondo rinnovamento
della nozione stessa di governo – e in particolare, come si è detto, del
rapporto tra governo e lotte, movimenti, processi di mobilitazione,
istituti autonomi di contropotere. Significa cioè domandarsi quale sia
il livello di esercizio del potere adeguato per riuscire a mettere in
discussione le politiche neoliberiste e il paradigma dominante dell’austerity,
che si sono tradotti in forma permanente di gestione della crisi in
Europa. Qui le coppie binarie “partiti/movimenti” e
“istituzionale/anti-istituzionale”, da declinare a seconda dei contesti
in termini di “alleanze” o di “antagonismi”, davvero non funzionano più.
Né sotto il profilo teorico, né sotto quello pratico. La dimensione
globale e inafferrabile, fluida e pervasiva del capitalismo finanziario,
la drammatica sproporzione nei rapporti sociali di forza dati, la
complessità multifattoriale di ogni processo di decisione politica,
tanto più se orientato al cambiamento, interrogano radicalmente sia la
condizione dei movimenti sia quella istituzionale. Impongono una
riflessione, urgente e immediatamente operativa, sull’“inefficacia”
dell’azione dei movimenti sociali quando essa resta auto-referenziale e
sui “limiti” dell’azione di governo se rimane esclusivamente
circoscritta all’interno delle istituzioni costituite. Sono questioni
cruciali, che occorre affrontare con urgenza e al di fuori di ogni
tatticismo.
Quel che è certo è che, anche nella valutazione delle
formidabili ed essenziali esperienze di mutualismo e auto-organizzazione
sociale che si sono diffuse in Grecia come altrove, risulta per noi
essenziale un’attitudine maggioritaria, la riformulazione del
problema classico del rapporto tra conflitto e consenso: cruciale, qui,
non è tanto la misurazione (magari attraverso sondaggi e rilevazioni
statistiche) dell’impatto dei conflitti sociali sulla produzione di
“opinione pubblica”, che è di per se stessa terreno di scontro
permanente, quanto la determinazione politica di costruire maggioranze
sociali che possano rendere realistica la costruzione di alternative
all’esistente.
È in fondo questa la lezione che ricaviamo dalla
riformulazione della categoria di “populismo” da parte di Podemos: se
continuiamo a criticarne alcuni presupposti teorici, se riteniamo che
un’interpretazione eccessivamente rigida di questa categoria possa
facilmente sfociare nel “sovranismo” nazionale, se siamo convinti che la
chiusura attorno al partito che il “populismo” agevola possa creare non
pochi problemi anche dal punto di vista delle prospettive elettorali,
nondimeno riconosciamo l’importanza della riapertura di una prospettiva
dichiaratamente maggioritaria. Ed è sul terreno della soggettività
politica, della sua costruzione e della sua potenza, che una metodologia
politica sovversiva nel tempo dell’Interregno dovrà necessariamente
esercitarsi: quel che è certo è che il nostro “popolo” non può che
essere “a venire”, prima di tutto nel senso che il soggetto politico
della trasformazione ancora non c’è. È nella sua costruzione,
nella lotta necessaria contro i processi di corporativizzazione,
frammentazione sociale, individualizzazione estrema che il
neoliberalismo reale ha indotto e non cessa di alimentare, che dobbiamo
recuperare e aggiornare i caratteri di apertura e innovazione che
abbiamo individuato nei dibattiti degli scorsi anni attorno alla
categoria di “moltitudine”, a partire dall’inedita e ambivalente
relazione che si determina (che può determinarsi) tra singolarità e
collettività. In ogni caso, lo ripetiamo, la costruzione di un soggetto
politico capace di essere al tempo stesso radicale e maggioritario è
oggi una essenziale priorità – a cui lavorare con ogni strumento
efficace, sia esso culturale, di opinione, sociale o elettorale.
Questo
processo non può che essere, sotto il profilo del metodo, complesso e
articolato fin da principio su una molteplicità di livelli. Deve
necessariamente coinvolgere attori eterogenei e impegnati in ruoli
diversi, facendosi carico del problema della “sincronizzazione” di
tempi, linguaggi, comportamenti, “culture”, forme di azione sociale e
politica che non possono che essere anch’essi altrettanto eterogenei. Il
tema delle coalizioni emerge qui come strategico, ben al di là
delle cronache politiche quotidiane e delle prospettive di questa o
quella specifica “coalizione”. In gioco non è la riedizione di una politica “frontista” o delle “alleanze”, ma piuttosto la scoperta e la costruzione della forma politica,
dello strumento progettuale e organizzativo adeguato alla pratica della
rottura e dell’alternativa nelle coordinate temporali e spaziali che
abbiamo tentato di definire. La coalizione, in questo senso, non può che
essere essa stessa una pratica, da verificare e reinventare
continuamente al di là di quelle opposizioni binarie (tra partito e
sindacato, tra movimenti e istituzioni, ad esempio) che appaiono oggi un
ostacolo dal punto di vista dell’innovazione necessaria per rilanciare
una politica della trasformazione radicale. È rispetto a questo
orizzonte della coalizione, al suo carattere per natura ibrido, giocato
sul confine tra sociale e politico, tra lotta e sperimentazione
istituzionale, mutualismo e integrale approccio federativo, che
misureremo l’azione degli stessi partiti della sinistra nei prossimi
mesi – in Grecia come in Spagna, ma anche in Italia, o in Germania e in
Gran Bretagna.
Si capisce bene come la posta in gioco, nei mesi
che ci attendono, non sia tanto il proprio posizionamento solipsistico e
autocompiaciuto in una diatriba, tutta ideologica e in gran parte
sottratta alla nostra disponibilità, sintetizzabile in slogan quali
”Euro sì / Euro no” (senza ovviamente negare che la questione della
moneta è e resta fondamentale!) o “uscita a sinistra dall’Unione
Europea” (e quella su come lottare a livello transnazionale contro i
suoi dispositivi autoritari di governance è una domanda
altrettanto cruciale!). La posta in gioco è piuttosto la decisione se
stare, insieme a tante e tanti altri nel vivo delle lotte sociali,
dentro possibili processi di trasformazione reale che arrivino a
investire politicamente, tra l’altro, proprio il terreno della moneta e
quello della governance europea. Cominciamo ad affinare le
armi, a forgiare gli strumenti necessari a combattere queste battaglie:
sotto il cielo dell’Interregno, l’orizzonte rimane aperto.
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