Eretico e non scismatico, così Fausto Bertinotti ha definito
Pietro Ingrao riproponendo un giudizio che Claudio Sabattini aveva dato
su se stesso tanti anni fa. Mi pare una immagine troppo statica, anche
perché Ingrao negli ultimi anni della sua eccezionale vita politica
scismatico lo era diventato. Dopo aver combattuto con tutte le sue forze
la svolta di Occhetto aveva inizialmente sostenuto che bisognasse
rimanere nel partito erede del PCI, perché si doveva stare "nel gorgo".
Ma dopo solo due anni quel partito lo aveva lasciato e si era speso per
costruire un'alternativa a sinistra di esso. Se si è coerentemente
eretici prima o poi scismatici si è costretti a diventarlo, se le cose
non cambiano. D'altra parte nessuno dei leader della sinistra italiana,
che siano stati più eretici o più scismatici, è riuscito a fare meglio
di lui, segno che la contraddizione che ha vissuto non è di quelle che
si possono risolvere con puri atti di volontà.
La storia di Ingrao è quella della parte migliore del comunismo
italiano, quella sinistra di scuola togliattiana che accomunava il
legame di ferro con l'Unione Sovietica con la ricerca gramsciana di una
via per la rivoluzione in Occidente. Si fa torto ad Ingrao se si
cancella questa parola, rivoluzione, dal suo vocabolario e dai suoi
sentimenti. Non è mai stato un riformista in nessuna delle accezioni
correnti o passate. Anzi mi permetto di testimoniare che negli ultimi
anni questa parola era tra quelle che più gli stavano care, quella che
riassumeva lo scopo di una vita e lo sguardo verso il futuro. Certo
essere rivoluzionari nel PCI comportava prezzi da pagare ed errori. Da
quando nel 1966 affermò il suo dissenso, ma poi accettò quelle regole
del gioco che lo condussero ad approvare la radiazione de il Manifesto,
credo che siano diverse le volte nelle quali Pietro Ingrao abbia
sofferto la contraddizione tra il suo sentire ed il suo concreto
comportamento. Ma questa sua sofferenza e personale contraddizione, da
lui stesso poi più volte ricordate , non ci deve far smarrire il dato di
fondo. Ingrao aveva ragione e se il PCI avesse accettato il suo punto
di vista sulle nuove contraddizioni del capitalismo e soprattutto la sua
richiesta di libertà di discussione interna, la storia della sinistra
in Italia ed in Europa sarebbe diversa, più avanti. Invece quello stesso
apparato che poi dalla sera alla mattina sarebbe corso in massa a
cambiare nome al PCI, nel nome dell'ortodossia combatté Ingrao e coloro,
pochi, che rimasero con lui. I miglioristi, chissà perché definiti
liberal, furono allora alla testa della resa dei conti di tipo
staliniano con Ingrao ed il suo dissenso. Ma egli accettò alla fine
quella condizione perché credeva restasse in piedi la doppiezza del PCI,
il suo essere una forza di massa con pratica riformista che, anche se
alla lontana, continuava a richiamarsi alle sue radici rivoluzionarie,
al comunismo. Fino a che questo legame non fosse stato del tutto stato
soppresso Ingrao sarebbe rimasto in quel fiume, cercando di muovere da
lì controcorrente. Per questo la sua vera e profondissima rottura fu con
la Bolognina nel novembre1989.
Sulla base delle passate esperienze il gruppo
dirigente occhettiano sperò per qualche giorno che Ingrao non si
opponesse alla svolta, magari dandone una lettura di sinistra. Era una
incertezza che percorreva anche tanti di noi, combattuti tra la
necessità di un cambiamento e la diffidenza verso quel cambiamento. Dopo
qualche giorno di silenzio, nel quale si accreditarono le voci più
diverse, Pietro Ingrao espresse tutto il suo disaccordo, tutta la sua
rottura con la svolta. Fu proprio la rinuncia esplicita alla prospettiva
anticapitalista, al cambiamento di sistema a farlo decidere.
Attenzione, in un certo mondo radicale la svolta veniva presentata
addirittura come una scelta di sinistra. In fondo, si diceva, il PCI era
diventato un partito moderato anche perché la parola comunista
giustificava i peggiori comportamenti opportunistici nel nome di un
ideale superiore. Eliminando questa copertura ideologica ci sarebbe
stato più radicalismo pratico. Era un errore politico, storico e
culturale, che non comprendeva che tipo di capitalismo ideologico e
totalitario si stesse affermando e come fosse indispensabile, anche per
la battaglia quotidiana più immediata, un punto di vista critico di
sistema. Il fatto che oggi l'anticapitalismo di Papa Francesco abbia
tanto successo e copra un vuoto così profondo a sinistra dà
completamente ragione al no di Ingrao. Che a quel punto scelse una
pratica politica che non era sua, quella di corrente, quella delle
alleanze con dirigenti del PCI contrari alla svolta da punti di vista
abbastanza distanti dal suo. Divenne perciò anche scismatico e non mi
risulta che se ne sia mai pentito. Gli "ingraiani" cioè quei dirigenti
politici e sindacali che erano considerati a lui vicini, si divisero nel
1989 come già avevano fatto nel 1966. Molti lo abbandonarono e
operarono per la versione di sinistra della svolta.
Cancellato il PCI, Ingrao continuò soprattutto
un'opera di testimonianza e militanza. Francamente a chi lo ha criticato
per questo mi sento di chiedere cosa avrebbe potuto fare di davvero
diverso, con il disastro in atto della sinistra italiana in tutte le sue
anime e strutture. Così lo ricordiamo novantenne farsi accompagnare in
motorino alla fine del lungo percorso di un corteo contro la guerra e
poi salutare a pugno chiuso. Era il suo modo concreto per resistere ed
indicare una via. Nella storia ci sono i no che vincono e ribaltano il
corso egli eventi, e quelli che solo indicano quello che avrebbe potuto
essere e non fu. Entrambe queste specie di no sono decisive per le
nostre vite. Per questo i no di Ingrao nel 1966 e nel 1989 durano nel
tempo e ci ricordano da dove partire se si vuol davvero cambiare una
società sempre più ingiusta e distruttiva.
Ingrao non fu mai pacificato o rassegnato e non può essere
imbalsamato in un vuoto e ipocrita pantheon dei padri di una Repubblica
che da tempo non esiste più. Ingrao era un rivoluzionario di una pasta
speciale, come sono tutti veri rivoluzionari, quelli per dirla con Che
Guevara, che sanno essere duri senza perdere la tenerezza.
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