UN SECOLO DI VITA
di Luciana Castellina - 30 marzo 2015
Ricordo ancora nitidamente la prima
volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva
cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa.
Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione
Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che
lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina
con noi».
Lo ricordo bene perché eravamo in piena
battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso
del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non
una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle;
e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse
con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi
che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella
vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito,
cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti
e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo
dialettico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applauditissimo,
ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e
«relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla
presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati.
E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora
che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro
anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere
sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il
«gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura,
sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto
il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria
individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani,
dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso!
È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano
più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si
può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie
100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il
senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani
della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato.
Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito,
il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo
più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo
nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni
e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far
leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare
l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo
alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di
uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base
della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il
tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia
(un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il
capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano
due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo
teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava
agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità
europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi
problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità»
capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose
a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato
allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo
— questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della
famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in
nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non
faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava.
Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato
attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le
potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti,
a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente
in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 —
che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo»
del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di
imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe
stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro
del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello
spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha
dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno
di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più
i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la
sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico
della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo
spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai
tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre
meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro
in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono
andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono,
persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente
politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di
essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre
attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi.
Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi
di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso
«viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue
speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio
e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché
ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava
è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che
dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non
sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il
suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure
chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha
sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo
delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero
politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione
cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione
del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri
e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato
possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’
sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo —
il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca
ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità».
E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della
formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo
dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche
altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima
influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale
di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che
mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30,
avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande
cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente
conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza:
l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo
tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima
che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse
Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace
e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita
a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era
la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie
a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti
sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista
italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non
ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra
sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il
primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro.
dallo speciale de il manifesto del 31 marzo 2015
UN SECOLO DI VITA
di Luciana Castellina - 30 marzo 2015
Ricordo
ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di
Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi
parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi,
ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione
Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una
dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi
tempi, cammina con noi».
Lo
ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana»,
proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando
i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente,
per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui
stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con
chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se
tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di
introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una
pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni
non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti
impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
Fu,
come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente
emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe
Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo
parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in
ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo
ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il
manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza
Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue
scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il
«gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per
paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire
profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione
collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per
favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva
neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le
opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra
radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di
tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col
tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo,
e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è
ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo
una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso
diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo
più serio del pensiero comunista di fare i conti con il
capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove,
moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche
dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli
rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire
un vero modello di sviluppo alternativo.
Si
trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito
della «modernità acritica», che fu alla base della cultura
neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il
tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una
anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo
nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando
nel mondo.
Dal
giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche
e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente
intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere
l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea,
o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi
problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità»
capitalistica.
La
destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il
Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su
questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta
ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa
«Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in
nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che
non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma
anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più
e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma
a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo
sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si
formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di
prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su
quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione
nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che
non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come
qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più
possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro
del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo
fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni,
passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario
del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro
Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua
personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non
invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di
comunista.
L’ho
fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli
anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi
si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle
loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare,
invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella
sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino
con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente
politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta
non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di
esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare
l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua
sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di
scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo
clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura
e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del
resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro
non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi
nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da
generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti
all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente.
Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove
il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano
neppure chi fosse.
Ascoltava
perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento
ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la
partecipazione.
Può
sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato
segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica.
Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del
cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri
e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato
possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un
po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate
— dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché
a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le
responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte
sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di
quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra:
Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul
partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani,
De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di
cinematografia.
Raccontavo
loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua
generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo
proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella
letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti
proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo,
come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo
tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì,
prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio
quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista
(per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una
importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano
cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la
solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano
mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano
qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli
anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva
aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra
sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati
il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro.
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