Approcciarsi
a scrivere un pezzo sul pensiero di Keynes è sempre un azzardo, sia per
l’immensa autorità dell’economista di Cambridge, sia per la
monumentalità della sua opera, di cui sono un illuminante esempio i
numerosissimi scritti di critica, perfezionamento e completamento sparsi
nei decenni successivi ad opera di altri influenti economisti, in
primis Hicks, Modigliani, Tobin, Samuelson e Hansen, sia per l’assenza
in tutto il suo scritto di una modellizzazione formale, che fu lasciata
ai successori.
Tratterò perciò della teoria
keyesiana ortodossa, per quanto completata dalle riflessioni degli
autori citati prima, intendendo con ciò soprattutto distinguerla dalla
c.d. “sintesi neoclassica” che farà parte a sè in una serie di altri
articoli.
La struttura del mio intervento è perciò
la seguente: nel presente articolo tratterò i principali contributi
della teoria di Keynes all’occupazione, agli investimenti e alla moneta;
nel prossimo vedremo il ciclo economico e alcuni pros e cons dei primi
due articoli; nel terzo parlerò della sua nuova politica economica
basata sulla spesa pubblica in deficit e della politica del commercio
estero; in un quarto articolo condenserò alcuni commenti e critiche
relativi ai primi tre pezzi; in un quinto articolo vedremo un semplice
modello keynesiano in economia aperta.
Finora abbiamo visto la politica economica del liberismo formatasi sull’impulso delle teorie classiche ,
fondata sulla premessa che le forze di mercato, se lasciate a se
stesse, avrebbero condotto il sistema alla migliore e più efficente
allocazione di tutte le risorse, donde l’accento più marcato sulle
politiche dell’offerta piuttosto che della domanda. Allo Stato era
demandato il compito di assicurare il quadro istituzionale e legislativo
(difesa, sicurezza, giustizia, istruzione ecc) senza intervenire
nell’economia.
Questa concezione fu criticata fin
dal decennio precedente la pubblicazione della Teoria Generale di Keynes
(1936), in particolare tre punti ne influenzarono il pensiero:
1) veniva contestata la capacità autoregolamentatoria e riequilibratrice del mercato;
2) si cominciavano a studiare meglio forme più realistiche di organizzazione dei mercati (concorrenza
imperfetta, monopolio, oligopolio), e si riconosceva che la
conseguente allocazione delle risorse era meno efficente rispetto alla
concorrenza perfetta;
3)
se nel sistema si diffondevano strutture oligo e monopolistiche, allora
la distribuzione del reddito aveva la tendenza a divenire più
sperequata (vedasi il mio intervento sul c.d.mark up, qui).
La
Grande Depressione seguita agli avvenimenti del 1929 infine mise in
evidenza la difficoltà del sistema a raggiungere la piena occupazione. L’intento principale dell’analisi di Keynes fu di dimostrare la possibilità di un equilibrio economico non di piena occupazione.
Risparmi, investimenti e occupazione. La teoria monetaria per Keynes
Keynes partì da tre fondamentali proposizioni, che scardinavano quelle walrasiane:
1) il risparmio è sì funzione del tasso di interesse, ma soprattutto è funzione crescente del reddito; anzi il risparmio tende a crescere più che proporzionalmente
al crescere del reddito, diventandone, sia in senso assoluto che
relativo, una parte rilevante. Questo perchè i consumi, che del
risparmio sono speculari, tendono a stabilizzarsi oltre un certo livello
di reddito e il resto viene risparmiato (vedasi nota 1).
2) l’esperienza suggerisce che sotto un certo livello i tassi di interesse non possono scendere.
3) gli investimenti crescono al diminuire del tasso di interesse, come sostenevano i classici, ma l’evidenza empirica suggerisce che diventino sempre più inelastici al tasso quanto più esso sia in corrispondenza di valori bassi.
Per
spiegare il secondo punto, Keynes rimise mano alla teoria della domanda
di moneta, completandola rispetto alla visione classica. Quest’ultima
si era fermata a considerare la moneta esclusivamente come mezzo per effettuare transazioni, invece Keynes rimarcò che la moneta veniva detenuta anche per fini “precauzionali” e fini “speculativi”.
Mentre
è intuitivo il motivo precauzionale per l’ “incertezza e il rischio”,
il motivo speculativo è interessante: la moneta può essere detenuta
quale alternativa all’investimento in titoli, ma perchè detenerne se non
frutta interesse? Detenere moneta può essere una valida alternativa
rispetto al costo di detenere titoli che magari sono poco
smobilizzabili, senza un mercato ampio e liquido di compravendita, o
hanno quotazioni volatili , duration impegnative e costi di negoziazione
alti.
Per Keynes inoltre ogni investitore ha una sua aspettativa riguardo il tasso di interesse che ritiene “normale”, quello
cioè a cui il mercato è destinato a convergere. Se il tasso di
interesse è più alto del “normale”, allora smobilizzerà moneta per
acquistare titoli e guadagnare in conto capitale quando i tassi
scenderanno; viceversa, venderà i titoli in cambio di moneta per non
incorrere in perdite. È questo il motivo per cui si parla di moneta
“speculativa”.
Per Keynes detenere moneta trova
maggior significato quando i titoli sono poco redditizi (tassi bassi) e
non vi è vantaggio a averne piuttosto che scambiarli con moneta (la
teoria prende nome di “teoria della preferenza per la liquidità“). Il discriminante è sempre il tasso di interesse, e anche qui l’esperienza dimostrava che sotto un certo tasso la gente è disposta a detenere quantità potenzialmente illimitate di moneta (al posto di titoli), e sia per nulla propensa ad abbandonare la forma liquida (è la famosa “trappola della liquidità“,
benchè questo preciso termine non compaia negli scritti di Keynes). Il
motivo è semplice: temendo perdite in conto capitale a causa di
successivi rialzi dei tassi, gli investitori sono poco inclini a
detenere titoli: l’assenza di domanda di titoli impedisce che il tasso
scenda oltre il livello definito “normale” (o “tasso critico minimo”
nella terminologia di Tobin).
Ovviamente Keynes
scriveva in tempi in cui il zero level bound, la zero interest rate
policy, il quantitative easing e la forward guidance non erano neppure
immaginabili, ma il problema che lui sollevava esiste tutt’oggi benchè
in termini diversi (su questo rimando alla sezione PROS E CONS punto 3 e
4 di seguito).
Premesso questo vediamo in cosa consiste la critica keynesiana al meccanismo di riequilibrio automatico dei mercati:
se si cercasse di stimolare gli investimenti riducendo il tasso di
interesse al fine di conseguire il reddito corrispondente alla piena
occupazione, allora ci si imbatterebbe in questi due ostacoli: man mano
che il reddito aumenta, aumenterebbero più che proporzionalmente i
risparmi ma la crescente inelasticità degli investimenti ai movimenti
dei tassi (se già bassi) impedirebbe che si formi una domanda (per
investimenti) sufficiente a assorbire l’ampio risparmio creatosi, quindi
molte risorse rimarrebbero improduttive e il reddito necessario alla
piena occupazione non verrebbe conseguito e così anche il pieno impiego.
L’unica alternativa sarebbe di spingere i tassi oltre la soglia minima che però Keynes ritiene essere impossibile.
Ed ecco che, come d’incanto, il re è nudo.
Si noti che i risultati esposti dipendono crucialmente da un’altra ipotesi, quella di rigidità dei salari nominali,
che in tutti i modelli keynesiani sono considerati fissi nel breve
periodo. Quando vedremo il modello ADAS sarà più chiaro, qui mi limito a
accennare che tanto le curve di domanda e offerta di lavoro, quanto la
curva di offerta aggregata AS si ricavano partendo proprio da questo
assunto.
Quella della rigidità dei salari nominali è una ipotesi centrale nel pensiero keynesiano, dalla quale dipenderà anche la vischiosità dei prezzi, cioè il loro adeguarsi lentamente agli shocks. Keynes argomentava così il suo assunto:
1) i salari sono stabiliti con contratti a lungo termine
2) i sindacati sono riluttanti a riduzioni dei salari nominali
3) in ogni caso le correzioni avvengono lentamente.
Naturalmente,
se i salari e i prezzi sono lenti a adeguarsi agli shocks di reddito e
alle variazioni nella domanda aggregata, allora questo vuol dire che i
prezzi relativi fra beni e servizi (il cuore del pensiero
economico classico) si disallineano e questo ha due implicazioni: 1) le
politiche economiche, specie quelle monetarie, non sono più neutrali
rispetto al reddito, bensì producono effetti reali; 2) la configurazione
di equilibrio di breve termine dei sistemi keynesiani non garantisce la
piena efficenza nelle allocazioni delle risorse, capitale, lavoro
eccetera.
Entrambe sono conclusioni che si muovono
nella esatta direzione opposta rispetto a ogni precedente teoria.
Soprattutto la seconda ha un corollario centrale nel pensiero
keynesiano: l’equilibrio macroeconomico esiste, nel breve periodo, ma
coincide con tassi (anche alti) di disoccupazione involontaria.
Anticipo
che questa conclusione, tipica dell’ortodossia keynesiana, sarà
successivamente sostituita dai keynesiani della scuola della c.d.Sintesi
Neoclassica con l’idea che nel medio/lungo periodo tale disoccupazione
sarà riassorbita dato che prezzi e salari si saranno nel frattempo
adeguati. Vedremo in futuro le idee della Sintesi, per ora è sufficiente
chiedersi quante volte abbiamo visto nella realtà adeguarsi al ribasso i
salari nominali senza passare necessariamente per periodi di ancor più
forte disoccupazione e perdita di competitività delle aziende per non
parlare di crisi aziendale vera e propria (vds nota 2).
Terminato
questo discorso, voglio evidenziare una cosa: Keynes con questa sua
teoria di domanda della moneta rivoluziona il pensiero economico
precedente, perchè mentre per i “classici” il tasso di interesse si
formava dall’incontro delle curve di risparmio e investimento, invece
per Keynes diventa fondamentale il tasso di mercato monetario, cioè quel
tasso che rappresenta il guadagno che è richiesto per abbandonare la
forma liquida della moneta e investire in titoli oppure prestiti. Il
tasso di interesse diventa quindi il risultato dell’incontro di domanda
e offerta di moneta: diventa cioè un fenomeno monetario, e non un
fenomeno reale che dipende da variabili “reali” (risparmio e
investimenti). Sarà un cambio di paradigma profondo perchè il conseguente corollario è chiarissimo: al tasso che si formerà sul mercato monetario, il risparmio potrebbe essere diverso dall’investimento, scardinando l’assunto di base della teoria classica.
Il ciclo economico
Prima di Keynes abbiamo visto che le fluttuazioni cicliche erano state spiegate o con fattori casuali imprevedibili,
oppure con fenomeni di ordine monetario (ricordiamoci che i classici
scrivevano all’epoca del gold standard, quindi l’impossibilità di
espandere il credito, oltre una misura funzione delle disponibilità di
riserve auree, generava fenomeni di fluttuazione) .
Oppure,
seguendo Schumpeter, le fluttuazioni erano ascrivibili all’affollarsi
di innovazioni che provocavano dinamiche deflattive le quali,
congiuntamente al rimborso dei debiti contratti per finanziarle,
provocavano la caduta del tasso di rendimento delle aziende e il
conseguente ridimensionamento della produzione e del tasso di
introduzione delle stesse innovazioni.
Keynes innestò una terna di considerazioni empirico-teoriche,
fornite da alcuni economisti prima di lui, sulla sua concezione
dell’andamento di reddito, risparmi, tassi e investimenti che prima
abbiamo visto. Le tre considerazioni sono le seguenti:
1) prendendo spunto dal lavoro del francese Aftalion, Keynes sostiene che man mano il reddito si avvicina alla piena occupazione,
per poter garantire che l’accumulazione di capitale proceda ad un ritmo
superiore alla velocità di aumento della forza lavoro (necessario per
colmare il crescente divario fra redditi e consumi), allora è necessario sostituire i processi ad alta intensità di lavoro con processi ad alta intensità di capitale. Ma perchè questo sia possibile è necessario un adeguato progresso tecnologico;
2) tuttavia, seguendo Schumpeter, Keynes riconosce che le innovazioni tendono ad affollarsi in determinati periodi piuttosto che distribuirsi uniformemente lungo il tempo;
3) sempre prendendo spunto dai lavori di Aftalion e J.Clark, Keynes mutua i concetti di investimenti indotti e investimenti autonomi. I primi sono quella parte degli investimeni totali che però è direttamente proporzionale al tasso di variazione del reddito (sottolineo tasso di variazione),
e comprendono tutti gli investimenti necessari per adeguare la
produzione al mutato livello di reddito e anche per sostituire
attrezzature e impianti obsoleti. I secondi invece non sono legati al reddito, bensì al progresso tecnologico, e corrispondono alle innovazioni schumpeteriane.
l meccanismo alla base della comprensione del ciclo economico secondo Keynes (nella formulazione esposta da A.Hansen) è perciò il seguente:
man mano che, avvicinandosi al reddito di piena occupazione, i risparmi
crescono più che proporzionalmente impedendo il formarsi di una domanda
aggregata sufficiente a sostenere i necessari investimenti; e man mano
che questi ultimi diventano sempre più inelastici ai movimenti
ribassisti dei tassi di interesse (concetti già visti nel precedente
articolo);e quindi anche i nuovi investimenti diventano meno innovativi e
redditizi per gli imprenditori; allora la difficoltà di sostituire
capitale al lavoro (punto 1 e 2, sopra) comporta che il tasso di aumento
del reddito deceleri (senza ancora diventare negativo); questa
riduzione nel ritmo di crescita causa anche una riduzione
nell’introduzione di investimenti indotti (punto 3).
Il
processo che aveva portato all’aumento del reddito si indebolisce fino
ad arrestarsi e infine, trainato dalla scarsa domanda aggregata, si
involve causando riduzione sia del reddito sia degli investimenti
indotti (che sono proporzionali alla variazione del reddito; in
tal caso non verrebbero neppure richiesti beni capitali per sostituire
quelli obsolescenti). Il processo di contrazione del prodotto interno
continuerebbe finchè la domanda effettiva si sia riallineata al minor
reddito, con maggiore disoccupazione.
Questo processo evidenzia un’altra caratteristica (limitante) del
keynesianismo: le fluttuazioni così come gli shocks sull’economia sono
esclusivamente veicolati attraverso la domanda aggregata,
mentre sono esclusi o piuttosto non trattati shocks dell’offerta
aggregata. Lo shock dei prezzi petroliferi degli anni 70 metterà in luce
questa mancanza.
Pros e cons
1)
Va notato che l’analisi keynesiana dimostra la possibilità che esista
nel sistema prevalentemente un equilibrio di sottoccupazione. Tuttavia
vale sottolineare che, se l’economia godesse di buona salute e il tasso di rendimento degli investimenti (in termini tecnici è il Tasso di rendimento interno, IRR internal rate of return, cui corrisponde la c.d. efficienza marginale del capitale) fosse
sufficientemente alto, allora il livello del tasso di interesse
necessario per stimolare maggiori investimenti potrebbe essere
sufficientemente alto a evitare l’inelasticità sopra descritta.
Rimarrebbe
il problema di assorbire la quantità sempre crescente di risparmio
senza dover necessariamente alzare i tassi per evitarne la detenzione in
forma liquida, ma a mio parere il problema non sarebbe grave, e questo
dimostrerebbe in linea di principio che fuori da situazioni di grave
stagnazione (e se sono disponibili innovazioni tecnologiche) sia
possibile raggiungere livelli vicini al reddito di piena occupazione.
Sul problema della c.d. Secular stagnation, come descritta da Hansen, sono interessato a scrivere un articolo a parte.
2)
parlando all’inizio del precedente articolo delle tre critiche rivolte
al liberismo, possiamo dire che la parte relativa alla trattazione delle
politiche economiche del demand management fu quella che maggiormente
fiorì, mentre rimasero in stato “larvale” quelle sulla inefficente
allocazione delle risorse (punto 2) e l’ineguale distribuzione del
reddito (punto 3). Solo di recente la distribuzione del reddito sta
diventando un problema oggetto di analisi e discussioni, e sono passati
80 anni!
Ma dietro c’è un semplice e cinico motivo: mentre l’intervento
dello Stato nell’economia non ne modifica la struttura fondamentale,
altri interventi correttivi delle storture viste devono per forza
affrontare il problema e incidere sul concetto stesso di capitalismo e
proprietà.
3) Nella teoria della
moneta keynesiana c’è una evidente incongruità rispetto al
comportamento microeconomico del singolo investitore: finché il
tasso di interesse non raggiunge il “livello normale” tutta la
ricchezza viene detenuta o in forma di titoli, oppure tutta in forma
liquida (moneta), comportamento che non rispecchia le normali scelte
allocative che vedono prediligere un “portafoglio” di attività in cui
sono comprese una certa quantità di attività finanziarie e una certa
quantità di moneta.
Inoltre Keynes considera un solo tasso, quello del mercato monetario
e quindi di breve-brevissimo termine, quale unico tasso da cui derivare
poi gli altri: non solo quindi quelli di tutta la struttura a termine
dei tassi (ma senza alcunchè dire nè sulle attese di inflazione nè sui
premi al rischio), ma anche quelli delle attività reali. Vedremo più
compiutamente questi problemi con l’analisi che ne farà J.Tobin.
4) Si è sentito spesso affermare che attualmente le maggiori economie mondiali (USA, Giappone, UK, Eurozona) siano in una situazione di trappola della liquidità (Krugman in testa al corteo). Dal punto di vista della originale definizione keynesiana del termine ci sono motivi per dubitarlo.
Per
Keynes infatti esiste un livello abbastanza basso del tasso di
interesse tale che tutti gli operatori detengono moneta al posto di
titoli, e questo impedisce che il tasso sul relativo mercato possa
ulteriormente scendere. Invece attualmente non si notano i
tipici effetti di fuga dall’investimento finanziario nè sono
vertiginosamente aumentate le dotazioni di moneta liquida, e la
preferenza per gli investimenti va tuttora alle scadenze lunghe dei
titoli governativi (mentre scrivo questo è il 25 luglio 2015).
Nè
è vero che la politica monetaria, arrivati a zero i tassi, abbia perso
ogni altro strumento per influenzare i premi al rischio e le attese di
inflazione per ulteriormente ridurre i tassi reali: esistono infatti i QE, che Keynes giustamente ignorava.
Secondo la mia opinione non
vanno confusi basso livello dei tassi da un lato, e dall’altro tassi
stabili per un lungo periodo (effetto della forward guidance). Anzi il fatto che attualmente le due cose accadano contemporaneamente ci è di aiuto: l’esperienza dimostra infatti che pur in presenza del zero level bound le contrattazioni di titoli proseguono, e pure a ritmo accresciuto per due motivi:
1) a causa del modesto e più rischioso rendimento delle alternative di
investimento reale, e 2) degli interventi di QE e altri ripetuti
interventi delle banche centrali sui mercati, che schiacciano anche i
premi al rischio creando occasioni di trading profittevole per gli
investitori.
Detto questo, è pur vero che –
secondo una definizione più moderna di trappola della liquidità –
l’azione delle banche centrali allo zero level bound sia fortemente
vincolata, addirittura ostacolata si sostiene, dal timore che il rialzo
dei tassi possa provocare la fuga dai mercati finanziari e questo generi
turbolenze che minino la stabilità finanziaria (già tra l’altro resa fragile dalla zero interest rate policy).
La
questione non è sterile e è ancora oggetto di discussione sulla
esistenza o meno di tale trappola. Molto dipenderà dalla riuscita degli
obiettivi inflazionistici delle politiche non convenzionali, ma allora
stiamo già uscendo dal terreno teorico keynesiano su cui l’economista di
Cambridge definì la “trappola”, data la sfuggente natura definitoria
dell’inflazione e della sua stretta dipendenza da fenomeni tanto
monetari quanto reali e dalle stesse aspettative del livello dei prezzi.
5) La
teoria delle fluttuazioni economiche evidenzia che la piena occupazione
possa essere raggiunta e mantenuta solo a condizione che il reddito
aumenti costantemente ad un certo ritmo. Ma per farlo è unanime
che venga sostenuto da una adeguata e crescente domanda per
investimenti (dato che i consumi sono meno che proporzionali rispetto al
reddito).
In tal modo però il sistema economico si trova sottoposto a forze contrapposte che si autoalimentano incontrollabilmente:
da un lato è necessario investire per mantenere alta la domanda,
dall’altro ogni investimento aggiuntivo che faccia aumentare il reddito
impone che gli investimenti, necessari per mantenerlo a livello,
crescano ancor di più. Si arriva in tal modo ad un livello
insostenibile, almeno per quanto riguarda la possibilità di spingere in
tal modo gli investimenti privati. Ecco allora che trova ulteriore giustificazione la spesa pubblica quale mezzo da affiancare agli investimenti privati. Ne parleremo approfonditamente in un prossimo articolo.
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