1. Il ritorno dello “stato stazionario”: la “stagnazione secolare”
La
teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato
stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista
statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation)
in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema
pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti
d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale,
ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo
Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al
centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così
sintetizzato:
«Sei
anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è
ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati
superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita
pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero.
Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di
nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le
misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una
diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A
questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers,
reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
Tale
concetto, come ha osservato Paul Krugman, afferma che «periodi come gli
ultimi 5 anni, e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a
zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione,
sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro»3 .
In
effetti, come noto, per quanti sforzi le autorità monetarie abbiano
fatto negli Stati Uniti e altrove, portando i tassi d’interesse a zero e
adottando misure «non convenzionali» di politica monetaria (quali
l’acquisto di titoli di Stato e di altri assets finanziari da
parte delle banche centrali), il risultato in termini di crescita è
stato deludente: negli Stati Uniti, pochi punti percentuali a fronte
della quadruplicazione della massa monetaria. Il tasso di crescita sia
reale che potenziale è, ovunque nel mondo sviluppato, ben al di sotto
dei livelli previsti prima dello scoppio della crisi.
Quanto
all'Europa, «in nessun’altra area del mondo sviluppato l’ipotesi di
“stagnazione secolare” riceve maggiori conferme che nell’eurozona», ha
osservato recentemente Paul De Grauwe4 . Nella zona euro,
ricorda Summers, «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a
quello stimato nel 2008», e lo stesso prodotto potenziale «è stato
rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento»5 . Ma il
problema è chiaramente di portata più generale: «la crescita economica
media negli Stati Uniti è stata appena del 2 per cento negli ultimi 5
anni, a dispetto del fatto di partire da una situazione estremamente
depressa» a causa della crisi. «Del pari, gli spread in Europa sono
scesi e i timori di una dissoluzione dell’Eurozona sono stati
accantonati, ma la crescita negli ultimi anni è stata glaciale e non se
ne prevede una rapida accelerazione»6 .
Per quale
motivo? Secondo Summers, perché già da ben prima della crisi il modello
di crescita era insostenibile, in quanto basato sulla finanza e sul
debito: «purtroppo, è chiaro che la difficoltà emersa negli ultimi anni
quanto al raggiungimento di una crescita adeguata era già presente da
molto tempo, ma era stata occultata da una finanziarizzazione
insostenibile». Di più: «è da circa 20 anni che negli Stati Uniti
l’economia non cresce più a un ritmo sano e sostenuta da una finanza
sostenibile». Per quanto riguarda l’Europa le cose non stanno in modo
molto diverso: anche in questo caso «retrospettivamente è chiaro che
molta della forza che avevano le economie della periferia prima del 2010
era basata sulla disponibilità di credito eccessivamente a buon prezzo,
e che gran parte della forza delle economie del nord Europa derivava da
esportazioni [verso i paesi periferici, NdR] finanziate in modo alla
lunga insostenibile»7 .
Di fatto, la crescita
pre-crisi, negli Stati Uniti come in Europa, è stata pagata con gli
squilibri finanziari che hanno poi fatto da detonatore alla crisi. Dopo
la crisi, le cose non sono cambiate: «se negli anni a venire si vorrà
mantenere la piena occupazione, i tassi d’interesse reali nel mondo
industrializzato dovranno probabilmente essere mantenuti più bassi di
quanto lo siano stati storicamente», e tutto questo «può avere
implicazioni importanti per la stabilità finanziaria»8 .
Ma
a cosa si deve questa maledizione della bassa crescita, che ha bisogno
di essere drogata finanziariamente, con la certezza di alimentare bolle
speculative? L'insieme dei contributi sulla "stagnazione secolare"
raccolti da Teulings e Baldwin non offre un punto di vista non diremo
unico, ma neppure convergente circa le cause di questa situazione. In
tal modo la «secular stagnation» finisce per essere più una descrizione di quanto sta accadendo alle nostre economie che una sua spiegazione.
2. La caduta tendenziale del saggio di profitto: la legge
L’attuale revival
dello stato stazionario può consentirci di guardare con qualche
maggiore attenzione a una delle sue declinazioni passate, quella offerta
da Marx con la sua teoria della caduta tendenziale del saggio di
profitto.
Secondo Marx la società capitalistica è caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione della profittabilità del capitale, ossia alla caduta del saggio di profitto.
Tale tendenza è basata sulla teoria del valore-lavoro. Per Marx il
valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il
lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare
il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun
lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo
valore, ma perderebbero anche il valore che possiedono). È il lavoro
umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi
profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro
supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza
lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore
supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro
affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione.
Proprio
a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore,
Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza
lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante.
Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione
capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in
macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro: si verifica, in
altri termini, «una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento»9 .
Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita
della «composizione organica del capitale». Si tratta di «un’altra
espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale
del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo
del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e
ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con
meno lavoro»10 . La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto
- ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo
investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale
costante) - diminuisca11 . Questa la legge
della caduta tendenziale del saggio di profitto. È quindi la crescente
produttività del lavoro sociale a far calare il saggio di profitto. E
questo calo per Marx ostacola a sua volta lo sviluppo del processo
capitalistico di produzione e favorisce il prodursi delle crisi:
«nella
misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del
capitale complessivo è il pungolo della produzione capitalistica, così
come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta
rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una
minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico.
(Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi,
capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in eccesso o
sovrappopolazione relativa)»12 .
3. La legge alla prova degli ultimi decenni
Se
esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è
senz'altro riscontrabile. Nel periodo che va dal 1973 al 2008, il saggio
di crescita del prodotto interno lordo pro capite (un proxy del
saggio di profitto) è stato all’incirca la metà del saggio di crescita
registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina,
esso sarebbe ancora inferiore13 . E all’interno di questa
stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni.
La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti14 ,
e il decennio successivo si è chiuso con la peggiore crisi mondiale
degli ultimi ottanta anni. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è
mai cresciuto ad un ritmo inferiore al 4 per cento; dal 1991 in poi, in
nessun anno è cresciuto ad un ritmo superiore al 4 per cento, ed è quasi
sempre risultato molto inferiore15. Dopo il 2008, ci dice
ora Summers, le cose non sono andate meglio: la crescita del pil nei
cosiddetti paesi emergenti non è riuscita a compensare il brusco calo, e
poi l’affannoso e stentato recupero nei paesi a capitalismo maturo.
Per
quanto riguarda specificamente il saggio di profitto, la più completa
ricerca in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di
profitto negli ultimi decenni e il suo convergere su livelli simili nei
principali Paesi dell’Occidente industrializzato, sia pure con andamenti
tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati riguardanti
Germania, Francia e Italia, che evidenziano un dimezzamento del saggio
di profitto tra i primi anni Sessanta e i primi anni del nuovo
millennio.16 Dopo la crisi, a una moderata ripresa in
Germania hanno fatto riscontro dati molto deludenti in Francia e
soprattutto in Italia. Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente
più elevati del saggio di profitto, evidenzia una diminuzione ancora
maggiore dal 1970 a oggi.
Stati Uniti e Gran Bretagna, che
muovevano invece da livelli più bassi, sembrano evidenziare una relativa
ripresa dagli anni Ottanta al 200717 . Però, a dispetto di
una diffusa convinzione, negli ultimi decenni neppure gli Stati Uniti
hanno conosciuto un boom dei profitti. Tutt’altro. Se si considerano i
profitti medi delle imprese americane prima delle tasse dopo il 1940, si
osserva una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di
profitto era del 28 per cento, dal 1957 al 1980 è stato del 20 per
cento, per scendere ancora al 14 per cento nel periodo 1981-200418 .
Se prendiamo il periodo dal 1997 al 2008, osserviamo una caduta del
saggio di profitto del 12 per cento, e per contro una crescita della
composizione organica del capitale del 22 per cento. La relazione
inversa tra i due fattori è chiara anche su periodi più lunghi: nei 45
anni tra il 1963 e il 2008 il saggio di profitto negli Stati Uniti è
diminuito del 21 per cento, a fronte di una crescita della composizione
organica del capitale del 51 per cento (mentre nello stesso periodo il
saggio del plusvalore è cresciuto del 5 per cento)19 .
4. Fattori di controtendenza
Per
intendere appieno il significato della caduta del saggio di profitto in
Marx e le sue implicazioni per l’interpretazione dei più recenti
sviluppi del capitalismo è necessario aggiungere che si tratta di una tendenza
alla diminuzione e non di un crollo – tantomeno un crollo improvviso.
Questo perché, come osserva lo stesso Marx, la diminuzione del saggio di
profitto può essere in parte controbilanciata da «fattori di
controtendenza (conteragirende Einflüße), che frenano e contrastano l’efficacia della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza»20 .
I fattori di controtendenza indicati da Marx sono stati tutti operanti negli ultimi decenni, con maggiore o minore intensità.
1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè
accrescimento del plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento
del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e l’intensificazione del
lavoro e l’aumento della produttività del lavoro (plusvalore relativo).
Per Marx questo fattore consente di fare da contrappeso alla caduta del
saggio di profitto aumentando la quota di lavoro non pagato, ossia il
saggio del plusvalore21 .
2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx questa è «una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto»22 . Cosa significa questa compressione in concreto? Per intenderlo bisogna partire da questo: per Marx «il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro». D’altra parte, però, questo valore è storicamente determinato:
«il
volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di
soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, dipende quindi in
gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra l’altro, anche
ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle
esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi
lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forzalavoro, al
contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale»23 .
Sotto
questo profilo, è indubbio che oggi in un paese a capitalismo avanzato
il valore della forza-lavoro (ossia l’insieme dei mezzi di sussistenza
ritenuti socialmente accettabili) è superiore a quello
dell’Ottocento. Ma è altrettanto indubbio che la riduzione dei salari
avvenuta negli ultimi anni collochi i salari attuali in molti casi
nettamente al di sotto del loro valore storico medio dei 2-3
decenni precedenti. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto non
soltanto del salario diretto (il netto in busta paga), ma anche della
riduzione che hanno conosciuto le varie componenti del salario indiretto
e differito attraverso la generalizzata diminuzione della protezione
sociale, la privatizzazione dei sistemi pensionistici, e così via. Del
resto, il prezzo che il capitalista paga per l’utilizzo della
forza-lavoro di un lavoratore precario che non può permettersi un
affitto e deve vivere presso i genitori è oggi inferiore al prezzo delle
sue condizioni di riproduzione24 .
3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx osserva:
«la
stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante in
rapporto a quello variabile, riduce attraverso l’accresciuta forza
produttiva del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e
quindi impedisce che il valore del capitale costante – che pure cresce
continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce il volume
materiale del capitale costante, cioè l’entità materiale dei mezzi di
produzione che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro»25 .
Ne
consegue che in realtà il mutamento della proporzione tra capitale
variabile e capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si
potrebbe desumere dall’aumento dell’entità materiale degli elementi (macchinari ecc.) che compongono quest’ultimo.
4) La sovrappopolazione relativa. Essa
si è manifestata in particolare sotto forma di pressione di un
gigantesco esercito industriale di riserva presente nei paesi emergenti.
L’accentuata concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor
costo della forza-lavoro (e, in misura molto minore, l’immigrazione di
manodopera a basso costo) ha infatti esercitato una fortissima influenza
calmieratrice sui salari dei Paesi industrialmente più avanzati.
5) Il commercio estero. Secondo
Marx il commercio estero rappresenta a più riguardi un fattore di
controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto, almeno nel
breve periodo.
In primo luogo, grazie ad esso il volume della
produzione si accresce consentendo economie di scala e quindi una
riduzione dei costi unitari: questo «rende più a buon mercato tanto gli
elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente
il capitale variabile (mezzi di sussistenza necessari)»26 .
In tal modo il commercio estero agisce in modo favorevole all’aumento
del saggio di profitto, per un verso accrescendo il saggio del
plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e quindi una
maggior parte della giornata lavorativa può essere rappresentata da
lavoro non pagato) e per un altro diminuendo il valore del capitale
costante (la qual cosa rallenta l’aumento della composizione organica
del capitale).
In secondo luogo, la superiorità tecnologica delle
merci prodotte in un determinato paese può consentire un sovrapprofitto
nel fare concorrenza a merci prodotte altrove con tecnologia meno
avanzata: «i capitali investiti nel commercio estero possono fruttare un
saggio di profitto superiore» – osserva Marx – perché qui «si concorre
con merci che sono prodotte da altri paesi con condizioni di produzione
meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei paesi concorrenti»27 .
In
terzo luogo, con riferimento ai «capitali investiti in colonie» (oggi
gli investimenti diretti esteri in paesi emergenti), Marx osserva che
«essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei
paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo […] vi è un maggiore sfruttamento del lavoro»28 .
Gli
effetti di medio-lungo periodo del commercio estero, invece, non sono
così favorevoli al saggio di profitto. Infatti «lo stesso commercio
estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la
diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e
produce d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha
di nuovo alla lunga l’effetto opposto»29 .
Se una peculiarità della situazione attuale va segnalata, essa riguarda l’ampliamento del commercio non soltanto in termini di estensione spaziale, ma anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera del commercio, ossia di ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. la tendenza alla colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del capitale.
6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Questo fattore, al quale Marx si limita ad accennare al termine della propria trattazione dei fattori di controtendenza30 ,
consiste nella destinazione di una parte crescente del capitale a
capitale produttivo d’interesse, ossia all’investimento in obbligazioni o
azioni (più in generale, in attività creditizie e finanziarie).
È
questo il fattore che ha costituito negli ultimi decenni, sino allo
scoppio della crisi nel 2007, il più potente fattore di contrasto alla
caduta del saggio di profitto.
5. Capitale produttivo d’interesse, finanza e crisi
Si
tratta di un processo decisivo per i paesi a capitalismo maturo dagli
anni Ottanta in poi. La cosiddetta “finanziarizzazione” ha avuto una
triplice, importantissima funzione:
1) mitigare le conseguenze della
riduzione dei redditi dei lavoratori;
2) allontanare nel tempo lo
scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria;
3) fornire al
capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative
d’investimento a elevata redditività.
In questo modo essa ha rallentato –
e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta del saggio di
profitto.
Consideriamo più da vicino le tre funzioni menzionate.
1)
Bolle speculative (azionaria e immobiliare) e sviluppo del credito al
consumo hanno creato un effetto ricchezza e consentito anche a famiglie a
basso reddito di contrarre debiti relativamente a buon mercato. In tal
modo il tenore di vita delle persone con redditi mediobassi ha
cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del
reddito da lavoro. Il mondo ideale dei capitalisti: lavoratori che
vedono diminuire il proprio salario e però consumano come e più di
prima. Con l'unico difetto di essere un modello insostenibile nel lungo
periodo.
2) Lo sviluppo di credito e finanza dava al tempo stesso
respiro alle imprese di tutto il mondo. Soprattutto a quelle di settori
maturi. Esse hanno fatto un massiccio utilizzo del credito al consumo31 ,
hanno potuto riscadenzare i propri debiti a condizioni di tasso
eccezionalmente favorevoli, hanno emesso azioni a costi decrescenti,
grazie all’afflusso crescente di denaro sui mercati finanziari. Infine
hanno fatto profitti da operazioni finanziarie.
3) La speculazione
come mezzo per la valorizzazione del capitale. La possibilità di
effettuare attività speculative per ottenere livelli di profitto
altrimenti impossibili: questa la terza grande funzione del credito e
della finanza in questi anni e la strada maestra per la redditività
imboccata negli anni precedenti la crisi anche da molte imprese
manifatturiere, che hanno così posto rimedio alla crisi di
valorizzazione e del capitale nei settori originari di attività. In
effetti, se si esamina l'andamento dei profitti in gran parte dei paesi
capitalistici avanzati si osserva che a partire dalla fine degli anni
Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere
vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l’andamento del Pil
quanto con i profitti provenienti da altre attività: eclatanti i casi
degli Stati Uniti, in cui nei primi anni Ottanta il settore finanziario
vantava il 10% dei profitti totali, proporzione salita al 40% nel 2007, e
ancora di più quello del Regno Unito, dove tale proporzione nel 2008
aveva raggiunto addirittura l’80%32.
In base alla ricostruzione
che si è proposta, la stessa ampiezza e gravità della crisi scoppiata
nel 2007 non è affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il
precipitato di oltre un trentennio in cui il saggio di profitto è
stato alimentato dalla finanziarizzazione su larga scala, ossia da un
ruolo sempre più preponderante del capitale produttivo d’interesse.
Se si interpreta, con Riccardo Bellofiore, la caduta del saggio di
profitto come una «meta-teoria delle crisi», una sorta di cornice
concettuale comprensiva entro la quale vanno ricostruite le forze e i
fattori volta per volta scatenanti delle singole crisi33 , è
facile vedere come la crisi del 2007 sia stata innescata proprio da quel
capitale produttivo d’interesse la cui crescente importanza aveva
rappresentato nei decenni precedenti il principale fattore di
controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Il detonatore della
crisi è stato infatti rappresentato dallo scoppio della bolla
finanziaria che si era creata grazie all’accumulo di debito privato.
6. Dopo la crisi: business as usual oppure...?
La
crisi iniziata nel 2007 ha assunto col passare del tempo le
caratteristiche di una vera e propria crisi generale, provocando una
significativa distruzione di capitale su scala mondiale. Non sembra però
che tale distruzione sia stata sufficiente a ripristinare condizioni di
migliore redditività del capitale investito e quindi a far ripartire
l’accumulazione del capitale. A fronte di politiche monetarie
ultra-espansive e di una socializzazione delle perdite di dimensioni
inaudite, i tassi di crescita e di redditività media post-crisi sono
evidentemente insoddisfacenti.
D'altra parte le politiche
economiche e monetarie adottate dai principali paesi capitalistici
avanzati, pur tra profonde differenze, hanno un comune presupposto, e
cioè la convinzione di potere tornare allo stesso modello di crescita
precedente la crisi, imperniato sul capitale produttivo d’interesse. Per
contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto la soluzione
individuata è insomma quella di perpetuare l’egemonia del capitale
produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre –
e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno
condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo.
A
onor del vero Summers accenna – con comprensibile delicatezza – anche a
una soluzione alternativa per far ripartire la crescita:
«Alvin
Hansen enunciò il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli
anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e
successivo alla seconda guerra mondiale. È senz’altro possibile che si
produca qualche evento esogeno di grande portata in grado di aumentare
la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso
di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale e da
rendere irrilevanti le preoccupazioni che ho espresso. Guerra a parte,
non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi»34 .
Come noto, l'analisi marxiana delle crisi conduce a conclusioni ben diverse. Per Marx la crisi è da un lato
parte integrante del funzionamento normale del modo di produzione
capitalistico, è più precisamente il modo attraverso cui,
periodicamente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Per ciò stesso,
la crisi secondo Marx è però d’altra parte anche qualcosa di diverso, e cioè un sintomo:
«nelle
contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente
inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai
rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di
capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come
condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui
gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a
un livello superiore di produzione sociale»35 .
Negli
ultimi decenni, e in particolare dopo la fine dell’Unione Sovietica e
delle “democrazie popolari” dell’Est europeo, la possibilità stessa di
un «livello superiore di produzione sociale» è stata rifiutata quale
astratto utopismo, tendenzialmente totalitario. È però la realtà stessa
del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni a
riproporre la necessità di quell'obiettivo.
Se dobbiamo credere a Summers, il rilancio dell'obiettivo del socialismo è cosa oggi non soltanto necessaria, ma anche urgente.
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