Trascorso del tempo dall'accordo tra Troika e Grecia si può provare a trarre qualche considerazione di più ampio respiro, provando a uscire dalla logica manichea traditore versus eroe popolare, capitolazione versus vittoria. Senza fare/farci sconti per capire cosa comporta quell'accordo e, in particolare, per considerare cosa fare per poter cambiare qui e ora. Questa terribile vicenda, infatti, pone seri problemi per una prospettiva di trasformazione. Dopo anni di marginalità su scala internazionale il cambiamento è parso alla portata nel piccolo paese ellenico, o, perlomeno, si è posta la concreta possibilità di iniziare un processo di controtendenza, rimettendo in discussione debito e austerità, cioè i pilastri della costituzione materiale del neoliberismo sul piano europeo. Le conseguenze di ciò che è accaduto, dunque, ricadono sull'agire politico di molteplici paesi.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante trattativa di luglio fosse necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di una sua realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti esso sia stato banalizzato. Ridurre la complessità del contesto ellenico (ma che potrebbe riguardare molti altri paesi, almeno per diverse questioni) e perorare la causa del piano B senza comprenderne o sottovalutandone le difficoltà implicite rischia di diventare un autogol, in quanto non consente un'azione politica ad ampio raggio, riduce i soggetti sociali con cui interloquire, depotenzia in definitiva la rottura. Inoltre se non si hanno chiari i suoi punti deboli è più facile che esso si risolva in un fallimento anche dal punto di vista semplicemente tecnico, oltre che politico.
Per i fautori storici dell'uscita dall'euro il caso greco è l'ultima e più clamorosa dimostrazione della bontà delle loro tesi, tanto da non capacitarsi di chi ancora esprime dubbi e perplessità. L'uscita dalla moneta unica per questi costituisce non solo il punto di partenza, ma per molti versi anche quello di arrivo. Se i mali, in particolare dei paesi periferici, nascono quasi tutti dall'avvento dell'euro, sgomberare il campo dalla moneta unica significa di per sé giocare su un terreno più congeniale. Tale approccio non solo rimuove tutta la dimensione sovranazionale dei problemi che abbiamo di fronte, dall'ipercompetizione che destruttura il mercato del lavoro e lo stato sociale fino ai processi di privatizzazione e mercatizzazione di sempre più ampie aree di prodotti e di vita stessa. Ma rimuove persino le difficoltà più dirimenti sul piano monetario.
Le difficoltà di un'uscita dall'euro, indubbiamente, vengono ingigantite dagli estimatori dello status quo mentre Alberto Bagnai sottolinea, ad esempio, come i problemi di un aumento del costo della vita per un paese che dovesse svalutare la sua moneta non sono così stringenti e meccanici. Se si svaluta del 30% i prezzi non aumentano altrettanto, in passato si è registrato, infatti, l'intervento di una serie di meccanismi di riequilibrio tra consumi e prezzi tale da ridurre l'impatto della svalutazione.
Ma ciò che ha messo in evidenza la Grecia è che durante la rottura si apre una fase di crisi di liquidità. Non è solo un problema tecnico, le banche falliscono, sono necessari salvataggi pubblici e anche processi di rinazionalizzazione di parte del segmento del credito. Ciò si può fare immettendo una nuova moneta, congelando i movimenti di capitali e facendo ripartire progressivamente l'economia su una scala minore. Fin qui tutto è possibile.
Tsipras dopo l'accordo ha affermato che se avesse deciso di alzarsi dal tavolo e andarsene «in quel preciso istante sarebbero crollate le banche greche. Questo crollo avrebbe significato non il taglio dei depositi nei conti correnti ma che non ci sarebbero più stati conti correnti»[1]. Con questa affermazione ha ingigantito i problemi che il suo paese avrebbe dovuto immediatamente affrontare, se avesse deciso perlomeno di dare vita a una seconda moneta ad uso interno. Ma creare moneta, come travisano spesso una parte di keynesiani, non è operazione che può avvenire illimitatamente e senza alcuna verifica, specie per un piccolo paese con poche risorse interne. I sostenitori dello stampar moneta, in piccolo, ripropongono le medesime politiche monetarie espansive che le varie banche centrali in questa fase stanno applicando a livello globale. I successi risultano al di sotto delle attese, i limiti di una tale scelta sarebbero ancor più stringenti per un paese periferico.
Per la Grecia i nodi di ordine macroeconomico sarebbero giunti al pettine presto. Come evidenzia Emiliano Brancaccio l'uscita dall'euro avrebbe dovuto essere accompagnata da un minimo di politica espansiva, comportando per un periodo di certo non breve «un aumento del valore delle importazioni e quindi dell'indebitamento verso l'estero. La Grecia, dunque, avrebbe avuto bisogno di un sostegno finanziario esterno di due o tre anni per gestire la transizione dalla vecchia alla nuova moneta»[2]. Una rottura avrebbe comportato il ripudio parziale del debito sovrano, una scelta sostenibile per un paese in avanzo primario, almeno nell'immediato, ma la Grecia non è un paese stabilmente in avanzo primario e, soprattutto, ha anche un problema a livello della bilancia commerciale, tra entrate e uscite. Torniamo così alla questione degli aiuti.
Il giornalista economico David Wolman, in un testo che auspica la fine del contante, descrive come in America prima dell'indipendenza le economie locali fossero in carenza cronica di denaro circolante, poiché i coloni importavano molti beni dall'Europa, le monete «che entravano nei loro borsellini riattraversavano ben presto l'Atlantico»[3]. Riuscirono ad aggirare il problema immettendo progressivamente moneta cartacea, non più legata al valore di un metallo prezioso. Stamparono moneta differendo il momento della verifica del suo effettivo valore, lasciando a lungo aperta, specialmente negli Usa, la controversia «tra la paura della carta moneta e i vantaggi della valuta nazionale»[4]. Tale gioco degli specchi, protrattosi in buona misura fino a ora, non è detto che possa riuscire ancora a lungo nemmeno per la principale potenza economica.
Durante le trattative gli esponenti del governo greco affermano, credibilmente, che i potenziali nuovi partner politici e commerciali non hanno garantito alcun aiuto significativo. Un aiuto che non sarebbe stato privo di contropartite, ma che comunque non valeva la pena fornire al prezzo di una ulteriore destabilizzazione a livello europeo. Qui torna anche il quadro sovranazionale e l'incatenamento dell'economia mondiale. Russia e, soprattutto, Cina non avevano nulla da guadagnare dalle fibrillazioni dell'euro. Altra cosa sarebbe stato, dentro un quadro pacificato, poter acquistare a prezzo di saldo infrastrutture. In questo periodo neppure la geopolitica fa miracoli. Il nodo che pone Brancaccio, fautore egli stesso di una rottura per il caso greco, è lasciato aperto, in quanto di non facile soluzione. Ciò dimostra che il batter moneta non sia una panacea, che esistono condizioni economiche da fronteggiare perché una moneta risulti poi sostenibile nel tempo. E dimostra come non sia semplicemente ipotizzabile un regime di svalutazione competitiva per far ripartire un paese, come i processi globali stringano le economie nazionali, come si debbano affiancare processi di sottrazione ai vincoli di mercato e di alternative economiche più profonde.
E allora?
Insomma se le contraddizioni principali restano strutturali e globali non è possibile risolverle sul piano locale. Ogni tentativo finisce per cozzare con tale dimensione dei problemi. Su questo rimane la distanza con l'impostazione no euro. Gli espedienti monetari non riescono a risolvere le aporie della contemporaneità, rischiano solo di far scivolare verso una logica competitiva e mercantilista in scala minore. Ma il caso greco ha costituito una prima occasione concreta di cambiamento con dilemmi di non facile soluzione. Non possiamo cavarcela dicendo che non c'erano i rapporti di forza sufficienti oppure che il rischio era quello di fare il gioco del nemico, cioè di uscire dall'euro come chiedeva a gran voce il blocco concentrato attorno alla Germania.
Alla domanda di trasformazione costituita da Syriza prima e soprattutto dal risultato del referendum dopo non si può rispondere con l'accettazione sostanziale dei consueti diktat delle classi dirigenti europee. Provare a valorizzare anche in questo caso la logica del meno peggio costituisce un'immensa sproporzione rispetto alle spinte provenienti dalla società greca da un lato e dalla postazione di potere raggiunta per la prima volta da una forza dichiaratamente contro l'austerità dall'altro.
Il Terzo Memorandum rischia così di sancire oltre che la fine della socialdemocrazia, anche quella di una qualsivoglia sinistra. La socialdemocrazia, come afferma Jacques Sapir, «ha contribuito a schiacciare un tentativo di costruire un'altra direzione economica in Europa»[5], mentre la sinistra non è riuscita a ipotizzare vie di uscita da questa operazione. C'è stata una perdita di senso drammatica se si considera che prima delle elezioni Syriza dichiarava: «Noi ci assumiamo la responsabilità di varare un piano di rinascita nazionale che sostituirà il memorandum della Troika appena saremo al governo, prima e indipendentemente dal risultato dei negoziati con la Ue»[6]. Oppure immediatamente dopo il clamoroso risultato il governo sosteneva l'indisponibilità a proseguire nelle politiche concordate nei precedenti memorandum per poter ottenere l'ultima tranche di aiuti da 7 miliardi di euro a fine febbraio. Dal potenziale rifiuto di un ulteriore aiuto da 7 miliardi si è passati a concordarne uno da 86.
Il problema così è sulla natura del cambiamento e persino sulla sua possibilità. Si dice che non vi erano i rapporti di forza sufficienti, ma in realtà si pensa che non vi fossero le condizioni finanziarie per reggere una rottura. Ma questa è la strada possibile? È ipotizzabile disarcionare la finanza a mezzo della finanza? Oppure il cambiamento deve battere strade diverse? Certo si poteva immaginare una maggiore arrendevolezza nella zona euro ma, una volta registrata l'intransigenza, era necessario imboccare comunque la strada del cambiamento oppure dichiararne apertamente l'impraticabilità, con tutto ciò che ne consegue?
A tal proposito non si può sottacere il clamoroso significato del risultato referendario. I greci a netta maggioranza hanno detto non solo No (Oxi) ai piani europei, ma hanno dimostrato che erano disposti a correre il rischio che le code ai bancomat si allungassero ancora o peggio, come sosteneva l'intero establishment continentale, che non vi fossero più poiché sarebbero finiti i soldi nelle banche. Una tale dimostrazione di determinazione verso il cambiamento da far risultare incomprensibile come non sia stata compresa e valorizzata dopo il referendum stesso.
Sul cambiamento c'è una sorta di fraintendimento tra quelli che vi aspirano. Si parla di un ritorno della politica, oggi dominata dall'economia, ma al primo passaggio concreto di verifica si torna alla bismarkiana politica come «arte del possibile», dove però il possibile si esaurisce in ciò che soddisfa l'economia dominante. Qui sembra emergere una sottovalutazione di come il neoliberismo sia giunto in profondità. In La nuova ragione del mondo[7] Pierre Dardot e Christian Laval descrivono il potere intrinseco dei meccanismi economici dominanti, come essi abbiano ricadute su tutte le sfere del vivere sociale, quale sia in definitiva la loro efficienza, la loro presa, la loro razionalità. Non si può ipotizzare di cambiare tale quadro senza traumi, a meno che non si pensi di rimanere nell'ambito della propaganda o peggio nell'arroccamento su posizioni consolidate.
Alain Badiou considerava il tentativo di cambiare sviluppatosi in Grecia come «una vera avventura»[8], ma appunto nelle avventure non vi sono assicurazioni sulla riuscita, il finale felice non è garantito. Dopo decenni di strapotere neoliberista e di involuzioni politico-sociali non è possibile intendere il cambiamento se non come un tentativo pieno di incognite e di sperimentazioni in mare aperto. Un dirigente di Syriza deluso dall'accordo ha affermato che «è meglio un salto nel vuoto che uno nel nulla». Questo è il vero tema su cui vale la pena riflettere. Il caso greco per la prima volta ha messo concretamente a tema il cambiamento, non si tratta di dare pagelle a Syriza e meno che mai di accusare di tradimento i suoi dirigenti, ma di ragionare sui dilemmi del mancato avvio di un processo di cambiamento.
Cosa faremmo in Italia o negli altri paesi periferici se dovessimo fronteggiare una condizione simile? In cosa consiste il cambiamento, stante le attuali condizioni (queste sì, considerate realisticamente e non confuse con i nostri desiderata)? Invece di parlare di «sinistra di governo», definizione che ribalta maldestramente un obiettivo in un profilo identitario, bisognerebbe comprendere davvero come si esce dall'attuale economia dominante, ma non al prezzo di una sua riproposizione gestita in maniera più illuminata. Le difficoltà sono enormi, ma al momento le idee ancora poche, si tratta di riconoscerlo e non di far finta di niente. L'alternativa è problematica da pensare e mettere in pratica, ma rimuoverla dall'orizzonte non aiuta a darci senso, tra cambiamento e conservazione dell'esistente tertium non datur. Il rischio è condannarci alla marginalità perenne. Una condanna a questo punto piuttosto meritata se continuiamo ad auto-censurarci, aspettando tempi migliori che dovrebbero scaturire da non si sa cosa.
NOTE
[1] Dellolanes D., Il contrattacco possibile di Syriza, in «il manifesto», 12 agosto 2015.
[2] Russo Spena G. intervista Brancaccio E., Serve un “piano B”, la sinistra impari dalla debacle di Tsipras, in www.temi.repubblica.it/micromega-online, 16 luglio 2015.
[3] Wolman D., The End of Money, Laterza, Bari, p. 25.
[4] Ibidem, p. 26.
[5] Sapir J., La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra, in www.vocidallestero.it, 24 luglio 2015.
[6] Livini E., Addio austerity, ecco il programma economico di Syriza, in www.repubblica.it, 7 gennaio 2015.
[7] Dardot P., Laval C., La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.
[8] Badiou A., Onze points mélancolique sur le devenir de la situation grecque, in www.liberation.fr, 20 agosto 2015.
Il piano B e le sue banalizzazioni
Con tutte le cautele del caso e la consapevolezza di non poter impartire lezioni ai greci, penso che nell'estenuante trattativa di luglio fosse necessario prevedere un piano B. Prima di spiegare perché fosse necessario preferisco concentrarmi sulle difficoltà di una sua realizzazione. Non mi convince, infatti, come da diverse parti esso sia stato banalizzato. Ridurre la complessità del contesto ellenico (ma che potrebbe riguardare molti altri paesi, almeno per diverse questioni) e perorare la causa del piano B senza comprenderne o sottovalutandone le difficoltà implicite rischia di diventare un autogol, in quanto non consente un'azione politica ad ampio raggio, riduce i soggetti sociali con cui interloquire, depotenzia in definitiva la rottura. Inoltre se non si hanno chiari i suoi punti deboli è più facile che esso si risolva in un fallimento anche dal punto di vista semplicemente tecnico, oltre che politico.
Per i fautori storici dell'uscita dall'euro il caso greco è l'ultima e più clamorosa dimostrazione della bontà delle loro tesi, tanto da non capacitarsi di chi ancora esprime dubbi e perplessità. L'uscita dalla moneta unica per questi costituisce non solo il punto di partenza, ma per molti versi anche quello di arrivo. Se i mali, in particolare dei paesi periferici, nascono quasi tutti dall'avvento dell'euro, sgomberare il campo dalla moneta unica significa di per sé giocare su un terreno più congeniale. Tale approccio non solo rimuove tutta la dimensione sovranazionale dei problemi che abbiamo di fronte, dall'ipercompetizione che destruttura il mercato del lavoro e lo stato sociale fino ai processi di privatizzazione e mercatizzazione di sempre più ampie aree di prodotti e di vita stessa. Ma rimuove persino le difficoltà più dirimenti sul piano monetario.
Le difficoltà di un'uscita dall'euro, indubbiamente, vengono ingigantite dagli estimatori dello status quo mentre Alberto Bagnai sottolinea, ad esempio, come i problemi di un aumento del costo della vita per un paese che dovesse svalutare la sua moneta non sono così stringenti e meccanici. Se si svaluta del 30% i prezzi non aumentano altrettanto, in passato si è registrato, infatti, l'intervento di una serie di meccanismi di riequilibrio tra consumi e prezzi tale da ridurre l'impatto della svalutazione.
Ma ciò che ha messo in evidenza la Grecia è che durante la rottura si apre una fase di crisi di liquidità. Non è solo un problema tecnico, le banche falliscono, sono necessari salvataggi pubblici e anche processi di rinazionalizzazione di parte del segmento del credito. Ciò si può fare immettendo una nuova moneta, congelando i movimenti di capitali e facendo ripartire progressivamente l'economia su una scala minore. Fin qui tutto è possibile.
Tsipras dopo l'accordo ha affermato che se avesse deciso di alzarsi dal tavolo e andarsene «in quel preciso istante sarebbero crollate le banche greche. Questo crollo avrebbe significato non il taglio dei depositi nei conti correnti ma che non ci sarebbero più stati conti correnti»[1]. Con questa affermazione ha ingigantito i problemi che il suo paese avrebbe dovuto immediatamente affrontare, se avesse deciso perlomeno di dare vita a una seconda moneta ad uso interno. Ma creare moneta, come travisano spesso una parte di keynesiani, non è operazione che può avvenire illimitatamente e senza alcuna verifica, specie per un piccolo paese con poche risorse interne. I sostenitori dello stampar moneta, in piccolo, ripropongono le medesime politiche monetarie espansive che le varie banche centrali in questa fase stanno applicando a livello globale. I successi risultano al di sotto delle attese, i limiti di una tale scelta sarebbero ancor più stringenti per un paese periferico.
Per la Grecia i nodi di ordine macroeconomico sarebbero giunti al pettine presto. Come evidenzia Emiliano Brancaccio l'uscita dall'euro avrebbe dovuto essere accompagnata da un minimo di politica espansiva, comportando per un periodo di certo non breve «un aumento del valore delle importazioni e quindi dell'indebitamento verso l'estero. La Grecia, dunque, avrebbe avuto bisogno di un sostegno finanziario esterno di due o tre anni per gestire la transizione dalla vecchia alla nuova moneta»[2]. Una rottura avrebbe comportato il ripudio parziale del debito sovrano, una scelta sostenibile per un paese in avanzo primario, almeno nell'immediato, ma la Grecia non è un paese stabilmente in avanzo primario e, soprattutto, ha anche un problema a livello della bilancia commerciale, tra entrate e uscite. Torniamo così alla questione degli aiuti.
Il giornalista economico David Wolman, in un testo che auspica la fine del contante, descrive come in America prima dell'indipendenza le economie locali fossero in carenza cronica di denaro circolante, poiché i coloni importavano molti beni dall'Europa, le monete «che entravano nei loro borsellini riattraversavano ben presto l'Atlantico»[3]. Riuscirono ad aggirare il problema immettendo progressivamente moneta cartacea, non più legata al valore di un metallo prezioso. Stamparono moneta differendo il momento della verifica del suo effettivo valore, lasciando a lungo aperta, specialmente negli Usa, la controversia «tra la paura della carta moneta e i vantaggi della valuta nazionale»[4]. Tale gioco degli specchi, protrattosi in buona misura fino a ora, non è detto che possa riuscire ancora a lungo nemmeno per la principale potenza economica.
Durante le trattative gli esponenti del governo greco affermano, credibilmente, che i potenziali nuovi partner politici e commerciali non hanno garantito alcun aiuto significativo. Un aiuto che non sarebbe stato privo di contropartite, ma che comunque non valeva la pena fornire al prezzo di una ulteriore destabilizzazione a livello europeo. Qui torna anche il quadro sovranazionale e l'incatenamento dell'economia mondiale. Russia e, soprattutto, Cina non avevano nulla da guadagnare dalle fibrillazioni dell'euro. Altra cosa sarebbe stato, dentro un quadro pacificato, poter acquistare a prezzo di saldo infrastrutture. In questo periodo neppure la geopolitica fa miracoli. Il nodo che pone Brancaccio, fautore egli stesso di una rottura per il caso greco, è lasciato aperto, in quanto di non facile soluzione. Ciò dimostra che il batter moneta non sia una panacea, che esistono condizioni economiche da fronteggiare perché una moneta risulti poi sostenibile nel tempo. E dimostra come non sia semplicemente ipotizzabile un regime di svalutazione competitiva per far ripartire un paese, come i processi globali stringano le economie nazionali, come si debbano affiancare processi di sottrazione ai vincoli di mercato e di alternative economiche più profonde.
E allora?
Insomma se le contraddizioni principali restano strutturali e globali non è possibile risolverle sul piano locale. Ogni tentativo finisce per cozzare con tale dimensione dei problemi. Su questo rimane la distanza con l'impostazione no euro. Gli espedienti monetari non riescono a risolvere le aporie della contemporaneità, rischiano solo di far scivolare verso una logica competitiva e mercantilista in scala minore. Ma il caso greco ha costituito una prima occasione concreta di cambiamento con dilemmi di non facile soluzione. Non possiamo cavarcela dicendo che non c'erano i rapporti di forza sufficienti oppure che il rischio era quello di fare il gioco del nemico, cioè di uscire dall'euro come chiedeva a gran voce il blocco concentrato attorno alla Germania.
Alla domanda di trasformazione costituita da Syriza prima e soprattutto dal risultato del referendum dopo non si può rispondere con l'accettazione sostanziale dei consueti diktat delle classi dirigenti europee. Provare a valorizzare anche in questo caso la logica del meno peggio costituisce un'immensa sproporzione rispetto alle spinte provenienti dalla società greca da un lato e dalla postazione di potere raggiunta per la prima volta da una forza dichiaratamente contro l'austerità dall'altro.
Il Terzo Memorandum rischia così di sancire oltre che la fine della socialdemocrazia, anche quella di una qualsivoglia sinistra. La socialdemocrazia, come afferma Jacques Sapir, «ha contribuito a schiacciare un tentativo di costruire un'altra direzione economica in Europa»[5], mentre la sinistra non è riuscita a ipotizzare vie di uscita da questa operazione. C'è stata una perdita di senso drammatica se si considera che prima delle elezioni Syriza dichiarava: «Noi ci assumiamo la responsabilità di varare un piano di rinascita nazionale che sostituirà il memorandum della Troika appena saremo al governo, prima e indipendentemente dal risultato dei negoziati con la Ue»[6]. Oppure immediatamente dopo il clamoroso risultato il governo sosteneva l'indisponibilità a proseguire nelle politiche concordate nei precedenti memorandum per poter ottenere l'ultima tranche di aiuti da 7 miliardi di euro a fine febbraio. Dal potenziale rifiuto di un ulteriore aiuto da 7 miliardi si è passati a concordarne uno da 86.
Il problema così è sulla natura del cambiamento e persino sulla sua possibilità. Si dice che non vi erano i rapporti di forza sufficienti, ma in realtà si pensa che non vi fossero le condizioni finanziarie per reggere una rottura. Ma questa è la strada possibile? È ipotizzabile disarcionare la finanza a mezzo della finanza? Oppure il cambiamento deve battere strade diverse? Certo si poteva immaginare una maggiore arrendevolezza nella zona euro ma, una volta registrata l'intransigenza, era necessario imboccare comunque la strada del cambiamento oppure dichiararne apertamente l'impraticabilità, con tutto ciò che ne consegue?
A tal proposito non si può sottacere il clamoroso significato del risultato referendario. I greci a netta maggioranza hanno detto non solo No (Oxi) ai piani europei, ma hanno dimostrato che erano disposti a correre il rischio che le code ai bancomat si allungassero ancora o peggio, come sosteneva l'intero establishment continentale, che non vi fossero più poiché sarebbero finiti i soldi nelle banche. Una tale dimostrazione di determinazione verso il cambiamento da far risultare incomprensibile come non sia stata compresa e valorizzata dopo il referendum stesso.
Sul cambiamento c'è una sorta di fraintendimento tra quelli che vi aspirano. Si parla di un ritorno della politica, oggi dominata dall'economia, ma al primo passaggio concreto di verifica si torna alla bismarkiana politica come «arte del possibile», dove però il possibile si esaurisce in ciò che soddisfa l'economia dominante. Qui sembra emergere una sottovalutazione di come il neoliberismo sia giunto in profondità. In La nuova ragione del mondo[7] Pierre Dardot e Christian Laval descrivono il potere intrinseco dei meccanismi economici dominanti, come essi abbiano ricadute su tutte le sfere del vivere sociale, quale sia in definitiva la loro efficienza, la loro presa, la loro razionalità. Non si può ipotizzare di cambiare tale quadro senza traumi, a meno che non si pensi di rimanere nell'ambito della propaganda o peggio nell'arroccamento su posizioni consolidate.
Alain Badiou considerava il tentativo di cambiare sviluppatosi in Grecia come «una vera avventura»[8], ma appunto nelle avventure non vi sono assicurazioni sulla riuscita, il finale felice non è garantito. Dopo decenni di strapotere neoliberista e di involuzioni politico-sociali non è possibile intendere il cambiamento se non come un tentativo pieno di incognite e di sperimentazioni in mare aperto. Un dirigente di Syriza deluso dall'accordo ha affermato che «è meglio un salto nel vuoto che uno nel nulla». Questo è il vero tema su cui vale la pena riflettere. Il caso greco per la prima volta ha messo concretamente a tema il cambiamento, non si tratta di dare pagelle a Syriza e meno che mai di accusare di tradimento i suoi dirigenti, ma di ragionare sui dilemmi del mancato avvio di un processo di cambiamento.
Cosa faremmo in Italia o negli altri paesi periferici se dovessimo fronteggiare una condizione simile? In cosa consiste il cambiamento, stante le attuali condizioni (queste sì, considerate realisticamente e non confuse con i nostri desiderata)? Invece di parlare di «sinistra di governo», definizione che ribalta maldestramente un obiettivo in un profilo identitario, bisognerebbe comprendere davvero come si esce dall'attuale economia dominante, ma non al prezzo di una sua riproposizione gestita in maniera più illuminata. Le difficoltà sono enormi, ma al momento le idee ancora poche, si tratta di riconoscerlo e non di far finta di niente. L'alternativa è problematica da pensare e mettere in pratica, ma rimuoverla dall'orizzonte non aiuta a darci senso, tra cambiamento e conservazione dell'esistente tertium non datur. Il rischio è condannarci alla marginalità perenne. Una condanna a questo punto piuttosto meritata se continuiamo ad auto-censurarci, aspettando tempi migliori che dovrebbero scaturire da non si sa cosa.
NOTE
[1] Dellolanes D., Il contrattacco possibile di Syriza, in «il manifesto», 12 agosto 2015.
[2] Russo Spena G. intervista Brancaccio E., Serve un “piano B”, la sinistra impari dalla debacle di Tsipras, in www.temi.repubblica.it/micromega-online, 16 luglio 2015.
[3] Wolman D., The End of Money, Laterza, Bari, p. 25.
[4] Ibidem, p. 26.
[5] Sapir J., La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra, in www.vocidallestero.it, 24 luglio 2015.
[6] Livini E., Addio austerity, ecco il programma economico di Syriza, in www.repubblica.it, 7 gennaio 2015.
[7] Dardot P., Laval C., La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.
[8] Badiou A., Onze points mélancolique sur le devenir de la situation grecque, in www.liberation.fr, 20 agosto 2015.
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